L’Iraq vota nonostante le bombe

All’indomani delle elezioni parlamentari che i militanti islamici hanno cercato di far fallire organizzando attacchi nei quali sono morte 38 persone e si sono registrati non meno di 110 feriti;  è oggi in corso in Iraq lo spoglio delle schede, con risultati attesi non prima di una decina di giorni (secondo l’ONU) ed una intera […]

All’indomani delle elezioni parlamentari che i militanti islamici hanno cercato di far fallire organizzando attacchi nei quali sono morte 38 persone e si sono registrati non meno di 110 feriti;  è oggi in corso in Iraq lo spoglio delle schede, con risultati attesi non prima di una decina di giorni (secondo l’ONU) ed una intera Nazione che spera in una maggiore stabilità e una migliore governance, mentre le truppe americane iniziano a lasciare il Paese. Milioni di iracheni si sono recati ieri alle urne,  a dispetto di bombe e agguati e il presidente americano Barack Obama ha reso loro omaggio parlando di “pietra miliare nella storia di una nazione che sceglie il proprio futuro attraverso un processo politico”. Al Qaeda aveva tentato di allontanare gli elettori dai seggi diffondendo un comunicato in cui minacciava di colpirli “con la rabbia di Allah e delle armi dei mujaheddin”,  ma a giudicare dall’affluenza l’effetto è stato minimo. La maggioranza delle  vittime è stata registrata a Baghdad, dove l’attacco più grave è avvenuto nei quartieri nord-orientali e ha causato il crollo di due edifici e la morte di 19 persone. Certamente la voglia di democrazia ha prevalso sulla paura delle bombe e dell’integralismo ed ora resta da vedere quale sarà il risultato;  ovvero a quali fra i 6200 candidati andranno i 325 seggi in palio. Obama ha assicurato che “l’America non sosterrà nessun candidato o coalizione” nella delicata fase che porterà alla formazione dell’esecutivo, durante la quale “potrebbero aumentare le violenze”. E il Segretario di Stato Hillary Clinton già guarda al dopo-ritiro: “Costruiremo una relazione solida e permanente con il nuovo governo”. In queste seconde elezioni dopo la caduta di Saddham, sembra, dai primi dati,  la lista ‘Alleanza per lo stato di diritto’ del premier Nuri al-Maliki la piu’ votata dagli elettori , almeno a Baghdad. Secondo quanto rende noto una fonte della commissione elettorale irachena, citata dal sito informativo locale ‘al-Sumaria News’, la lista guidata dal capo del governo e’ stata la piu’ votata nella capitale e in diverse province del centro e del sud dell’Iraq, mentre sembra profilarsi la sconfitta la lista dell’alleanza sciita, che non vince in nessuna zona della Capitale e nemmeno nelle regioni meridionali del Paese, nonostante l’affluenza alle urne fosse stata più alta nelle zone sciite. Intanto alle 12 di questa mattina il nostrio ministro Frattini, che ha ricordato che il voto iracheno fra le m inacce è comunque una “vittoria della democrazia”, ha affermato che “in Iraq ”c’e’ uno straordinario bisogno che la minoranza cristiana sia tutelata”. ”L’Iraq – ha sottolineato il titolare della Farnesina – ha terribilmente bisogno di stabilità, di riconciliazione tra i vari gruppi, tra i sunniti e gli sciiti che debbono continuare a lavorare insieme”. Una volta terminato lo scrutinio delle schede (che si prevede per fine mese) e proclamati i risultati definitivi, il nuovo parlamento dovrà procedere alla nomina del suo presidente e poi a quella del capo dello Stato, il quale a sua volta, sulla base delle indicazioni dei gruppi parlamentari, nominerà il primo ministro. Jalal Talabani, leader della Kurdistan Alliance e presidente iracheno, ha già dichiarato di volersi ricandidare alla presidenza. Considerato il peso del blocco curdo, del quale nessuna delle principali coalizioni potrà verosimilmente fare a meno, è molto probabile che Talabani possa essere confermato al vertice dello stato iracheno. Per la carica di primo ministro, la lotta sembra essere invece molto più serrata, visto l’alto numero di pretendenti: il premier uscente Nuri al-Maliki (State of law), il ministro delle Finanze Boyan Jabor (Isci, Consiglio supremo islamico iracheno, coalizione Ina), gli ex premier Ibrahim Jafaari (Ina) e Iyad Allawi (Iraqiya), Ahmad Chalabi (Ina). Gli osservatori sostengono che il nuovo governo non entrerà in carica prima di tre mesi. Un tempo lunghissimo, durante il quale le forze interessate alla destabilizzazione dell’Iraq potrebbero beneficiare del vuoto di potere ai vertici dello stato. Il nuovo governo dovrà affrontare alcune questioni che mettono in gioco il futuro stesso dell’Iraq: la forma amministrativa dello stato; la redistribuzione dei proventi del petrolio (le province sunnite sono prive di giacimenti, che si trovano perlopiù nelle aree a maggioranza curda e sciita); lo status della città di Kirkuk, capitale del Kurdistan iracheno e cassaforte energetica del paese. Il più grande cambiamento finora avvenuto nell’ex paese di Saddam, è descritto nel rapporto del 25 gennaio 2010 di fDi Markets, un servizio di monitoraggio degli investimenti del Financial Times, che ha dedicato la sua copertina per la prima volta all’Iraq definendolo fortemente attraente per gli investitori: nel 2009 vi sono affluiti 2.52 miliardi di dollari. “Il paese rimane ad alto rischio” scrive l’esperto, “ma la tendenza è quella di un generale miglioramento”. Rilevante di questa cifra è che non riguarda il settore petrolio, che ha già attratto investimenti talmente ingenti da costituire capitolo a parte. Interessante è che anche al netto del petrolio l’Iraq ha cominciato a generare un impressionante flusso di denaro. Come scritto da Maria Annunziata su La Stampa del 6 scorso, “ a indicare il nuovo clima è stato un summit sugli investimenti, avvenuto a Washington, in ottobre, dove si è presentato il primo ministro Nouri al Maliki, accompagnato da quasi tutti i membri del suo gabinetto e dai capi delle commissioni investimento di tutte le province irachena. Gli iracheni hanno portato a Washington 750 progetti in 12 settori, e li hanno ascoltati almeno un migliaio di potenziali investitori, fra cui società come BAE Systems, Boeing, Honeywell e Motorola”. Va poi fatto notare che la maggiore novità di queste elezioni rispetto a quelle del 2005 (con i sanniti che boicottarono il voto) è che le liste principali sono “miste”, aperte cioè a tutte le componenti religiose ed etniche, con cristiani, sunniti, sciiti e laici insieme.
Una evidente indicazione che l’establishment guarda a un superamento delle divisioni al di là degli accordi elettorali fra gruppi. Speriamo sia un autentico segnale di normalizzazione ed avvio verso una ripresa autenticamente democratica in un Paese funestato da  estremisti, teste calde e fanatici religiosi. Va ricordato qui che e i Sunniti sono i seguaci della corrente di maggioranza dell’Islam, con un nome che deriva da sunnah che significa “tradizione” e che riconoscono come autorità religiosa la comunità dei fedeli, come una forma di autodeterminazione ma nel rispetto dell’affermazione di Maometto: La comunità dei credenti non si accorderà mai su un errore”.
Gli sciiti o shia rappresentano la minoranza, staccatasi dal gruppo più consistente dei sunniti dopo la morte di Maometto. Fu la ricerca di un suo successore a provocare tale scissione. Gli Sciiti sottolineano il ruolo particolare di Alì come nuovo leader dopo Maometto, lui che di Maometto era cugino e genero in quanto  sposò la figlia Fatima, unica sopravvissuta del profeta. La Shiia ha prodotto tre forme principali di essa: la Shiia moderata, media, e estrema (quluww, eccesso) diffuse indifferentemente nel mondo islamico, per cui i conflitti originari si ripetono sugli schemi ideologici del passato, ma con un contenzioso politico che muta a seconda dei tempi e delle situazioni politiche generali o interne. Invece il sunnismo, ramo maggioritario dell'Islam, accetta l'interpretazione delle quattro grandi scuole giuridiche (Madhabit) dell'VIII e del IX secolo: l'hanafismo, il malikismo, lo sciafismo e l'hanbalismo. In Iraq lo sciismo si caratterizza dall’inizio come rifiuto dell’inautentico, come radicalismo del no, come lotta contro l’ingiustizia. Nel 680 Hussein guida un esercito di soli 72 uomini contro centinaia di kharagiti (fazione sunnita). Hussein e i suoi seguaci scelgono di non arrendersi e vengono tutti uccisi e fatti a pezzi a Kerbala, da allora città santa sciita. Il martirio di Hussein è al centro della teologia sciita: la sofferenza e il sacrificio acquistano un significato pregnante, a differenza di quanto accade nel sunnismo che sembra poco avvezzo alla sconfitta. Lo stesso Gesù è considerato un grande profeta, ma la sua morte in croce è – per la maggioranza dei musulmani – un fallimento. Così uno studente universitario di Teheran ci spiega cosa significa essere sciita: Vuol dire preferire morire con orgoglio che vivere nella paura e nella schiavitù. Epiù importante pensare un’ora che pregare settant’anni. Se dormi tranquillo mentre un tuo fratello sciita ha bisogno del tuo aiuto, allora non sei un musulmano. Ancora oggi la maggioranza dei sunniti considera gli sciiti dei falsi musulmani, una setta di blasfemi da combattere con tutte le forze e questo rende molto difficile  progettare un futuro comune. Tuttavia, come oggi scrive su Repubblica Bernardo Valli, esperto di politica medio-orientale, la partecipazione al gioco democratico della minoranza sannita in queste elezioni,  rinnova il paesaggio politico iracheno. E favorisce la posizione del Paese nel mondo arabo, dove sussisteva la diffidenza delle grandi capitali sunnite (da Riad al Cairo) nei confronti di un Paese dominato dagli sciiti. E poiché questi ultimi conserveranno l’essenziale del potere, neppure il vicino e solforoso Iran sciita dovrebbe preoccuparsi. In quanto agli americani non possono che rallegrarsi del risultato, a neppure sei mesi dal ritiro delle loro truppe combattenti. I cinquantamila consiglieri e tecnici che si lasceranno alle spalle, fino al dicembre 2011, correranno meno rischi. Anche se nessun conflitto segue un tracciato sicuro. E in Iraq è facile prevedere che “quelli di Al Qaeda” si faranno ancora vivi, dopo la disfatta di ieri.

Carlo Di Stanislao

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