Ricominciamo a vivere in gruppo

L’uomo, diceva Rousseau, è un animale sociale e tutti noi, da sempre viviamo in gruppo: scuola, lavoro, famiglia. Già due persone insieme formano un piccolo gruppo, ma questo non ci impedisce di sentirci incompresi, arrabbiati e soli. Pretese, cinismo, sfiducia, invidia, narcisismo, paure più o meno consce di essere posseduti e invasi, rendono l’altro un […]

L’uomo, diceva Rousseau, è un animale sociale e tutti noi, da sempre viviamo in gruppo: scuola, lavoro, famiglia. Già due persone insieme formano un piccolo gruppo, ma questo non ci impedisce di sentirci incompresi, arrabbiati e soli. Pretese, cinismo, sfiducia, invidia, narcisismo, paure più o meno consce di essere posseduti e invasi, rendono l’altro un invasore e l’incontro una minaccia. Eppure le testimonianze circa gli effetti terapeutici del gruppo sono antiche, dalle rappresentazioni sacre medioevali, alle confessioni pubbliche nelle quali il clima di grossa partecipazione emotiva permetteva la manifestazione di sentimenti abitualmente inespressi. La partecipazione emotiva rappresenta l’elemento unificante sia dei gruppi terapeutici sia di formazione. Le differenze tra i due sono nella specificità di obiettivi e nella durata. Il Gruppo terapeutico è curativo, ha come obiettivo cambiare i comportamenti che generano sofferenza in persone che chiedono aiuto a uno specialista. Il senso del disfacimento del gruppo e della socialità, è tipico dei periodi che seguono eventi traumatici e devastanti, sicchè non meraviglia notare quanto rancore e diffidenza reciproca serpeggi oggi nella nostra comunità, attraversata da asti e risentimenti che non solo, come scrive Srour, allontana da noi gli altri, ma soprattutto ci allontano fra noi e ci impedisce una nuova percezione di società. Questo è il vero e più disastroso effetto di un sisma, divenuto mediatico ed enfatizzato all’eccesso in prima battuta e lasciato nelle nebbie e negli angiporti dell’indifferenza, subito dopo. Siamo depressi, animati da rancore ed invidia, con animi ammutoliti e resi cinici da una totale assenza di autentiche spinte propulsive. La nostra di oggi (e di questi ultimi mesi), non sembra più  essere vita, la storia e il movimento vitale sembrano sospesi, la speranza non sa cosa sperare, l’essere non esiste, si limita ad essere una possibilità della quale non è consapevole. Così si colpevolizzano gli altri e si invidiano tutti coloro che si ritengono in qualche misura privilegiati. Ciò che vedo, in me e negli altri, è soprattutto una belluina, incoercibile invidia, che come una cappa ci gela, ci impedisce di riunirci e ricostruirci come società. L’invidioso infatti ha il ‘vizio’ di svalutare le persone che percepisce come ‘migliori’ di sé e spesso non si limita al pensiero o alle fantasticherie di tipo aggressivo e distruttivo, ma cerca di danneggiare oggettivamente l’invidiato, ostacolandolo in ogni suo progetto o iniziativa, ridendolo ‘colpevole’, per essere apprezzato e stimato più del dovuto,  comunque più di quello che l’invidioso desidererebbe, anche in confronto a sé stesso. La consapevolezza che il soggetto odiato a causa dell’invidia non nutra alcun sentimento negativo nei confronti dell’invidioso,  non migliora in quest’ultimo il rancore e l’ostilità provata. E questa invidia, diffusa e non confessata, è l’espressione più dolorosa del nostro dramma: un vizio morale che nutre e alimenta sentimenti negativi e ritarda quel “rimettersi assieme”, che è l’unico modo per ricominciare,  dopo un evento di questa portata. Il problema vero è che ci siamo disgregati e non riusciamo più, in nessun istante, ad essere felici.  Non siamo più all´epoca di Platone, quando la felicità non aveva misteri: era la conseguenza necessaria di una vita buona, una vita, cioè, passata a cercare la saggezza e la virtù e a condividerla con gli altri e siccome, oggi un uomo è felice quando riesce a soddisfare i propri bisogni naturali e necessari, noi, privi di molte risorse che avevamo, siamo destinati ad una eterna, astiosa infelicità. In Francia, il 26 e il 27 marzo scorsi, una sessantina di filosofi, economisti, psicologi e uomini politici si sono incontrati a Rennes per discutere sulla felicità. Invitati dal giornale Libération al Forum Le bonheur: une idée neuve , hanno cercato una soluzione al problema ed hanno concluso che ad essa si accede solo se si raggiunge una felicità collettiva, di società o di gruppo. Il dialogo e “l’intelligenza collettiva”, sembrano essere l’unico sistema per vincere una infelicità composta di rancore, odio, separazione e reciproca invidia. In quel convegno si è parlato dell´importanza del “fare rete”, per evitare di divenire semplici pedine sulla scacchiera del potere e, al contempo, condividere con altri gioie e dolori, recuperando il senso stesso della identità “tribale” e culturale di appartenenza, impegnandosi  a vivere con gli altri ogni istante di serenità.  Come spiega il filosofo Yves Michaud, siamo tutti responsabili delle nostre scelte e, sebbene la felicità non dipenda esclusivamente da noi, spetta a ognuno di noi scegliere come affrontare le gioie e i dolori che la vita ci riserva, facendolo però in un contesto sociale e di gruppo e sentendosi parte di una coscienza collettiva. Nessun governo, per quanto perfetto, potrà mai risolvere, al posto di singoli gruppi sociali coesi, quello che resta un problema esistenziale centrale: capire, in modo autonomo, che cosa si desideri, che cosa si voglia, come si voglia vivere e in quale luogo, senza demandare ad altri scelte,  che solo noi abbiamo il dovere di fare. Certo, c’è chi ricorderà che per poter realizzare una solida coesione sociale, sono necessari alcuni requisiti come occupazione, casa, reddito, oggi fortemente messi in pericolo. Tuttavia, in mancanza ed in attesa di questi, recuperiamo almeno, per quanto è in noi, il senso di identità e di appartenenza a una collettività, che, decisamente, abbiamo affievolito.

Carlo Di Stanislao

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