Non dite Keynes

Settembre 2011 – Avevamo lasciato Amleto nel castello di Elsinore, in Danimarca; lo ritroviamo a Cernobbio, Lombardia, dove una folla di economisti radunata per fare il punto sulla crisi globale ha trascorso una settimana a vagare per i corridoi di Villa d’Este, qualcuno (si dice) con in mano il teschio dell’euro, ma tutti con un’aria tra […]

Settembre 2011 – Avevamo lasciato Amleto nel castello di Elsinore, in Danimarca; lo ritroviamo a Cernobbio, Lombardia, dove una folla di economisti radunata per fare il punto sulla crisi globale ha trascorso una settimana a vagare per i corridoi di Villa d’Este, qualcuno (si dice) con in mano il teschio dell’euro, ma tutti con un’aria tra il malinconico e il disorientato che non ha contribuito a rincuorare l’opinione pubblica sulle due sponde dell’Atlantico. Non c’è quasi notizia pubblicata sulla stampa da tre anni a questa parte che non preoccupi; ma forse riesce ancora più inquietante lo smarrimento che l’establishment mondiale dell’economia ha mostrato in quei giorni tormentati sul lago di Como. Le dichiarazioni che si sono susseguite durante il forum erano tutte piuttosto deprimenti: le più allegre invitavano a confidare nell’”austerità”. Nulla che comunicasse l’impressione di avere finalmente chiari, se non altro, i termini del problema.

Al punto in cui siamo, in realtà, ci sentiamo autorizzati a pensare che la chiave per decifrare il presente economico sia in fondo a portata di mano, ma che ci si ostini pervicacemente a non raccoglierla. Sembra ormai ovvio che il perno intorno a cui sta girando la crisi è la debolezza della domanda nelle economie occidentali. Il livello medio dei redditi in Europa e negli Stati Uniti, colpito da una condizione di sottoccupazione cronica, dalla concorrenza asiatica, dal rincaro delle materie prime e da politiche del lavoro restrittive, è sceso sotto una soglia critica e ha congelato la produzione e gli investimenti.

Questa diagnosi spaventa, perché il sottoconsumo è il guasto peggiore in cui il motore di un’economia di mercato possa incorrere. Invertire la spirale recessiva che esso genera richiede una politica audace e determinata che non è facile mettere in campo, perché a sua volta presuppone una società che sappia riscoprirsi nazione, accantonando gli interessi particolari e compattandosi intorno a una classe dirigente con le idee chiare. Insomma, quasi un miracolo.

Dobbiamo chiederci se una società che ha trascorso gli ultimi sessant’anni adagiata in un benessere crescente sia ancora abbastanza reattiva, abbastanza tonica da trovare in se stessa la capacità di reagire a una sfida di questa portata. E questo vale per gli Stati Uniti come per tutte le nazioni europee. È chiaro che l’occidente sta per essere sottoposto all’ennesima prova del fuoco, i cui esiti potranno essere soltanto due: un nuovo slancio – una vera e propria rinascita – o un lento declino economico, sociale e politico.

Da un punto di vista strettamente economico significa che la politica deve riprendere in mano le redini del mercato. Quando un treno deraglia bisogna ripararlo e rimetterlo di peso sui binari, e questo genere di intervento possiamo chiamarlo, con una notevole approssimazione ma con la certezza di capirci al volo, “keynesismo”. Peccato solo che la parola magica non sia stata pronunciata una sola volta – non, almeno, a voce abbastanza alta – durante il meeting di Cernobbio. Non è un caso, naturalmente. Questa specie di tacito accordo dura da parecchi decenni, per l’esattezza dagli anni Settanta, quando si decise che su Keynes e sulle sue teorie doveva calare una pesante lastra di piombo. Da allora l’idea stessa di politica economica è stata sottoposta a un progressivo ostracismo, fino ad essere espulsa dalle aule universitarie, dal dibattito pubblico e infine dalle stanze della politica.

Peccato solo che la situazione sia in se stessa molto keynesiana, e lo sia in maniera così evidente da creare imbarazzo in chiunque preferirebbe poterlo negare. L’imbarazzo che circonda il tema degli eurobonds è anche dovuto al fatto che si tratta di una ricetta keynesiana, specie se li si concepisce come uno strumento al servizio di un grande piano di investimenti pubblici per il rilancio dello sviluppo negli stati dell’eurozona. Un debito europeo fornirebbe infatti le risorse aggiuntive che i disastrati bilanci nazionali non potrebbero darci, e permetterebbe a un governo europeo (perché immaginare una finanza federale senza un governo unico sarebbe puerile) di mettere mano a quel New Deal europeo di cui gli europei più avveduti sentono tanto la mancanza.

Ma prima bisogna infrangere il tabù, e proferire la magica parola. E questo richiede un certo coraggio: lo stesso che non abbiamo visto nei primi giorni di settembre, laggiù, su quel ramo del lago di Como.

 

Michele Ballerin

Movimento Federalista Europeo

 

Una risposta a “Non dite Keynes”

  1. Salvatore ha detto:

    Ci hanno fatto versare “lacrime e sangue” convincendoci della necessità di entrare nell’euro.
    Continuano a farci “stringere la cinghia” in nome del risanamento del debito pubblico
    Ci stimolano continuamente a fare acquisti per “far girare l’economia”.
    Dopo 10 anni ci ritroviamo impoveriti, disoccupati, cassa integrati e con una classe dirigente “bunga-bunga”
    E’ vero che “il sottoconsumo è il guasto peggiore in cui il motore di un’economia di mercato possa incorrere” ma non avendo (almeno l’Italia) una classe dirigente con le idee chiare (vedasi l’ultima finanziaria e la sua appendice di ferragosto) come può un cittadino compattari davanti a quella che è non a una classe dirigente ma una casta?
    Sarei felice di sbagliarmi, ma putroppo credo che il sogno europeo abbia i giorni contati. La “Vecchia Europa” è troppo legata ai Nazionalismi. Appena uscirà il primo Paese (Grecia?, Italia?, Portogallo?…) dell’Euro si creerà un effetto valanga che ci travolgerà tutti ed a pagare saranno (come sempre) i Paesi e le classi più deboli.

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