Fiat si fa globale e paga le tasse fuori dall’Italia, Alitalia si vende agli Emirati (che però resistono su debiti ed esuberi) ed Elettrolux si dice disperata ed in continua perdita e pur ribadendo attraverso il suo ad in parlamento, che non vuol fare come Marchionne, chiede a gran voce una soluzione, dopo che, il […]

domandaFiat si fa globale e paga le tasse fuori dall’Italia, Alitalia si vende agli Emirati (che però resistono su debiti ed esuberi) ed Elettrolux si dice disperata ed in continua perdita e pur ribadendo attraverso il suo ad in parlamento, che non vuol fare come Marchionne, chiede a gran voce una soluzione, dopo che, il mese scorso, ha presentato un piano di riduzione dei salari che è stato respinto con forti proteste dai sindacati, preoccupati per la continua perdita del potere di acquisto dei lavoratori dopo due anni di recessione economica e la mancanza di indicazioni sul futuro dei 1.200 addetti di Porcia.
L’ad Ferrario ci informa che in 5 anni la vendita di lavatrici è dimezzata e che per contrastare la concorrenza dei Paesi dell’Est Europa, Electrolux deve ridurre di 3 euro il costo dell’ora lavorat, a pari all’8-9% subito, che diventa circa il 15% nel triennio del piano. Ma i sindacati obbiettano che le richieste dell’azienda comportano un taglio degli stipendi del 40%, perché al -15% annunciato si deve aggiunge un ulteriore -25% determinato dalla volontà dell’azienda di ridurre a 6 le ore di lavoro giornaliero.
L’unico a vederci fuori dalla crisi resta Letta, stretto fra Renzi ed i problemi del Paese, con Confindustria che grida ed i sindacati che strepitano, con la sola solidarietà di tutti quando definisce “barbari” i grillini che però intercettano il disagio generale e tornano a livelli di gradimento del 25%.
Le vicende roventi e recenti di Fiat che si fa FCA, di Alitalia in vendita e di Elettrolux in crisi sono paradigmatiche di un sistema-paese che ormai disfunziona ad ogni livello, in cui nulla si è fatto e si fa per la riduzione del cuneo fiscale e contributivo, per il Codice semplificato del lavoro, per la sperimentazione del contratto di ricollocazione per riconvertire e reinserire i disoccupati nel tessuto produttivo e non continuare a spendere fiumi di soldi in cassa integrazione.
Siamo un Paese che va in crisi per un po’ di pioggia, con voragini nella strade della capitale ed esondazioni ovunque e che non sa investire in innovazioni con un pauroso livello (più della metà di quella europea) di corruzione, calcato in 60 miliardi l’anno.
Siamo bravissimi ad eludere, corrompere ed essere corrotti, ma del tutto incapaci di attuare una politica industriale degna di questo nome che, imitando le best practices di grandi multinazionali come Ibm o Intel, nel corso degli anni accompagni prima lo sviluppo, poi lo sfruttamento, infine l’uscita dai vari settori produttivi in favore di nuovi e investimenti in attività e tecnologie a maggior valore aggiunto, non può che essere votato al declino.
Se poi la cura (letale) per correggere troppi anni di automatismi salariali, governance poco efficienti sia in ambito privato (con azioni che troppo spesso si sono “pesate” e non contate) sia pubblico (dove non sempre è stata la competenze il fattore discriminante delle nomine di vertice di imprese a partecipazione statale e ministeri) e una idiosincrasia al concetto di “libera concorrenza” è individuato nell’abbattimento di un costo del lavoro su cui continua a insistere un prelievo fiscale che non può avere paragoni né con i paesi emergenti né con la maggior parte dei partner europei a partire dalla Germania, il rischio di ritrovarsi a parlare sempre più spesso della crisi di Alitalia o delle tensioni alla Electrolux, per non dire della graduale uscita dall’Italia di Fiat, è concreto.
E dice bene su Fanpage Luca Spoldi: per troppi anni siamo vissuti cullandoli in un limbo di “aurea mediocritas” cullati a una crescita mondiale che, fino al’inizio di questo millenio, ci faceva galleggiare, ma che ora è cesata e mette in evidenza i veri valori muscolari e le diverse tenute delle differenti nazioni.
Secondo Debora Serracchiani “il ministro Flavio Zanonato dovrebbe dimettersi perché non ha gestito con l’equilibrio necessario il delicato incarico della gestione della crisi Electrolux. Come presidente di Regione devo esprimere un vivissimo rammarico per la condotta tenuta dal ministro Zanonato, che ha preferito saltare tutti i livelli di mediazione, inclusi quelli istituzionali, credendo di risolvere la crisi buttando a mare lo stabilimento di Porcia. Per noi è inaccettabile il metodo e soprattutto il merito. Ricordo che il 26 novembre in prefettura a Trieste, alla mia presenza, il ministro Zanonato ha assicurato ai lavoratori di Electrolux che sarebbe andato in visita a Porcia: siccome lo stanno ancora aspettando ci vada lui ora a dirgli che solo loro devono chiudere”.
L’attacco da parte del membro della segreteria del Partito democratico sarebbe arrivato a seguito di una nota inviata da Zanonato a Zaia, nella quale il ministro avrebbe scritto che “i problemi e le difficoltà del gruppo svedese riguardano solo lo stabilimento di Porcia e non quello di Susegana”. Una nota che a detta del ministro sarebbe stata male interpretata da Serracchiani in quanto, spiega il ministro, “la mia nota a Zaia dice il contrario di quanto ha inteso la Serracchiani. Mi concentro su Porcia, le polemiche sono dannose”.
Insomma nessuno ha colpa, ma intanto il Paese perde colpi e pezzi. Soprattutto da noi non nascono degli Augustin de Romanet, cinquantenne di Boulogne-Billancourt, a capo della Caisse des dépôts et consignation (equivalente francese dalla Cassa depositi e prestiti), che nel solo 2011 ha finanziato 500 Pmi e 28.000 microimprese, con partecipazioni importanti nei satelliti Eutelsat (26%), nella società di infrastrutture (autostrade e parcheggi) Eiffage (19,28%), in France Télécom (13,67%) e in Adp, l’ azienda degli aeroporti di Parigi (8%).

La Caisse è il braccio finanziario dello Stato francese, e Romanet è il suo Colbert, un modello per l’ Italia, nei giorni in cui il ministro Tremonti decise di non stare a guardare mentre le aziende d’ Oltralpe fanno shopping in Italia, e invocava il “patriottismo economico”, per impedire, ma senza successo, che il campione nazionale Parmalat finisca alla Lactalis. Romanet e la Caisse sono intervenuti di recente per alleggerire il bilancio di Areva comprandole il 10% della società Stm in suo possesso, e soprattutto per seguire da vicino l’ operazione di General Mills (il gigante americano dei gelati Haagen Dazs) che ha acquisito la maggioranza di Yoplait, numero due degli yogurt.
Ma nulla di simile accade da noi, perché non abbiamo né il senso del liberismo vero né quello della vera difesa nazionale e perché non abbiamo letto mai né Disraeli con il suo coraggio di prendere decisioni, né Jürgen Habermas con le sue teorizzazioni tardo-capitaliste di stampo progressista e marxiano.
Dobbiamo arrenderci ha quanto già già nel 1987 e nel suo saggio “Teoria politica nello stato del benessere”, scriveva Niklas Luhmann: gli schematismi destra/sinistra, progressista/conservatore, ecc. non servono più come categorie interpretative della realtà ed è necessaria una nuova riflessione teorica per orientare la teoria politica nello stato del benessere. Siamo oggi in una società senza vertice e senza centro in cui i concetti di governabilità, di democrazia, di pianificazione devono ritrovare uno spessore concettuale adeguato ai continui ed imprevedibili mutamenti di un ambiente sociale estremamente complesso. Ed in Italia siamo molto distanti dall’aver trovato quel centro.
Sono abruzzese e, come tale, non posso che amare Benedetto Croce. Ora, si sa, che, teoricamente, la filosofia crociana sembra priva di valori e che tutto, attraverso la storia o lo spirito è la storicità, si può giustificare. Ma oggi, guardando all’italia com’è, troverebbe davvero difficile formulare una qualsiasi giustificazione.

Carlo Di Stanislao

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