Terribili lunghe scosse e funesti rincontri negli Appennini potrebbero radere al suolo intere città con decine di migliaia di vittime

“La sismologia non sa dire quando, ma sa dire dove avverranno terremoti rovinosi, e sa pure graduare la sismicità delle diverse province italiane, quindi saprebbe indicare al governo dove sarebbero necessari regolamenti edilizi più e dove meno rigorosi, senza aspettare che prima il terremoto distrugga quei paesi che si vogliono salvare” (Giuseppe Mercalli, 1908). Sono […]


l'aquila-via-roma“La sismologia non sa dire quando, ma sa dire dove avverranno terremoti rovinosi, e sa pure graduare la sismicità delle diverse province italiane, quindi saprebbe indicare al governo dove sarebbero necessari regolamenti edilizi più e dove meno rigorosi, senza aspettare che prima il terremoto distrugga quei paesi che si vogliono salvare” (Giuseppe Mercalli, 1908). Sono passati 62 mesi dal terremoto di L’Aquila del 6 Aprile 2009 ma il nostro Big One è nel futuro. Terribili e lunghe scosse negli Appennini potrebbero radere al suolo intere città con decine di migliaia di vittime, perché le nostre abitazioni non sono affatto sicure, nell’indifferente latitanza dell’intera classe politica europea e italiana che, succube del Fondo Monetario Internazionale e delle multinazionali del terrore, preferisce spendere miliardi di Euro in armamenti e guerre invece di fondare gli Stati Uniti di Europa insieme alla Santa Madre Russia. Perché accadono i disastri? Quanti se ne contano nella storia del nostro Belpaese? Sono in aumento gli eventi estremi o è la vulnerabilità del sistema a essere in crescita unitamente ai sensori? Esperienze recenti di eventi distruttivi hanno riportato alla memoria nazionale i grandi terremoti del passato, primo fra tutti quello di Messina e Reggio Calabria del 28 Dicembre 1908. Molti italiani hanno memoria di quello del Belice nel 1968, del Friuli nel 1976, dell’Irpinia del 1980 e del doloroso sisma di L’Aquila. Ma forse pochi conoscono la storia del Sismografo Agamennone, appartenente alla prestigiosa Collezione Cerulli e delle sue eterne vicissitudini, mute testimoni di una straordinaria avventura dall’Osservatorio Astronomico di Teramo (Collurania) in Abruzzo all’Osservatorio geofisico di Macerata nelle Marche. Importante dal punto di vista scientifico e della storia sismologica, fu il terremoto che colpì duramente la Liguria occidentale e il Piemonte meridionale il 23 Febbraio 1887, cento anni prima della famosa Supernova SN1987A. Gli effetti furono documentati da Torquato Taramelli e Giuseppe Mercalli in uno studio che propose la prima versione della nota Scala Mercalli. In Italia già dall’inizio del Settecento, iniziarono i primi tentativi di rilevazione dei terremoti. L’intensa attività di progettazione di strumenti e di registrazione di fenomeni meteorologici e sismologici, ha sviluppato una fitta Rete di osservatori meteorologico-sismici pubblici e privati, alcuni gestiti da ordini religiosi, a testimonianza del fortissimo interesse della Chiesa Cattolica per la Scienza galileiana. In Piemonte il padre barnabita di Moncalieri, Francesco Denza, con la sua Rete meteorologica delle Alpi e degli Appennini, fu decisivo per lo sviluppo dell’osservazione sismologica nell’Italia settentrionale. Dalla collaborazione fra Denza e Michele Stefano de Rossi, nacque la prima Rete Sismologica Italiana. Dalla storia sismica italiana giunge la dura Lex della Natura. La distribuzione degli eventi tettonici avvenuti nella zona aquilana prima e dopo l’evento del 6 Aprile 2009 (Mw=6.3) dimostra che la vera Apocalisse è nel futuro. Il terremoto di L’Aquila ha insegnato che le faglie attive, pur non essendo individualmente sismogenetiche, possono produrre effetti di danneggiamento aggiuntivi a quelli prodotti dal passaggio delle onde sismiche: anche pochi centimetri di rimobilizzazione del piano di faglia in superficie sono in grado di produrre localmente danni strutturali. La conoscenza delle faglie attive, anche se minori, ha un impatto importante per la pianificazione dell’uso del territorio, l’attività di prevenzione e la ricostruzione. Gli scienziati proseguono gli studi della regione aquilana e delle aree limitrofe per comprendere sempre meglio i meccanismi alla base dei terremoti e definire la pericolosità della regione Abruzzo. Gli studi dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv), anche quelli che non sembrano avere ricadute immediate sulla riduzione del rischio sismico, contribuiscono a costruire, passo dopo passo, una maggiore conoscenza della Terra e dei processi deformativi che portano ai terremoti e ad aumentare la consapevolezza sociale del fenomeno naturale. In quest’ottica il 21 Giugno 2013 è stata inaugurata la nuova sede Ingv a L’Aquila e sono stati presentati i primi risultati del Progetto FIRB Abruzzo, frutto di un Accordo di Programma tra il Miur, la Regione Abruzzo e l’Ingv. Alcune delle ricerche in corso si concentrano sugli aspetti della sismicità, sull’identificazione, in superficie e in profondità, delle faglie attive e sulla risposta della geologia locale allo scuotimento. La distribuzione spazio-temporale della sismicità nell’area aquilana dal 1° Gennaio 2008 al 31 Marzo 2014, mostra eventi di magnitudo locale maggiore o uguale a 2. Tra Gennaio e Dicembre 2009 le reti sismiche Ingv hanno registrato alcune decine di migliaia di terremoti nell’aquilano e, grazie al Catalogo di localizzazioni ad alta precisione, è stata ricostruita con estremo dettaglio la geometria del sistema di faglie che si è attivato durante la sequenza sismica. Tale Catalogo, composto da più di 64mila eventi sismici registrati nel 2009 da circa 70 stazioni, è il più completo mai ottenuto per un terremoto di magnitudo moderata (Mw=6 Richter) su faglie normali. Il Catalogo è stato infatti ottenuto utilizzando procedure innovative di analisi automatica delle forme d’onda registrate per l’individuazione dei tempi di arrivo delle onde P ed S e per la localizzazione automatica ad alta precisione, con errori di localizzazione degli eventi estremamente piccoli, inferiori ai 50-100 metri. Secondo questo studio, il sistema di faglie attivato in Abruzzo è composto da due segmenti di faglia principali immergenti verso sudovest: la faglia di L’Aquila (Paganica) a sud e la faglia di Campotosto a nord. Nella fase finale della sequenza sismica si è attivato un cluster di sismicità, cioè una concentrazione di terremoti di bassa magnitudo, nel settore nord del sistema di faglie, vicino a Cittareale. La lunghezza complessiva del sistema di faglie attivato, che si estende in direzione nordovest-sudest lungo gli Appennini, è di circa 50 km. Le 4 sezioni verticali che seguono (1-4, in rosso nella mappa) mostrano la distribuzione degli eventi sismici avvenuti nella zona aquilana lungo la porzione meridionale della faglia di L’Aquila attivata dalla scossa principale del 6 Aprile 2009. Ha una lunghezza di circa 16 km e mostra una geometria di tipo planare dalla superficie fino a circa 10 km di profondità. Le 8 sezioni verticali che seguono (7-12, in azzurro nella mappa) mostrano la distribuzione degli eventi sismici avvenuti lungo la faglia di L’Aquila; proseguendo verso nord, la faglia di Campotosto, attivata da 3 terremoti di magnitudo maggiore e uguale a Mw=5, mostra invece una geometria listrica. Risulta cioè evidente una progressiva variazione dell’angolo di inclinazione del piano di faglia con la profondità.  Le 7 sezioni verticali che seguono (13-19, in verde nella mappa) mostrano la distribuzione degli eventi sismici avvenuti lungo la faglia di Campotosto. La sezione verticale 20 mostra il cluster di terremoti di bassa magnitudo che si è stato attivato, nella fase finale della sequenza sismica, nel settore nord del sistema di faglie, vicino a Cittareale. L’accuratezza del Catalogo di sismicità ha inoltre permesso di ricostruire la geometria di segmenti di faglia minori delle dimensioni di centinaia e decine di metri. Alcuni esempi sono rappresentati dalle strutture sintetiche ed antitetiche (stessa inclinazione o inclinazione opposta rispetto al piano di faglia) delle dimensioni di centinaia di metri (sezioni 6, 7, 8 e 10); dalle “fault splays”, strutture in cui la faglia principale si ramifica in segmenti minori a causa del minore carico litostatico a bassa profondità (sezione 10). A partire dal terremoto del 6 Aprile 2009 gli scienziati dell’Ingv hanno realizzato un’enorme quantità di studi volti a conoscere meglio il territorio abruzzese e i terremoti che lo hanno colpito in passato e che lo potrebbero colpire in futuro, anche grazie al Progetto FIRB Abruzzo. Tra le tante attività più significative: le indagini geofisiche per ricostruire la geometria sepolta del bacino del medio Aterno, le trivellazioni per la ricostruzione dettagliata dei depositi recenti che riempiono il bacino, le indagini tettoniche e geomorfologiche per la definizione delle faglie attive in superficie ed il loro legame con la faglia principale responsabile del terremoto del 6 Aprile, le indagini paleosismologiche e archeosismologiche per identificare gli eventi sismici che hanno preceduto il terremoto del 6 Aprile. Per la definizione delle faglie attive, oltre agli studi tradizionali che consistono nell’analisi di foto aeree, immagini da satellite e rilievi geologici sul terreno, nell’area colpita dal terremoto del 6 Aprile è stato usato, per la prima volta in Italia, un modello digitale del terreno (topografia) ad altissima risoluzione ottenuto da LiDAR aereo, risultato di rilievi tra il 2009 e il 2013. Il primo prodotto che è stato preparato con questi dati è una Mappa molto accurata delle tracce delle faglie attive che bordano il fianco nordest della valle del medio Aterno e formano un sistema deformativo complesso che è l’espressione in superficie della faglia sismogenetica responsabile del terremoto del 6 Aprile. Questa faglia si estende per una lunghezza di quasi 20 km al di sotto del bacino fino a profondità di una decina di chilometri. Il terremoto di L’Aquila del 2009 ha insegnato che queste faglie attive, pur non essendo individualmente sismogenetiche, possono produrre effetti di danneggiamento aggiuntivi a quelli prodotti dal passaggio delle onde sismiche. Gli effetti di danneggiamento prodotti da un terremoto sulle costruzioni dipendono non soltanto dalla grandezza (magnitudo) dell’evento e dalla sua distanza sia dall’ipocentro sia dall’epicentro ma, in modo anche molto sensibile, dalle caratteristiche degli strati più superficiali del terreno. Se gli edifici sono costruiti in zone caratterizzate da coperture di terreni sedimentari di natura non rocciosa, si possono osservare fenomeni di amplificazione del moto del suolo in grado di provocare un aumento del livello di danneggiamento. I Sindaci delle nostre città ne sono consapevoli? Gli effetti di amplificazione possono presentare una notevole variabilità spaziale che sarà tanto più elevata quanto maggiore sarà la variabilità delle caratteristiche dei terreni. Da un punto di vista fisico accade che l’energia trasportata dalle onde sismiche resti intrappolata negli strati più soffici e superficiali di terreno. Tale effetto è più evidente in presenza di geometrie vallive fluviali o di bacini sedimentari, gli antichi bacini lacustri. Lo studio delle caratteristiche fisiche e geometriche dei terreni superficiali deve essere affrontato in modo interdisciplinare con l’ausilio di indagini geologiche, geofisiche e geotecniche che mirino a riprodurre modelli semplificati, per quanto realistici, contenenti gli elementi chiave per comprendere gli effetti di amplificazione sismica. Da tradurre in norme edilizie assolutamente vincolanti, cioè a prova di decreti mille proroghe e mille condoni. Altrimenti la catastrofe è inevitabile. In seguito al terremoto del 6 Aprile molto è stato fatto sul piano scientifico per caratterizzare la risposta sismica dei terreni presenti nel centro storico aquilano che è costruito su un antico bacino lacustre. È stato possibile costruire delle sezioni geologiche che descrivono le caratteristiche fisiche dei terreni di riempimento e la loro geometria: partendo da questi modelli è possibile studiare la propagazione delle onde sismiche nel centro storico aquilano e modellarne gli effetti di amplificazione. Tale approccio è di notevole importanza per il recupero del patrimonio edilizio e degli edifici monumentali di pregio quali ad esempio la meravigliosa Basilica di Collemaggio. Soltanto tramite una modellazione numerica è infatti possibile stimare quale sia stato il livello di scuotimento sopportato dagli edifici del centro storico, vista la scarsezza di misure dirette. Queste indagini vanne estese a tutte le città italiane, prima degli eventi sismici e vulcanici. Prima delle tragedie. Per illustrare le potenzialità dell’approccio utilizzato gli scienziati dell’Ingv hanno elaborato una sezione geologica di L’Aquila (www.youtube.com/watch?v=GoDxS5h2BHI) che attraversa il centro storico aquilano lungo una direzione circa nord-sud. Il video mostra la simulazione della propagazione delle onde sismiche generate dal terremoto del 6 Aprile 2009 (ore 3:32 AM locali) sulla superficie terrestre. Il sottosuolo dell’area è composto da grandi spessori di sedimenti lacustri (colore giallo nella sezione) che raggiungono profondità di circa 300 metri. Sovrapposto a questi terreni si incontra uno spessore di alcune decine di metri di terreni ghiaiosi più competenti (colore azzurro nella sezione). Localmente, in modo più chiaro nella parte sud del centro storico si incontrano spessori limitati di terreni di caratteristiche molto scadenti chiamati “limi rossi” (colore rosa nella sezione). La presenza di tali terreni dà luogo a fenomeni di intrappolamento dell’energia sismica e alla generazione di onde che viaggiano sulla superficie rimbalzando da una parte all’altra del bacino e anche all’interno della formazione dei limi rossi. Tale effetto è ben visibile dall’analisi dei sismogrammi simulati (sismogrammi sintetici). La modellazione mostra un aumento della durata e forme più complesse passando dai terreni rocciosi (colore verde nella sezione) a quelli meno competenti. L’analisi della differenze tra i sismogrammi prodotti da queste simulazioni e quelli misurati nella realtà offrono informazioni cruciali non solo per la determinazione della sorgente sismica e delle caratteristiche del sottosuolo, ma anche per la previsione dello scuotimento del suolo prodotto da ipotetici eventi sismici. Le onde di colore blu indicano che il suolo si sta muovendo velocemente verso il basso, quelle di colore rosso-giallo indicano che il suolo si sta muovendo verso l’alto. Ogni secondo dell’animazione rappresenta un secondo in tempo reale. Si possono apprezzare anche i movimenti del suolo attorno al Gran Sasso d’Italia. La velocità e l’ampiezza delle onde sismiche dipendono dalle caratteristiche della sorgente sismica, dal tipo di suolo che attraversano e anche dalla topografia. Esse, quindi, non si propagano in maniera uniforme nello spazio. Luoghi posti alla stessa distanza dall’epicentro risentono del terremoto in maniera completamente diversa. L’animazione è generata attraverso una procedura molto complessa: Cirella et al. nel 2009 hanno delineato la storia della frattura del terremoto di L’Aquila attraverso lo studio delle onde sismiche registrate dagli accelerometri e dalle stazioni GPS; è stato costruito un modello tridimensionale della regione Abruzzo interessata che include le principali caratteristiche geologiche attraverso una tomografia di dettaglio (Chiarabba et al. 2010), mappa della Moho, la presenza di suoli soffici come i sedimenti alluvionali delle valli dell’Appennino Centrale, tra cui la valle dell’Aterno e la piana del Fucino; utilizzando il modello 3D e la sorgente sismica, è stata simulata la propagazione delle onde sismiche tenendo conto della risposta sismica locale come l’amplificazione delle onde nei bacini alluvionali (terreni soffici) e l’aumento di velocità delle onde in terreni rocciosi. Le equazioni sono risolte attraverso il software SPECFEM3D (Peter et al. 2011) al cui sviluppo collaborano ricercatori dell’Ingv; i sismogrammi e l’evoluzione dei valori della velocità del suolo sulla superficie terrestre sono visualizzati attraverso Paraview (www.paraview.org). Questo tipo di simulazioni è possibile solo da quando sono disponibili supercomputer che permettono di eseguire calcoli in parallelo. Per questa simulazione relativamente piccola sono stati utilizzati 256 processori, per un totale di 10mila minuti di tempo di calcolo e 512 GB di memoria. Ben oltre le capacità di un semplice iPad. Anche grazie al Progetto FIRB Abruzzo, l’Ingv continuerà molti di questi studi anche per promuovere attività educative di prevenzione del rischio sismico nella popolazione delle zone più pericolose della regione. La sede Ingv di L’Aquila che si è proposta, sin dalla sua apertura, come una concreta realtà sul territorio per la ricerca scientifica e l’approfondimento culturale di rilievo nazionale e internazionale, continuerà a rappresentare un riferimento importante di informazione per le autorità e la cittadinanza con iniziative come “Scienza al Centro”, una serie di incontri scientifico-divulgativi rivolti a tutti, in primis ai media. La comunità scientifica italiana porta avanti studi e ricerche che contribuiranno a comprendere sempre meglio i meccanismi alla base dei terremoti e a definire la pericolosità del territorio italiano. Ma sopratutto cerca di spronare, con i propri risultati e il proprio impegno, la società, quindi i Politici, a sviluppare una cultura della prevenzione sempre più efficace e capillare. Si tratta di un Piano scientifico nato per incentivare e promuovere la ricerca scientifica sul territorio abruzzese per dare un forte impulso alla rinascita fisica e morale della città di L’Aquila, capitale d’Abruzzo e capoluogo culturale in un ambito scientifico a forte valenza applicativa. Il Miur ha infatti concesso un finanziamento per un progetto pluriennale dal titolo “Progetto Abruzzo – Indagini ad alta risoluzione per la stima della pericolosità e del rischio sismico nelle aree colpite dal terremoto del 6 Aprile 2009”, che mira a fornire informazioni scientifiche dettagliate e risposte concrete alla nuova richiesta di conoscenza e sicurezza che viene dall’Abruzzo all’indomani dell’evento che ha colpito L’Aquila e il suo circondario. Iniziative che dovrebbero decollare ben prima delle tragedie naturali. In effetti già da prima del 2009 la sede Ingv di L’Aquila ha ospitato strumentazione tecnologicamente avanzata appartenente alla Rete Sismica Nazionale, alla Rete mediterranea a larga banda MedNet e alla Rete magnetica mondiale Intermagnet. L’eccezionalità del nuovo impegno assunto con il Progetto Abruzzo ha motivato il suo spostamento dal Forte Spagnolo, purtroppo danneggiato dal terremoto, a una moderna e più ampia sede operativa posta nel cuore del centro storico della città, vicina al Duomo. Oltre a favorire le numerose nuove attività scientifiche previste dal Progetto, la nuova sede intende porsi come un punto di riferimento per cittadini e istituzioni, attraverso una serie di iniziative: seminari aperti alla popolazione, incontri tecnici aperti a professionisti e amministrazioni, e workshop scientifici anche a carattere internazionale. Tra queste iniziative vi è la preparazione di una Guida storico-divulgativa ideata per far conoscere il territorio abruzzese nella sua complessità naturalistica e culturale, in relazione agli effetti dei terremoti e di altre calamità. Insieme alle altre iniziative a carattere divulgativo, la Guida punta a creare una nuova cultura della prevenzione diffusa su tutto l’Abruzzo. L’attività prevista per il Progetto Abruzzo è stata inizialmente improntata all’ampliamento delle basi di conoscenza e alla elaborazione di nuovi strumenti operativi utili per la messa a punto di efficaci politiche di prevenzione su tutto il territorio regionale. Il Progetto favorisce lo sviluppo di tali politiche attraverso la costruzione di tre pilastri: la conoscenza del territorio e degli elementi soggetti al rischio; la definizione dei livelli di azione sismica attesi; l’elaborazione di scenari di scuotimento. Le sette Unità di Ricerca che operano nel Progetto concorrono tutte, in forme diverse ma coordinate, al raggiungimento di questi obiettivi. La pubblicazione della OPCM n. 3907 del 13 Novembre 2010, “Contributi per gli interventi di prevenzione del rischio sismico”, nella sezione in cui tratta del finanziamento di Studi di microzonazione sismica, ha parzialmente modificato, e in qualche modo meglio focalizzato, gli obiettivi del Progetto, identificando i professionisti incaricati di tali studi e le amministrazioni che li hanno commissionati come destinatari certi delle conoscenze e degli strumenti che il Progetto fornisce. I responsabili diretti di un Progetto che propone dunque un nuovo modello d’intervento per la prevenzione sismica nelle regioni ad elevata sismicità come l’Abruzzo. Un modello che vede l’Ingv al centro di una forte sinergia tra tutte le componenti del territorio e che si esplica secondo due linee d’azione principali: da un lato migliorando con sistematicità il livello delle conoscenze sulla sismogenesi dell’Abruzzo, sulla sua struttura crostale, sulla propagazione del moto sismico e sulla risposta sismica attesa nelle aree di insediamento, elaborando scenari di scuotimento per tutto il territorio regionale ed evidenziando elementi per la mitigazione del rischio sismico; dall’altro proponendosi come aggregatore e divulgatore di conoscenze su tutti gli elementi di fragilità ambientale necessari per la microzonazione sismica a scala comunale, sia derivanti dal Progetto stesso sia acquisiti nel tempo da altri organi e agenzie o dai professionisti medesimi. È auspicabile che l’ulteriore sviluppo di questo Modello culturale interdisciplinare di Prevenzione del rischio sismico made in Abruzzo-Ingv, possa trovare una collocazione stabile nei futuri piani operativi e finanziari delle amministrazioni interessate, come esempio virtuoso di messa a frutto del grande patrimonio scientifico e culturale italiano per la mitigazione dei rischi naturali, in Abruzzo come nel resto del nostro Paese. Lo dobbiamo alle 311 vittime del terremoto di L’Aquila e ai loro familiari. Ai giovani universitari che quella tragica notte perirono a causa della colpevole ignoranza umana e politica. La storia sismica italiana docet. Il 24 Aprile 1741 un violento terremoto di Magnitudo Mw=6.2 colpì le Marche centro-settentrionali. Gli effetti più disastrosi si ebbero nel Fabrianese e in alcune località della media valle dell’Esino. A Fabriano crollarono circa 40 case e altri 800 edifici rimasero più o meno gravemente lesionati. Crollarono o furono seriamente danneggiate la rocca, la cattedrale, quasi tutte le chiese e i conventi. Anche a Serra San Quirico ci fu un’elevata percentuale di crolli, mentre i vicini villaggi di Sasso e Mergo furono quasi distrutti. I morti furono una decina, i feriti documentati una trentina. Il terremoto causò danni più o meno gravi e diffusi in un’area molto estesa, comprendente circa cento località distribuite su quasi tutto il territorio marchigiano: Pesaro, Urbino, Urbania, Macerata, San Ginesio, Camerino, Matelica e Ancona; anche in Umbria, in particolare a Gubbio, Valfabbrica, Foligno, Perugia e Bevagna. Nel “Ristretto dei danni causati nelle diverse provincie dello Stato Pontificio” si legge l’ammontare dei danni: nella Legazione di Urbino scudi 76121,29, nella Provincia della Marca scudi 238356,52, nella Provincia dell’Umbria scudi 10249,12 Totale 324626,93” (Archivio di Stato di Roma, Buongoverno, serie XI, busta 303). Poco dopo le 11 di mattina una violentissima scossa causò distruzioni in alcune località della provincia di Ancona al confine con l’Umbria. Anche se in genere si tende a considerare Fabriano come la località più gravemente colpita, effetti altrettanto distruttivi si ebbero anche a Serra San Quirico, nei vicini villaggi di Sasso e Mergo che furono praticamente atterrati, e a Fratte Rosa (PU). I danni più o meno lievi causati dal terremoto si distribuirono in un centinaio di località di un’area estremamente estesa. Non si hanno notizie precise in merito a possibili repliche. Si dispone di pochi dati sull’estensione dell’area di risentimento che fu comunque vasta, almeno da Udine a Roma, mentre non si hanno dati precisi sul limite di percettibilità nell’Italia meridionale. La paura che il terremoto si ripetesse fu tale che moltissime comunità marchigiane e umbre decisero che era necessario dare un chiaro segno di pentimento per i peccati commessi. Si decise così in molti casi di cancellare tutte le manifestazioni più mondane: balli, rappresentazioni teatrali, carnevale, per un periodo variabile di anni. Molte località decisero di eleggere proprio compatrono Sant’Emidio, Vescovo di Ascoli Piceno, che nel XVIII Secolo aveva acquistato fama di efficace protettore dai terremoti. Anche in Abruzzo. In effetti la scossa fu avvertita in un’area vastissima, estesa a nord fino al Friuli e alla Lombardia, e verso sud fino alla Puglia. Le fonti storiche non riportano attestazioni precise in merito a scosse successive, fatto di per sé abbastanza sorprendente per un terremoto così forte. Considerato infatti che il Settecento per quest’area è un periodo molto ben documentato, è molto probabile che davvero non ci siano stati aftershocks significativi che di solito dopo scosse di forte intensità seguono in gran numero per mesi. Questo elemento, insieme all’estensione dell’area danneggiata, potrebbe suggerire che la scossa avesse una notevole profondità ipocentrale. Mario Baratta nella sua famosa compilazione “I Terremoti d’Italia” (Baratta, 1901) così descrive il terremoto: “Nel dì 24 aprile 1741, circa le 15h 1/2 ital(iane), si sentì nella Marca una triplice scossa di terremoto per la quale Fabriano soffrì più di ogni altro paese, avendo i danni sorpassata la somma di scudi 100000: in quella tremenda congiuntura si ebbero 7 vittime, tre delle quali sotto le rovine della chiesa dei Cappuccini. Al replicar delle scosse nella chiesa di S. Venanzio diroccò la facciata, in quella di S. Nicolò il campanile che, cadendo, fracassò la chiesa. In Serra S. Quirino i guasti furono immense. In Urbino tutte le case furono danneggiate. In Camerino rovinò la maggior parte delle case, le altre furono rese inabitabili. A Iesi i danni furono notevoli. A Pesaro furono abbattuti vari camini. In Fano non vi fu chiesa o casa che non abbia sofferto. Nella campagna parecchie case furono demolite. S. Severino e Matelica risentirono molti danni, e così pure qualche località dell’Umbria. A Recanati la scossa fu terribile: essa poi fu forte a Trevi, a Forlì e Cesena; a Mantova causò una considerevole fenditura; fu sentita a Roma, a Firenze, a Parma, a Lodi, a Udine e in tutto il Friuli; fu abbastanza sensibile a Vicenza”. A quel tempo l’Umbria e le Marche facevano parte dello Stato Pontificio, caratterizzato da una struttura amministrativa stratificata e da una forte interazione tra organi di governo centrali, periferici e locali. Questo contesto ha determinato la produzione di un vastissimo patrimonio di fonti storiche  utili per la ricostruzione del quadro degli effetti dei terremoti umbro-marchigiani del Settecento. La notizia del terremoto si diffuse e trovò spazio su gazzette a stampa sia italiane sia europee. Arrivò fino in America dove comparve sul primo giornale pubblicato a Philadelphia, il The American Weekly Mercury (http://loki.stockton.edu/~kinsellt/projects/awm/storyReader$27.html) che nel n. 1125 del 16-23 Luglio 1741 riporta testualmente: “London, May 9. They write from Rome, that on the 23d of last Month N.(ew) S.(tyle) they felt a little Shock of an Earthquake, which did no Damage there, but it did a great deal in Ancona and Urbino; all the fine Porcelain in the Palace of the Albany was broke in Pieces, and the Building very much damaged; the Territory of Fabriano and the Town of Cugo have suffered very much; the Church and Dome of Loretto (Loreto) were split by the Shock, and a great many People crush’d by that Accident”. In Gran Bretagna e nelle colonie americane all’epoca si usava ancora il calendario giuliano “Old Style”. A manifestazione della gratitudine provata per non aver subito danni peggiori, il Comune di Fabriano stabilì che per nove anni l’anniversario del terremoto venisse solennizzato con funzioni e processioni e che durante lo stesso periodo in città non si sarebbero tenuti balli, spettacoli e i giochi con cui normalmente, il 24 Giugno, si festeggia il patrono San Giovanni Battista. Malgrado qualche mugugno e occasionali richieste di deroghe da parte della popolazione, in linea di massima il decreto fu rispettato. In generale, questo drammatico evento sismico ha lasciato nella memoria collettiva di molte comunità marchigiane e umbre le sue tracce culturali: riti commemorativi, immagini votive e forme devozionali come il culto di Sant’Emidio, introdotto ufficialmente in numerose località proprio dopo il terremoto del 1741. La ricostruzione di Fabriano fu lenta e complessa: la chiesa di Sant’Agostino (o Santa Maria Nuova) fu riaperta al culto solo nel 1768, mentre il restauro del palazzo comunale durò addirittura fino al 1779, quasi 40 anni dopo l’evento sismico. Varie chiese furono ricostruite con stili del tutto nuovi che ne stravolsero i caratteri precedenti, dando alla città un volto completamente diverso rispetto a come si presentava prima del terremoto (Boschi et al., 2000). Lo studio di Stucchi et al. nel 1991 evidenzia come, da un punto di vista prettamente sismologico-storico, il terremoto di Fabriano del 1741 sia molto importante per almeno un paio di ragioni. In primis per le sue dimensioni. Dalla distribuzione degli effetti macrosismici si ricava un valore di magnitudo equivalente Mw=6.2 che per l’Appennino settentrionale risulta tra i più elevati presenti nel Catalogo Parametrico dei Terremoti Italiani (CPTI11). Per la sua localizzazione. È avvenuto in un’area dove, a tutt’oggi, non sono conosciuti altri eventi di analoga rilevanza. La sua occorrenza, insieme a quella di altri importanti forti terremoti avvenuti in aree limitrofe nel corso del Settecento (1747 Nocera Umbra; 1751 Gualdo Tadino; 1781 Cagli; 1799 Camerino) contribuisce, secondo gli scienziati, in modo significativo alla definizione della pericolosità sismica del settore interno delle Marche. La sismicità dell’Appennino Umbro-Marchigiano e la sua pericolosità sismica, è infatti caratterizzata da 3 fasce parallele: la prima coincide con l’Appennino, sede dei terremoti più distruttivi; la seconda con la porzione interna delle Marche, sede di terremoti forti anche con profondità ipocentrali elevate, significative delle strutture sismicamente attive che si approfondiscono andando dall’Adriatico all’Appennino; la terza fascia è quella del fronte adriatico, quello più esterno della struttura appenninica. In generale la pericolosità sismica dell’intera regione Marche è elevata e alquanto uniforme sul suo territorio. Lo stesso dicasi per le regioni limitrofe. “Funesti rincontri”, ossia avvenimenti, accadimenti improvvisi e gravi, era fra i secoli XVIII e XIX un’espressione molto usata e ricorrente nelle fonti storiche per descrivere eventi molto gravi e inaspettati. Le Dinaridi sono state interessate dal terremoto del 22 Aprile 2014 di magnitudo locale 4.7 (Mw= 4.3), oggetto di studio dei ricercatori Vanja Kastelic e Michele Carafa dell’Ingv, che hanno pubblicato un articolo sul Bollettino di Geofisica Teorica e Applicata, dal titolo: “Earthquake rates inferred from active faults and geodynamics: the case of the External Dinarides” (Tassi di terremoti ricavati da faglie attive e dalla geodinamica: il caso delle Dinaridi Esterne). Il sisma avvenuto alle ore 10:58 italiane in Slovenia, a pochi chilometri dal confine con l’Italia, si è verificato in una zona a pericolosità media, già teatro di eventi di magnitudo 5.5-6.0: a nord il terremoto del 1° Gennaio 1926 di magnitudo momento Mw=5.8;  a sud  i terremoti del 1° Marzo 1870 (Mw=5.6),  del 14 Agosto 1574 (Mw=5.6) e del 12 Gennaio 1721 (Mw=6). La zona è abbastanza vicina ad un’area a pericolosità molto alta che ha avuto eventi storici importanti come quello del 1511 (Mw=7) e quelli più recenti del 1976, del 1998 e del 2004. Il terremoto del 22 Aprile 2014 è avvenuto nel territorio della Slovenia sud-occidentale, appartenente all’unità strutturale delle Dinaridi Esterne, caratterizzata da faglie attive con andamento NW-SE e con cinematica trascorrente destra, ossia con movimento orizzontale in cui ciascun lato della faglia si muove verso destra rispetto al blocco antistante. Le faglie più importanti, ben visibili anche in superficie, sono quelle di Idrija, Rasa e Ravne: tutte queste hanno una lunga storia geologica, ma un’attività recente caratterizzata da bassi tassi di movimento (Kastelic and Carafa, 2012). Ciononostante, a tali faglie sono associabili terremoti storici e recenti forti o moderati (Ribarič, 1982; Bajc et al., 2001; Fitzko et al., 2005; Kastelic et al., 2008; DISS WG 2010; Stucchi et al., 2012). La sorgente del terremoto del 22 Aprile 2014 è la faglia di Pivka, caratterizzata da un minor numero di evidenze superficiali e morfologiche rispetto a quelle prima elencate, comunque unanimemente riconosciuta come una faglia sismogenetica capace di produrre terremoti con magnitudo uguale o superiore a 5.5 (Basili et al., 2013) Richter. Le caratteristiche geometriche e cinematiche della faglia, determinate da studi precedenti (Kastelic e Carafa, 2012), sono in ottimo accordo con i meccanismi focali calcolati per il terremoto del 22 Aprile. Nel 2008 l’area a nordovest di Pivka è stata interessata da una sequenza sismica con eventi di magnitudo locale uguali e inferiori al terzo grado, e meccanismi focali simili alle recenti soluzioni del terremoto (Ložar Stopar et al., 2009). Studi sulle orientazioni delle forze tettoniche di lungo termine hanno confermato l’alto grado di correlazione tra queste stesse e le caratteristiche geometriche della faglia di Pivka, implicitamente riconoscendone la sua predisposizione ad essere attiva nelle condizioni geologiche attuali. Il conseguente calcolo del numero di terremoti attesi per mille anni in questa zona, basato sull’insieme dei dati attualmente a disposizione (Carafa and Kastelic, 2014) dimostra come l’attività della faglia di Pivka sia tutt’altro che inaspettata per la comunità scientifica sia slovena sia italiana sia mondiale. La deformazione e i terremoti di questa regione sono causati dalla spinta della placca Adriatica verso nord. I dati geodetici GPS mostrano un raccorciamento regionale di circa 2 mm/anno: la deformazione prodotta genera terremoti compressivi nelle Alpi orientali (Friuli 1976) e trascorrenti nelle Dinaridi. Il meccanismo focale del terremoto del 22 Aprile è trascorrente e conferma il quadro tettonico descritto. Il terremoto è stato avvertito in Italia soprattutto nella Provincia di Trieste e in tutto il Friuli Venezia Giulia, come confermato dai quasi mille questionari acquisiti dal sito “haisentitoilterremoto.it”. Il grande terremoto del 26 Marzo 1511 (M=6.9) si verificò in un’ampia zona montuosa posta al confine tra Italia e la Slovenia, che comprende le Alpi Giulie e Carniche e le Prealpi Venete. Geologicamente quest’area è la zona di contatto tra i thrust (faglie con movimento di tipo inverso) delle Alpi Meridionali, orientati prevalentemente est-ovest, e le strutture trascorrenti destre ed inverse del sistema dinarico, orientate in direzione nordovest-sudest. La regione rappresenta l’area di scontro tra la Placca Adriatica, che a sua volta rappresenta la parte più settentrionale della Placca Africana, e la Placca Europea. La Placca Adriatica da sud spinge contro la Placca Europea. Lo scontro tra le due è rilevabile dai dati geodetici GPS forniti dai satelliti, che mostrano i vettori di movimento dei capisaldi posti nelle due placche e misurano un raccorciamento regionale di circa 2 mm/anno. La deformazione così prodotta si trasmette alle faglie sia inverse sia trascorrenti del Friuli e della Slovenia, inducendole a generare terremoti. Questo movimento, nel lungo termine, ha determinato il sollevamento delle catene montuose delle Alpi e delle Dinaridi, che come tutte le altre infatti si formano grazie all’attività di faglie con movimento di tipo inverso, cioè dove uno dei due blocchi separati dalla faglia sale sopra all’altro a causa della spinta tettonica. La catena delle Dinaridi Esterne, che si estende dalla Slovenia verso sud lungo la costa orientale dell’Adriatico, si è cominciata a formare nel Cretacico, circa 80 milioni di anni fa, mentre le Alpi Meridionali (parte della catena montuosa delle Alpi posta a sud della Val Pusteria e della Valle del Gail) si sono cominciate a formare in un periodo lievemente più recente. Al giorno d’oggi sono ancora attive le porzioni più esterne delle Alpi Meridionali dove si concentrano le faglie inverse (thrust) che generano sismicità. Al contrario, nella porzione settentrionale delle Dinaridi, in Slovenia, i thrust sono stati sostituiti da faglie trascorrenti che ne ricalcano gli antichi orientamenti. I thrust delle Alpi Meridionali, come spiega molto bene la letteratura scientifica, si sono attivati durante la sequenza sismica del Friuli del 1976 con magnitudo massima 6.5, mentre le strutture delle Dinaridi slovene sono responsabili, oltre che del grande evento del 1511 (M=6.9), dei terremoti del 1926 (M=5.8) di Idrija, e di quelli di Bovec del 1998 (M=5.7) e del 2004 (M=5.2). Tuttavia lo studio del terremoto del 1511 e l’individuazione della faglia che si è attivata durante il sisma, è pieno di difficoltà per diversi motivi. L’evento si è verificato in un’epoca in cui non esistevano strumenti per registrare i terremoti, quindi gli scienziati dispongono soltanto di testimonianze che descrivono le distruzioni e gli effetti sull’ambiente. Il terremoto ha colpito un’area montuosa e di confine, per di più molto frammentata dal punto di vista politico-amministrativo. Nel 1511 erano in corso nell’area violente insurrezioni e rivolte popolari, con conseguenti distruzioni e saccheggi. Alle distruzioni dovute all’uomo si sono sommate le distruzioni dovute al terremoto. Per tutti questi motivi è complessa la ricostruzione e l’individuazione dell’epicentro macrosismico. Alcuni cataloghi riportano due forti scosse avvenute il 26 Marzo, una in Slovenia e l’altra in Friuli (Ribaric, 1979). Oltre alla scossa principale del 26 Marzo, si verificò una seconda forte scossa due giorni dopo che causò gravi ulteriori danni e i cui effetti si sommarono a quelli dell’evento precedente. Ma non si conosce né la magnitudo né la localizzazione dei diversi eventi importanti verificatisi durante la sequenza del 1511 in un’area molto ampia. Le testimonianze degli effetti sull’ambiente non descrivono effetti che potrebbero essere ricondotti a fenomeni di fagliazione superficiale, ossia quei fenomeni che si hanno quando una faglia, in seguito ad un terremoto, taglia la superficie terrestre come accaduto in occasione del terremoto dell’Irpinia nel 1980. Sono state proposte più ipotesi di epicentri del terremoto del 1511 e conseguentemente di faglie responsabili dell’evento: oltre all’ipotesi che l’evento sia stato generato da una delle faglie inverse del Friuli e appartenenti al sistema delle Alpi Meridionali (Cividale), numerosi studi suggeriscono che il terremoto possa esser stato generato in territorio sloveno. Due delle strutture più evidenti della Slovenia occidentale sono la faglia di Idrija e la faglia di Ravne che fanno entrambe parte del sistema dinarico trascorrente destro. La faglia di Ravne è ritenuta responsabile dei recenti e ben documentati terremoti del 12 Aprile 1998 e del 12 Luglio 2004, mentre la faglia di Idrija è ritenuta responsabile dei terremoti del 1° Gennaio 1926 e del 26 Marzo 1511. Quando un evento di tsunami si verificò a Venezia e Trieste (Pasaric et al., 2012) sebbene venga giudicato in letteratura di origine non tettonica e quindi non collegato al terremoto dello stesso giorno (Camassi et al., 2011; Kastelic et al., 2013). Sempre relativamente agli effetti sull’ambiente, si ritiene che, in occasione del sisma, una grande frana a nord della città di Idrija, visibile ancora oggi, abbia ostruito il corso del fiume Idrijca per parecchi mesi (Fitzko et al., 2005). L’area della faglia di Idrija è stata oggetto di numerosi studi geologici: la prima carta geologica risale al 1874 (Lipold, 1874); il geologo Mlakar ha dedicato la sua vita allo studio e all’approfondimento scientifico di questa zona e, per primo, ha individuato la natura trascorrente della faglia (Mlakar, 1969). Un importante giacimento ricco di mercurio, scoperto nel 1490, si trova immediatamente a sud della città di Idrija. La miniera, la seconda più grande al mondo, è stata in funzione per ben 500 anni, sino alla fine del secolo scorso. Ebbene questo ricco giacimento è localizzato proprio in corrispondenza della struttura di Idrija e l’attività della faglia trascorrente lo ha dislocato orizzontalmente per circa 2,5 km come hanno dimostrato i rilevamenti di Mlakar nel 1969. Gli studi geologici successivi di Placer (1982) hanno confermato l’ipotesi della natura trascorrente destra della faglia di Idrija. Più di recente, ulteriori studi geologici hanno permesso di comprendere che la faglia di Idrija è attiva e può generare terremoti. Questo risultato è stato ottenuto anche con l’analisi di modelli digitali del terreno (DEM) ad alta risoluzione (Cunningham et al., 2006) e mediante la realizzazione di rilievi geofisici e trincee paleo-sismologiche attraverso la faglia medesima (Bavec et al., 2013). In definitiva, negli anni, nonostante le diverse proposte di sorgenti responsabili del terremoto del 26 Marzo 1511, si è andata consolidando l’ipotesi che la faglia di Idrija possa essere la principale responsabile dell’evento (Fitzko et al., 2005; Burrato et al., 2008; DISS Working Group, 2010). Alla data del 14 Aprile 2014 erano stati 2616 gli eventi sismici registrati e localizzati dalla Rete Sismica Nazionale dell’Ingv, nel solo mese di Marzo: la media supera gli 84 eventi al giorno, in crescita rispetto al precedente mese di Febbraio 2014. L’unico terremoto di magnitudo locale 4.4 era avvenuto il 13 Marzo nei pressi di Lubiana in Slovenia. Diversi erano stati gli eventi di magnitudo compresa tra 3.0 e 3.8, circa 24, concentrati soprattutto nell’area compresa tra la Calabria meridionale, le Eolie e la Sicilia orientale. Tra questi ricordiamo il terremoto Mw=3.8 avvenuto l’8 Marzo alle 21:52 sui Monti Nebrodi, risentito nelle province di Messina e Catania. Il numero maggiore di terremoti si era verificato nell’area del Bacino di Gubbio con oltre  1800 eventi registrati. Soprattutto tra il 20 e il 24 Marzo c’era stata una intensificazione dell’attività con una concentrazione di eventi in una zona più a nord ovest della precedente, tra Umbria e Marche, a metà strada tra Città di Castello (PG) e Apecchio (PU). Dove sono stati circa 800 gli eventi registrati nel mese di marzo 2014, alcuni di magnitudo compresa tra 3.0 e 3.3, spesso risentiti dalla popolazione. è possibile visualizzare i terremoti mese per mese in una mappa interattiva (story map) della sismicità del 2014 in Italia, finanche interrogando i singoli eventi per avere informazioni sulla magnitudo, la data, l’ora e la profondità. Perché accadono i disastri? Quanti se ne contano nella storia del nostro Belpaese? Sono in aumento gli eventi estremi o è la vulnerabilità del sistema a essere in crescita? Nel nuovo volume, edito da Bonomia University Press, “L’Italia dei disastri. Dati e riflessioni sull’impatto degli eventi naturali (1861-2013)”, a cura di Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, dirigente di ricerca dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, oltre 20 esperti di scienze della Terra e scienze umane tracciano un bilancio storico-scientifico sui disastri di origine naturale e sui loro impatti sociali, economici e culturali. Oggi il costo medio di questi eventi supera i 5,5 miliardi di euro l’anno. Decine di grafici, mappe tematiche e carte di sintesi illustrano i dati presentati. Studiare la storia della sismologia italiana attraverso strumenti e documenti storici originali, spiegare il magnetismo terrestre e le sue interazioni con il Sole attraverso exhibit interattivi, entrare nel cuore del Pianeta Terra con filmati visibili da una postazione 3D, sono i percorsi didattici per tutti, che ogni città d’Italia dovrebbe ospitare in pianta stabile nei propri musei della scienza. “Osservati, osservanti, osservatori: 250 anni di scienza dei terremoti in Italia” (www.250anni-sismometria-italiana.it) è la mostra inaugurata a Torino presso la Ex-Manifattura Tabacchi in Corso Regio Parco, Martedì 6 Maggio 2014, in occasione delle “Settimane della Scienza 2014”. La retrospettiva che ha ricevuto l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica, realizzata dall’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia e dal CentroScienza Onlus di Torino, in collaborazione con il Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura (Cra-Cma), l’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e numerosi enti di ricerca pubblici e privati, sarà visitabile fino al prossimo 29 Giugno. La manifestazione è realizzata con il sostegno delle Compagnia di San Paolo e il contributo della Regione Piemonte. L’iniziativa si inserisce nel quadro delle manifestazioni dell’Anno Mercalliano, in ricordo della figura di Giuseppe Mercalli, scienziato conosciuto in tutto il mondo per aver legato il suo nome alla Scala d’intensità con cui è possibile classificare gli effetti dei terremoti, a cento anni dalla sua scomparsa. L’Italia vanta una delle più antiche tradizioni al mondo nei settori dell’osservazione scientifica dei terremoti. I primi concreti tentativi di registrazione in Italia, prima con semplici sismoscopi, poi con strumenti sempre più sofisticati, risalgono già agli anni Trenta del XVIII secolo. E per diversi motivi, il Piemonte è da annoverare tra i luoghi più importanti di questa storia scientifica: la misura dei terremoti ha radici a Moncalieri, dove nel 1858 padre Francesco Denza fondò una Rete per la raccolta di dati meteo che contribuì anche alla prima Rete italiana di osservazione sismologica strumentale. La famosa Scala Mercalli nacque dai rilievi di Torquato Taramelli e Giuseppe Mercalli sul territorio ligure e piemontese, colpiti dal sisma del 23 Febbraio del 1887. “È stata proprio l’intensa attività di progettazione e realizzazione di strumenti di registrazione sismica a dare vita in quegli anni a una densa Rete di osservazione meteorologico-sismica – osserva il Presidente dell’Ingv, Stefano Gresta – negli ultimi 25 anni i Progetti TROMOS e SISMOS del nostro Istituto hanno condotto un censimento e una sistematica operazione di recupero e valorizzazione scientifica e culturale di osservatori, strumenti e documentazione di questa intensa e unica tradizione scientifica, il cui studio consente una ricostruzione documentata dell’originale percorso disciplinare della sismologia in Italia”. L’esposizione propone 70 strumenti restaurati dall’Ingv, documenti e oggetti storici, che proiettano il visitatore verso le ricerche più interessanti realizzate in 250 anni di storia della sismologia italiana. Con il percorso “Esplorando la Terra”, curata da Giuliana D’Addezio ricercatrice delI’Ingv, inoltre, è possibile entrare nel cuore del Pianeta Terra attraverso filmati 3D, studiare il magnetismo e il moto delle placche con exhibit interattivi, seguire il monitoraggio dei fenomeni sismici e vulcanici e, infine, dall’installazione di una moderna stazione sismica, osservare le onde originate dai terremoti prodotti artificialmente dai visitatori. La mostra è occasione per una grande opera di sensibilizzazione sui temi del Rischio Sismico e delle strategie per una società più sicura, oltre che opportunità per il recupero di numerosi importanti beni culturali scientifici. Settanta strumenti di sismologia e documenti storici originali narrano la storia di questa appassionante avventura scientifica e dei suoi protagonisti. Una storia che l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia ricostruisce attraverso i suoi pluriennali Progetti Tromos e Sismos. Alcuni degli strumenti ottocenteschi in mostra tornano a Torino 130 anni dopo l’Esposizione Generale Italiana del 1884, nella quale furono presentati per la prima volta a un pubblico non specialistico. L’Esposizione fu infatti l’occasione per presentare alcune centinaia di strumenti, studi, progetti della sismologia e meteorologia dell’Italia finalmente unita. Una storia che sicuramente gli Abruzzesi conoscono molto bene. Terremoto, prevenzione, misura del sisma e conoscenza della sismologia abruzzese nei secoli. Un tema dal sapore antico che dovrebbe essere obbligatorio nelle scuole pubbliche e private di ogni ordine e grado, con annesse visite guidate agli Osservatori geofisici italiani, unitamente alle capillari esercitazioni di Protezione Civile. La Scienza sismologica ha fatto progressi negli ultimi anni. Che dire della cultura scientifica di uno strumento di misura tutto aprutino, da molti esperti giudicato importante per valorizzare tra i giovani il nostro ricco patrimonio di conoscenza delle Scienze della Terra? Dov’è finito il glorioso sismografo Agamennone della Collezione Cerulli magicamente “teletrasportato” via da Collurania? Non poche fonti (Gli strumenti sismici storici – Italia e contesto europeo, I.N.G., Bologna 1990; Memorie delle osservazioni, Maggini M., 1929, Vol. I, Regio Osservatorio Astronomico “V. Cerulli”; Agamennone G., Sopra un tipo di sismografo a pendoli orizzontali, 1907, Bollettino Società Sismologica Italiana 12) ritengono che dall’Osservatorio Astronomico di Teramo (Collurania), la celebre istituzione scientifica fondata nel XIX Secolo dall’astronomo Vincenzo Cerulli, il prezioso sismografo Agamennone sia silenziosamente “atterrato” all’Osservatorio geofisico di Macerata. Illuminanti furono, qualche anno fa, le dichiarazioni rilasciate al sottoscritto dal celebre compianto Professor Piero Tempesti, astronomo e direttore della Specola di Collurania molti anni fa, nel corso di un’intervista esclusiva pubblicata sul settimanale diocesano L’Araldo Abruzzese e sul mensile Piazza Grande. “Per quanto riguarda il vecchio sismografo Agamennone della collezione privata del Cerulli – ricorda Piero Tempesti – io l’ho lasciato in Osservatorio nel 1982 ed era perfettamente funzionante! Ma c’è una storia curiosa che desidero rivelare. Nei primi anni ’70 ci arrivò da L’Aquila un nuovo sismografo che volevo subito mettere in funzione e così furono preparate le basi. Curiosamente occorreva una particolare carta sismografica che veniva fornita solo dagli USA. Allora chiesi all’Istituto americano incaricato della distribuzione, di spedirci al più presto il materiale che però veniva inviato gratuitamente. Ma la nostra dogana pretendeva la fattura: bene, non siamo riusciti a sdoganare la carta! Scrissi all’Istituto Usa, nella speranza di ottenere una fattura pro forma, ma nulla di nulla: dopo la loro risposta un po’ bruttina, rinunciammo alla carta ed al sismografo, ringraziando la burocrazia dell’epoca!”. Tempesti arrivò a Collurania alla fine del 1958 (vi rimarrà fino al 1982) subito dopo la soppressione della figura del Direttore residente e il trasferimento della direzione dell’Osservatorio a Napoli nella persona del cattedratico di Astronomia (1956). Fatto gravissimo perché privò l’Osservatorio di Teramo della guida di un responsabile che, direttamente coinvolto nelle sorti dell’Istituto (fondato dal Cerulli e donato allo Stato per amore della libera scienza) ne difendesse il nome e lo sviluppo in anni in cui l’Astronomia italiana si trasforma in Centri di scienza sempre più competitivi tra loro nella ricerca di quei finanziamenti e di quel personale indispensabili per un moderno sviluppo della Scienza di Urania. Grazie alla dedizione e all’entusiasmo del prof. Tempesti, l’Osservatorio Astronomico di Collurania (allora l’inquinamento luminoso non era nocivo come quello odierno) evitò il tracollo totale e conobbe una nuova florida stagione scientifica. Nel corso degli anni, grazie all’impegno di tecnici e scienziati, Collurania è tornata sulla cresta dell’onda in ambito scientifico. Tuttavia, la storia secolare del sismografo Agamennone di Cerulli, di questo gioiello della scienza aprutina che nell’Anno Mercalliano avremmo preferito di nuovo nella sua legittima patria e sede, in verità, pochi la ricordano. Anzi, molti ne nutrono un incomprensibile timore, se non un’esilarante ostilità, al solo doloroso tragico pensiero. Solo un articolo del 1990, a firma del dottor Sergio Raccichini, pubblicato sul bel volume “Gli strumenti sismici storici – Italia e contesto europeo”, edito dall’allora Istituto Nazionale di Geofisica, richiama alla memoria vicissitudini e fatti per certi versi sconcertanti che interessano il nostro patrimonio scientifico e culturale attraverso i secoli. Lo strumento Agamennone della Collezione Cerulli, era costituito da una colonna di ghisa di forma leggermente conica, alta un metro e del peso di circa un quintale, solidale con la base direttamente connessa, tramite tre bulloni, ad un pilastro sismico. La colonna portava alla sommità una piattaforma di ghisa destinata all’alloggiamento delle punte superiori di sostegno dei pendoli orizzontali, del tamburo e dell’apparato scrivente. Premetto che la fonte è assolutamente attendibile ed affidabile e che Raccichini all’epoca ringraziò personalmente un infaticabile tecnico ed amico dell’Osservatorio di Teramo (Collurania) per l’intelligente e fattiva collaborazione e per l’impegno dimostrati nell’opera di recupero dello strumento, insieme a Renato Pollastrelli, meccanico dell’Osservatorio geofisico sperimentale di Macerata. I fatti meritano una sceneggiatura cinematografica da Oscar. All’Osservatorio astronomico di Collurania funzionò per anni una Stazione sismica le cui ultime registrazioni si riferiscono agli eventi ascolani del 1972. Perché la storia dell’osservazione dei terremoti in Italia è stata intimamente connessa a quella dell’osservazione meteo ed astronomica. Indagini condotte nel 1985 dall’Osservatorio geofisico di Macerata per rintracciare lo strumento in questione, rivelarono che il sismografo a pendoli orizzontali Agamennone, di cui era documentata la presenza e l’efficienza a Collurania fino al 1973, era stato smontato! “Alcune parti giacevano accantonate all’aperto, altre erano scomparse per finire chissà dove – ricorda il prof. Piero Tempesti – mentre il pesante basamento si trovava in una rimessa fra gli oggetti da buttare. Ridotto com’era a ferro vecchio, il sismografo era destinato a una fine ingloriosa”. L’Osservatorio geofisico di Macerata in collaborazione con Collurania decise di organizzare il recupero dello strumento. L’operazione di restauro con la ricerca e la ricostruzione delle parti mancanti del sismografo, fu avviata e conclusa nel 1987 quando venne realizzato il piccolo museo interno della Stazione sismica di Macerata che ancora oggi pare ospiti lo strumento del Cerulli. Il prototipo del sismografo Agamennone fu costruito nel 1907 da Luigi Fascianelli del Regio ufficio di meteorologia e geodinamica di Roma sulla base di principi fisici dettati da Giovanni Agamennone allora direttore dell’Osservatorio geodinamico di Rocca di Papa. Lo strumento realizzato per un concorso a premi del 1906 relativo alla costruzione di apparati sismici, doveva registrare il moto orizzontale/verticale dei terremoti vicini, essere il più semplice possibile e avere un ingrandimento del movimento del suolo di 40/50 volte. Agamennone ideò il sismografo e riuscì ad agevolare l’analisi dei sismogrammi: le due tracce Nord-Sud e Est-Ovest dei pennini erano vicine sullo stesso foglio di carta affumicata (apparato scrivente) avvolto e fissato a un tamburo di 1607mm di circonferenza (un giro ogni 30 minuti). Il peso delle masse oscillanti era di kg 50. Un sismografo di questo tipo era installato all’Osservatorio di Teramo perché la testimonianza diretta del prof. Tempesti è veritiera. “Se ne ha riscontro nell’atto con cui il 28 Giugno 1917 l’astronomo Vincenzo Cerulli, fondatore e proprietario di Collurania – precisa il prof. Piero Tempesti – donò l’Osservatorio alla comunità scientifica italiana: nell’elenco della strumentazione donata è indicato anche il sismografo Agamennone”. L’astronomo e direttore di Collurania, Maggini, riporta nelle sue Memorie (1929) che “il sismografo Agamennone è collocato in una piccola stanza al piano terreno della Specola; esso è protetto dalle correnti d’aria. Questo strumento funziona benissimo e dà registrazioni assai nitide”. Fino al 1965 lo strumento fu affidato al tecnico Pasquale Ciceroni e funzionò fino al 1973 per essere poi smontato nel 1974. Subì diverse modifiche rispetto al prototipo presentato a Strasburgo nel 1907. Il sismografo è costituito da una colonna di ghisa alta 105 cm che forma corpo unico con la base di ancoraggio al suolo e con la piattaforma-sostegno dei pendoli. La massa pendolare è formata da 5 dischi di ghisa (diametro 25 cm) per un peso totale di kg 190. Il tamburo con la modifica di Ciceroni compie un giro orario e consente di cambiare la carta ogni 2 giorni. L’operazione di restauro fu dunque eseguita dal tecnico di Collurania che per anni mantenne in vita lo strumento, da Renato Pollastrelli e da Sergio Raccichini dell’Osservatorio di Macerata. Oggi il sismografo è utilizzato nel settore Informazione-Educazione al terremoto: si presta molto bene per spiegare agli studenti che cos’è il sismografo. È un gioiello della Scienza aprutina che consente di ottenere un’immagine grafica del terreno grazie al suo sistema d’amplificazione ben visibile, al contrario dei meno didattici sismografi moderni a pendolo. A partire dal 1906 furono numerosi gli osservatori sismici italiani che installarono strumenti simili. Il sismografo, nelle due versioni a due componenti (50 kg) e tre componenti (50 kg componenti orizzontali e 20 kg componente verticale) era diffuso tra il 1906 e il 1934 in almeno 14 esemplari. I cittadini aprutini faranno di tutto per riportare in “patria” il loro prezioso strumento del Cerulli, insieme agli amici di Collurania, dell’Ingv, dell’Infn e dell’Accademia. Perché il Sismografo Agamennone è l’omaggio dell’Abruzzo e della Scienza Aprutina all’Anno Mercalliano.

© Nicola Facciolini

Foto Manuel Romano

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