Nagasaki e Hiroshima, settantesimo anniversario del bombardamento nucleare americano

“È per noi tempo di applicare la stessa equazione di Einstein per far sgorgare l’infinito potenziale che esiste nel profondo del cuore di ogni persona e liberare il coraggio e l’azione delle persone comuni per creare un’indomabile forza di pace. In ultima analisi, questo è l’unico modo di porre fine agli incubi nucleari della nostra […]

“È per noi tempo di applicare la stessa equazione di Einstein per far sgorgare l’infinito potenziale che esiste nel profondo del cuore di ogni persona e liberare il coraggio e l’azione delle persone comuni per creare un’indomabile forza di pace. In ultima analisi, questo è l’unico modo di porre fine agli incubi nucleari della nostra epoca. In questa operazione, nessuno ha un ruolo più essenziale da ricoprire dei giovani”(Daisaku Ikeda). Acqua agli assetati, acqua ai sopravvissuti, acqua per alleviare l’arsura nucleare! Hiroshima, Peace Memorial Park. Le 8:15 del mattino (UTC 23:15) cristallizzano per la 70.ma volta e per sempre l’ora nucleare del 6 Agosto 1945 quando da una quota di 580 metri esplode nel cielo della città giapponese l’ordigno nucleare americano Little Boy di 15 chilotoni, scatenando l’inferno sulla Terra. “Siamo tutti insieme in un viaggio da Ground Zero a Global Zero, ovvero un mondo libero dalle armi di distruzione di massa”, dichiara il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, sottolineando che “finché esisteranno gli armamenti nucleari saremo costretti a vivere sotto un’ombra nucleare”. Occorre “realizzare un mondo libero dalle armi nucleari attraverso misure realistiche e pratiche, e questa missione vede schierato in prima linea il Giappone, l’unico Paese al mondo ad aver subito, settant’anni fa, bombardamenti nucleari”, osserva il Primo Ministro giapponese, Shinzo Abe, alla cerimonia di commemorazione delle vittime della bomba nucleare sganciata dall’aviazione statunitense su Hiroshima, seguita tre giorni dopo da quella su Nagasaki. “Presenteremo una nuova risoluzione all’Assemblea dell’Onu del prossimo Autunno per l’eliminazione delle armi nucleari”, rimarca il Premier Abe. Alla cerimonia nel Memoriale della Pace di Hiroshima partecipano nel 2015 i rappresentanti di un centinaio di Nazioni. Tra questi, per la prima volta, c’è un’esponente del Governo in carica negli Stati Uniti d’America, appositamente inviata da Washington. Si tratta di Rose Gottemoeller, sottosegretario di Stato al controllo delle armi e alla sicurezza internazionale. Criticando le proposte governative in materia di difesa, i Vescovi del Giappone hanno ricordato in un messaggio che “la Pace non è un argomento politico, ma un fatto umano”. E “il Giappone può contribuire alla Pace non con nuove armi, ma con le sue attività nella crescita mondiale”. Il numero dei 292.325 sopravvissuti Hibakusha (被爆者) al doppio olocausto nucleare nipponico si riduce con il passare del tempo: nel Marzo 2012 erano 210.830, cioè 8.580 in meno rispetto al 2011; nel Marzo 2013 erano 201.779, cioè 9.051 in meno rispetto al 2012, con l’età media salita a 78 anni. Oggi appena 183.519. Sono i moderni Samurai della Verità Nucleare, gli autentici combattenti contro l’oblio, il nostro peggiore incubo alimentato dai Warlords. Il vento della Pace e della corretta informazione scientifica soffia dal Giappone: il messaggio significativo tuttavia non è stato ancora ben compreso dall’Umanità. Le guerre perdurano sulla Terra, si contano centinaia di vittime ogni giorno. La corsa agli armamenti nucleari tattici e strategici continua sotto le mentite spoglie delle buone intenzioni di pace che producono guerre industriali pubbliche e multinazionali e crisi come quella del Corno d’Africa, della Siria, della Libia e dell’Ucraina dal potenziale genocidario indescrivibile. Le iniziative culturali, le pedalate mondiali, le mostre, i film e le commemorazioni ufficiali per commemorare il settantesimo anniversario della nuclearizzazione di Hiroshima e Nagasaki, non hanno ancora fatto giustizia della verità sull’energia nucleare di pace e sul terribile appellativo attribuito ai Ragazzi del ’45, in particolare a Paul Warfield Tibbets, definito il “fattorino della morte”, senza che l’Umanità abbia realmente compreso la causa di quell’inferno nucleare. Da addebitare non agli scienziati che inventarono e costruirono negli Usa gli ordigni (fu Albert Einstein ad esprimere queste forti preoccupazioni al Presidente degli Stati Uniti d’America nella famosa lettera) bensì al dittatore Adolf Hitler ed ai suoi alleati Mussolini e Tojo che scatenarono la Seconda Guerra Mondiale, producendo morti e distruzioni ancora oggi incalcolabili. Il generale Paul Warfield Tibbets, l’uomo che il 6 Agosto del 1945 pilotò il bombardiere “Enola Gay” su Hiroshima, si è spento all’età di 92 anni nella sua casa in Ohio il 1° Novembre 2007. Tibbets era ai comandi della Superfortezza B-29 che trasportò la bomba nucleare Little Boy sulla città giapponese. Pur sapendo che si trattava di una missione speciale, ignorando il carico di morte che portava con sé, il pilota (all’epoca trentenne) aveva voluto dare all’aereo il nome della madre. “La bomba fu sganciata alle 8:14 di mattina – racconterà Tibbets nel rapporto ufficiale – e se Dante fosse stato con noi sull’aereo, sarebbe rimasto atterrito. La città che avevamo visto così chiaramente pochi minuti prima nella luce del Sole, era ormai un’orribile chiazza, scomparsa completamente sotto una spaventosa coltre di fumo e fuoco”. Il racconto del pilota non finisce di impressionare, con altri particolari agghiaccianti. “Ci fu un’esplosione terribile, molto forte, inimmaginabile, vicino al centro cittadino: vedemmo una colonna di fumo che si innalzava rapidamente e gli incendi che scoppiavano”. La bomba, frenata da un paracadute, era diretta sul centro di Hiroshima: il sensore altimetrico era tarato per effettuare lo scoppio alla quota di 600 metri dal suolo, dopo 43 secondi di caduta libera. Immediatamente dopo lo sgancio, l’aereo fece una inversione di 178 gradi, prendendo velocità con una picchiata di circa 500 metri e perdendo quota, allontanandosi alla massima velocità possibile data dai 4 motori ad elica. Cosa accadde alle ore 8:15 del 6 Agosto 1945 quando la luce nucleare di mille Soli avvolse in un picosecondo la città di Hiroshima vaporizzandola all’istante? L’esplosione si verificò precisamente a 580 metri dal suolo. L’enorme deflagrazione che distrusse completamente il 90 per cento degli edifici della città, uccise subito 70mila persone ma nei cinque anni successivi le ferite causate dall’esplosione e dalle radiazioni nucleari elevarono il bilancio definitivo dei morti a 297.684. I 51 templi della città furono rasi al suolo dalla forza dell’esplosione. Nel 1946 il Municipio di Hiroshima tirerà il bilancio dell’esplosione: 122.338 fra morti e dispersi, 30.524 feriti gravi e 48.606 feriti lievi, per un totale di 201.468 persone colpite. Il rudimentale innesco esplosivo a impatto di Little Boy riesce a far sviluppare solo l’1,3 percento (equivalente a 15mila tonnellate di tritolo) dell’energia nucleare presente nel materiale fissile della bomba. Testimone oculare del bombardamento di Hiroshima fu il padre gesuita e futuro generale, dell’ordine religioso di Papa Francesco, Pedro Arrupe che all’epoca si trovava in missione in Giappone nella comunità cattolica nipponica e che portò aiuto ai sopravvissuti. “Ero nella mia stanza con un altro prete alle 8.15 – scrisse padre Arrupe – quando improvvisamente vedemmo una luce accecante, come un bagliore al magnesio. Non appena aprii la porta che si affacciava sulla città, sentimmo un’esplosione formidabile simile al colpo di vento di un uragano. Allo stesso tempo porte, finestre e muri precipitarono su di noi in pezzi. Salimmo su una collina per avere una migliore vista. Da lì potemmo vedere una città in rovina: di fronte a noi c’era una Hiroshima decimata. Poiché ciò accadde mentre in tutte le cucine si stava preparando il primo pasto, le fiamme, a contatto con la corrente elettrica, entro due ore e mezza trasformarono la città intera in un’enorme vampa. Non dimenticherò mai la mia prima vista di quello che fu l’effetto della bomba atomica: un gruppo di giovani donne, di diciotto o venti anni, che si aggrappavano l’un l’altra mentre si trascinavano lungo la strada. Continuammo a cercare un qualche modo per entrare nella città, ma fu impossibile. Facemmo allora l’unica cosa che poteva essere fatta in presenza di una tale carneficina di massa: cademmo sulle nostre ginocchia e pregammo per avere una guida, poiché eravamo privi di ogni aiuto umano. L’esplosione ebbe luogo il 6 Agosto. Il giorno seguente, il 7 Agosto, alle cinque di mattina, prima di cominciare a prenderci cura dei feriti e seppellire i morti, celebrai Messa nella casa. In questi momenti forti uno si sente più vicino a Dio, sente più profondamente il valore dell’aiuto di Dio. In effetti ciò che ci circondava non incoraggiava la devozione per la celebrazione per la Messa. La cappella, metà distrutta, era stipata di feriti che stavano sdraiati sul pavimento molto vicini l’uno all’altro mentre, soffrendo terribilmente, si contorcevano per il dolore”. La detonazione della seconda bomba nucleare (niente affatto atomica!) della storia “made” in Usa, denominata per l’occasione Little Boy, sprigionò un’energia pari a 15 chilotoni di esplosivo convenzionale Tnt, cioè l’energia liberata dalla fissione nucleare di 60 chilogrammi dell’isotopo Uranio-235 che costituisce circa lo 0,7 percento dell’Uranio presente in Natura. Spaccando con i Neutroni ogni atomo di un solo grammo di U-235 si può ottenere un’energia 12,5 milioni di volte superiore a quella rilasciata da un grammo di esplosivo chimico. La catena di comando Usa funzionò alla perfezione, come sempre accade quando si vuole vincere una guerra mondiale terribile come quella scatenata da Hitler, Mussolini e compagni il 1° Settembre 1939. Tre giorni dopo l’impresa su Hiroshima, sempre al comando di un B-29, Tibbets sorvolò la città giapponese di Nagasaki per osservare le condizioni meteo, prima che un altro aereo statunitense scaricasse il secondo ordigno nucleare. Se occorre riflettere sull’era nucleare nella quale siamo ancora immersi, perché l’incubo dell’olocausto non è affatto finito, nonostante il mantra istituzionale delle “guerre umanitarie” scatenate e condotte in nome degli affari, l’apocalisse termonucleare sulla Terra non è un capitolo chiuso: oggi esistono ordigni più piccoli, efficienti e devastanti di quelli che 70 anni fa distrussero le due città giapponesi. Di tale potenza da scatenare sui pochi sopravvissuti la peste nucleare per secoli. La violenza politica è il primo campanello d’allarme per la Pace mondiale, unitamente ai missili impazziti ed ai folli “stile Oslo” che oggi sono in grado di confezionare ordigni chimici in fattoria e un giorno chissà cos’altro. Il 5 Agosto 1945, il Presidente degli Stati Uniti, Harry Truman, ordinò il lancio della bomba nucleare sul Giappone, motivando chiaramente l’operazione nelle settimane precedenti: porre fine alla Seconda Guerra Mondiale con la resa incondizionata dell’Impero giapponese, risparmiando la vita a centinaia di migliaia di giovani soldati americani. L’invasione del Giappone, infatti, era stata valutata con molta attenzione dagli strateghi militari. E i gloriosi Samurai, per difendere le loro case, avrebbero fatto strage degli americani con le loro lame d’acciaio. Tre giorni dopo Hiroshima, il 9 Agosto 1945, un’altra bomba di potenza pari a 21 chilotoni, con un nucleo di Plutonio-239, fu sganciata su Nagasaki. L’ordigno Fat Man era simile a The Gadget, la prima bomba nucleare sperimentata il 16 Luglio 1945 sulla torre ad Alamogordo, a soli 33 metri di altezza, nel deserto del Nuovo Messico, dove oggi troneggia l’Obelisco Nucleare al centro del cratere profondo tre metri e del diametro di 335 metri. La prova del fuoco per l’ordigno che nel primo test Trinity aveva dato inizio all’Era Nucleare, fu decisa per la mattina del 9 Agosto quando il bombardiere Bockscar si alzò in volo con la bomba Fat Man (www.youtube.com/watch?v=UGmLLDEjpcw) che conteneva circa 6,4 chilogrammi di Plutonio-239 capace di liberare un’energia distruttiva pari a circa 21 chilotoni, molto più elevata di quella sganciata su Hiroshima e con un’efficienza maggiore poiché l’ordigno a implosione riuscì a sfruttare il 17 percento dell’energia fissile del nocciolo. Obiettivo: la zona industriale di Nagasaki. L’ordigno, basato su 32 punti di implosione, era lungo 2,34 metri con un diametro di 1,52 metri e pesava 4.545 chilogrammi. Alle 11:02, alcuni minuti dopo aver iniziato a sorvolare Nagasaki, il bombardiere pilotato dal maggiore Charles Sweeney avvistò visivamente, così come era stato ordinato, il nuovo obiettivo. Tuttavia ancora una volta le nubi nascosero il sito di sgancio prescelto. Dato che non era pensabile tornare indietro e rischiare un ammaraggio a causa della mancanza di carburante con un’arma nucleare a bordo, il comandante decise, in contrasto con gli ordini, di accendere il radar in modo da individuare l’obiettivo anche attraverso le nubi. Alle 11:02 ora locale, Fat Man fu sganciata sullo stabilimento Mitsubishi di Nagasaki. La città era in realtà l’obiettivo secondario. Quello primario era la città di Kokura, quella mattina coperta dalle nubi. La bomba nucleare al Plutonio, diversa da quella che aveva polverizzato Hiroshima, esplose a circa 470 metri di quota, a quasi 4 Km a nord-ovest dall’obiettivo previsto. Questa svista salvò gran parte della città, protetta dalle colline circostanti, dato che la bomba cadde nella Valle di Urakami. Il regista Oliver Stone se ne faccia una ragione con un kolossal cinematografico ad hoc! Circa 40mila dei 240mila abitanti di Nagasaki vennero istantaneamente vaporizzati. Oltre 55mila rimasero feriti. Il numero totale degli abitanti uccisi venne poi valutato intorno alle 80mila persone, inclusi i feriti esposti alle radiazioni. Un uomo di Hiroshima sopravvissuto alla prima bomba, si beccò in testa anche la seconda a Nagasaki, ma sopravvisse per raccontare la sua storia. È scomparso di recente. I due ordigni nucleari made in Usa obbligarono il Giappone alla resa incondizionata, siglata formalmente il 2 Settembre 1945 nella baia di Tokyo a bordo della corazzata Missouri. Ancora oggi è aperto il dibattito tra chi considera quelle due iniziative nucleari crimini di guerra e chi, invece, pensa che, pur nella tragedia, le bombe evitarono un numero maggiore di vittime americane e giapponesi se la guerra fosse continuata. La Storia giudicherà tutti. Il bellissimo documentario di RaiDue curato nel 1995 dalla giornalista Lorenza Foschini in diretta tv da Hiroshima, ne rievoca la vicenda. È un viaggio nella memoria (Archivi Rai) per l’allora 50.mo anniversario del bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, per chi non vuole dimenticare, per chi è troppo giovane per ricordare: furono ricreati, oltre ai fatti, il clima e le emozioni di quelle tragiche mattine d’Agosto del 1945 quando la temperatura salì di decine di milioni di gradi Celsius nel Ground Zero delle due città nipponiche. Lorenza Foschini tornò sui quattro luoghi simbolo di Hiroshima: il Memorial Museum (su una parete c’è un’ombra, unico resto del corpo di un uomo trasformato in vapore dalle radiazioni termiche); il Padiglione dell’Esposizione Universale, unico edificio rimasto quasi intatto, una vuota conchiglia sormontata dai resti scheletrici di una cupola; la Torre delle Mille Gru, monumento della Pace dei bambini; la Fontana della Preghiera, dedicata a coloro che morirono invocando l’acqua. Parlarono William Styron (autore de “La scelta di Sophie”) allora giovane ufficiale della Marina in attesa dell’ordine di invadere il Giappone; Daniel McGovern, l’operatore del filmato girato da militari americani poche ore dopo lo scoppio; Wilfred Burchett, primo giornalista occidentale entrato a Hiroshima. Ed ancora registi, architetti, grafici, da Shoei Imamura a Kenzo Tange e Shiu Kataoka, per ricordare le vittime: la donna che diede alla luce una bimba nel silenzio della morte, lo scienziato che pagò la sua passione con la vita mentre raccoglieva per le strade mute di Hiroshima gli oggetti deformati, liquefatti dalla terribile vampata di calore nucleare. Per la Storia si è trattato del primo utilizzo in guerra di tali armi che posero fine alla Seconda Guerra Mondiale. Un flash nucleare è indescrivibile. La luce nucleare, a debita distanza, è così penetrante da illuminare dall’interno le ossa. Sono i fotoni gamma. Ad Hiroshima l’ombra dei corpi vaporizzati è tutto ciò che resta delle povere vittime. Alla fine del 1945, ulteriori migliaia di persone morirono per via dell’avvelenamento da radiazioni, portando il totale di persone uccise ad Hiroshima nel 1945 a circa 350mila. Ad Hiroshima c’era una piccola comunità di otto gesuiti. Il loro presbiterio era nel raggio di devastazione della bomba ma sia loro sia il presbiterio rimasero illesi. Alcuni attribuirono il miracolo al fatto che vivevano ogni giorno il mistero di Fatima. Quando ci si ricorda di Hiroshima, della prima bomba nucleare della storia sganciata su una città, si pensa subito alla devastazione ed alla morte che concluse il secondo conflitto mondiale. Tre giorni dopo, il 9 Agosto, l’attacco su Nagasaki si scatena su una città composta per due terzi da cristiani. Anche lì avviene il miracolo: un convento rimane miracolosamente illeso. E poi, la Pace. Il 6 Agosto è il giorno della Trasfigurazione del Signore, ovvero di quando Gesù, accompagnato da Pietro, Giacomo e Giovanni, andò sul monte Tabor e fu trasfigurato davanti ai loro occhi. Il 6 Agosto è anche il giorno di un’altra trasfigurazione, quella della Terra. Il presbiterio dei gesuiti rimase in piedi, quando due terzi degli edifici di Hiroshima erano crollati ed a vista d’occhio intorno a loro non c’erano altro che palazzi liquefatti e incendi. Uno di questi sopravvissuti era padre Hubert Schiffer, un gesuita tedesco. Aveva 30 anni al momento dell’esplosione e visse fino all’età di 63 anni. Negli anni seguenti ha viaggiato per raccontare la sua esperienza. E il Catholic Herald, anni fa, ha riportato uno stralcio della sua testimonianza registrata nel 1976, quando tutti e otto i gesuiti della comunità erano ancora vivi. Il Giappone, colpito dal terremoto/maremoto dell’11 Marzo 2011, ogni anno si ferma per ricordare la tragedia di Hiroshima e Nagasaki. Eppure, responsabile di quelle prime 140mila vittime nucleari furono Hitler, Mussolini e Tojo. Non gli scienziati. Al Peace Memorial Park, nel punto dello sganciamento dell’ordigno, decine di migliaia di persone rispettano un minuto di silenzio alle ore 8:15 locali (1:15 in Italia) di ogni anno. È l’ora dell’Olocausto Nucleare Nipponico, scandita dai rintocchi della Campana della Pace. Si commemorano i sopravvissuti, gli Hibakusha, le persone colpite dall’esplosione, ufficialmente riconosciuti, i parenti delle vittime di allora e quanti hanno avuto la vita stravolta dal rischio radiazioni per la grave emergenza nucleare di Fukushima causata dal sisma/tsunami del 2011. I Giapponesi hanno capito, a differenza degli Europei, che l’Energia Nucleare di Pace è importante solo se intrinsecamente sicura. A conferma della sensibilità sul tema, il premier nipponico è pronto ad avviare un confronto aperto sul Nucleare di Pace, chiedendo ai suoi ministri la messa a punto di uno scenario dettagliato su un Giappone senza più nucleare. “Ci impegniamo a trasmettere al mondo le esperienze e i desideri dei nostri Hibakusha ed a fare tutto quanto in nostro potere per ottenere la vera pace in un mondo senza più armi nucleari” – assicura durante la cerimonia il Sindaco di Hiroshima, leggendo la Dichiarazione di pace. Quanto al nucleare civile, il primo cittadino invita il governo a “istituire senza indugio una politica energetica capace di tutelare la sicurezza delle persone”. Ma è stata davvero appresa la Lezione della Storia? “Forse più di tanti altri avvenimenti, lo scoppio della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki ha segnato uno stacco epocale. Da alcuni punti di vista e secondo una lettura storiografica anche abbastanza consolidata – rivela Fabrizio Dal Passo, docente di storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma – rappresenta il momento di stacco tra il secolo breve (il ‘900) e l’era contemporanea più aperta alla globalità. In questo senso quell’estremo passaggio di violenze e di guerra, che ha chiuso per certi aspetti tutta una serie di epoche storiche antecedenti, legate ad un certo modo di fare guerra, ha segnato effettivamente un passaggio ad una realtà completamente diversa. Forse il nodo saliente che da Hiroshima in poi non è stato ancora sciolto è il concetto di “paura della guerra”, che secondo me è quello che caratterizza anche oggi il modo di combattere. Non è mai finita una vera e propria guerra fredda, prima era tra superpotenze, ora è nella minaccia di guerra da parte di gruppi alternativi o eterogenei rispetto ad alcuni governi, o alcune organizzazioni terroristiche che con la paura cercano di modificare in qualche modo i piani di politica internazionale. Quindi, da questo punto di vista, secondo me i 70 anni trascorsi hanno segnato un cambiamento relativo rispetto al modo di concepire il nemico”. La storia dovrebbe insegnare sempre qualcosa, ricordando Hiroshima e Nagasaki. “In questo caso, da un punto di vista più emotivo è evidente: semplicemente l’immagine della distruzione totale della città, della distruzione non soltanto logistica della città di Hiroshima e Nagasaki, ma anche della popolazione, delle generazioni successive, dovrebbe far capire a quale livello può arrivare l’essere umano nel tentativo di prevaricazione e di distruzione. Insegna a comprendere quanto la volontà di sottomettere ed abbattere un territorio, un Paese, in nome della guerra, ha portato alla distruzione di due grandi città dell’epoca; alla fine senza nemmeno più contare il peso della vita umana. Immaginiamo qualcosa come una città intera (300mila abitanti) completamente devastata, quindi tutto quello che era su quel territorio: persone, animali, piante, palazzi”. L’annientamento totale. “Sicuramente sconvolgente e non va mai dimenticato e andrebbe insegnato, mostrato e discusso secondo me nei nostri organigrammi educativi. Il nucleare, che permette anche altro di positivo come in tutte le grandi potenzialità dell’essere umano, può portare però in caso di armamenti ad una distruzione totale di qualsiasi forma di vita, nell’arco di migliaia di chilometri. Il nucleare, nel corso degli ultimi 60 anni, ha portato delle possibilità di sviluppo energetico, anche di energia pulita, sicuramente importanti; un ritrovamento energetico più innovativo e meno inquinante rispetto ad altri. Dipende sempre dall’uso che se ne fa. Ma dobbiamo ricordare che la potenza della bomba di Hiroshima è veramente esigua rispetto alle attuali. Hiroshima nel 1945 era una città di notevole importanza militare e industriale, così come il porto di Nagasaki, la seconda città colpita dalla bomba atomica statunitense, a tre giorni di distanza nell’operazione denominata Fat Man. Harry S. Truman, Presidente degli Usa, ha giustificato la scelta del bombardamento come una rapida risoluzione del conflitto”. Il dibattito storico resta aperto. “È vivo – conferma Michele Affinito, docente di storia contemporanea all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli – e nasce già in quel momento: ricordiamo, per esempio, le memorie di Eisenhower che si pone il problema da questo punto di vista, di una posizione critica rispetto a questa scelta. Quindi, indubbiamente e indiscutibilmente, forse anche a stretto giro, quando molti protagonisti di quella esperienza del secondo conflitto mondiale lasceranno la loro memoria, avremo sicuramente una ripresa ed una vivacità di questo dibattito che resta peculiare dal punto di vista storiografico sulle scelte strategiche che sono state compiute in quella fase. Va detto che il dibattito sulla vicenda del bombardamento su Hiroshima e Nagasaki rientra in un certo senso nella strategia più ampia delle scelte fatte dall’America: da un lato, in conseguenza soprattutto degli “errori” che erano stati commessi all’indomani della Prima Guerra Mondiale, quindi la scelta isolazionista, il mancato perseguimento della strada indicata da Wilson e che aveva portato, poi, nel giro di un ventennio, alla nascita di totalitarismi in Europa, che sono stati, di fatto, le cause dello scoppio del conflitto. E dall’altro, l’elemento simbolico legato appunto all’armamento bellico e quindi alla bomba nucleare. Come ebbe a dire Stalin, “le bombe atomiche sono state fatte per spaventare i deboli di nervi”: diciamo che poi, di fatto, la Guerra Fredda è stata tutta giocata sul rischio o meno che le due grandi superpotenze potessero ricorrere a questo espediente. Quindi, una importantissima e indubbiamente deprecabile – perché il dibattito ovviamente si alimenta rispetto a questi aspetti – arma di guerra che paradossalmente poi è diventata un’arma di pace in quel complesso e ampio fenomeno che è stata la Guerra Fredda”. È cambiato qualcosa nella sensibilità nei confronti dell’immagine di Hiroshima che anche allora è sembrata spaventosa e forse oggi ancora di più, per quell’annientamento totale non solo della popolazione, degli animali, del territorio, un’intera città sterminata in pochi minuti? “Senza ombra di dubbio, come di fatto era stato testimoniato da una fetta stessa della popolazione americana, lo era già in quel periodo ma anche successivamente. E possiamo ben vederlo anche rispetto alle posizioni che in America sono state assunte nei riguardi della guerra al terrorismo, alla teoria dell’esportazione della democrazia che riguardano, appunto, le scelte che l’America ha compiuto. La condanna morale è, da questo punto di vista, netta e indiscutibile. Abbiamo anche le posizioni, assunte in questo campo, da numerosi intellettuali, filosofi. Oggi, l’avversario è, di fatto, un avversario differente, indefinito, con il terrorismo. E discuteremo sicuramente nei prossimi anni sulle scelte strategiche che gli Stati Uniti hanno compiuto dopo l’11 Settembre”. Ha 85 anni, non usa il computer, scrive ancora a mano, è molto riservata. È una donna speciale, Kyoko Hayashi. La sua vita stessa è testimonianza nucleare. Kyoko Hayashi è una scrittrice Hibakusha. Con l’aiuto e la traduzione di Manuela Suriano, in occasione dell’uscita per la prima volta in Italia (da Gallucci editore) di “Nagasaki”, quattro suoi racconti, l’Agenzia Ansa l’ha intervistata. Com’è riuscita a sopravvivere fisicamente e psicologicamente ad una tragedia così indicibile, persino al di là del conto dei morti quasi esclusivamente civili? “’Le ferite spirituali degli Hibakusha continuano nel presente e anche nel futuro. Le sostanze radioattive assorbite dall’organismo – spiega Kyoko Hayashi – aderiscono agli organi interni e, finché non si esauriranno del tutto, continueranno a emettere radiazioni per un tempo molto lungo. Questo nemico interno rimane nella vita degli Hibakusha. Il 6 e il 9 Agosto sono date infinite, proprio perché le sostanze radioattive assorbite continuano ad esserci, sia che si sviluppino in tumori e altre malattie o meno. Per questo non è possibile superare le ferite: bisogna convivere con esse”. Lei è diventata un’autrice, una scrittrice-testimone, come per noi italiani è stato Primo Levi. Scrivere del bombardamento nucleare cosa significa per lei? “Il problema della bomba nucleare non si ferma a una generazione ma continua con i figli, i nipoti: è un problema di sopravvivenza delle generazioni future. Subito dopo lo scoppio della bomba sono fuggita dalla fabbrica in cui mi trovavo e mi sono diretta verso l’epicentro. In mezzo alla grande quantità di cadaveri, mi sono sentita grata di essere viva. Era terribile vedere i morti intorno a me, pensare che altre mie compagne forse non ce l’avevano fatta, ma ero felice di essere viva, di avere avuto la fortuna di riuscire a fuggire incolume. Uscire viva dalla distruzione totale mi ha dato la forza per scrivere”. Lei non aveva neppure 15 anni, frequentava la scuola superiore femminile che in quella fase della guerra fu richiamata a partecipare allo sforzo bellico andando a lavorare in una fabbrica di armi, 52 sue compagne morirono come racconta in “Nagasaki”. Un evento così grave segna inevitabilmente l’esistenza, in questi anni ha voluto ricordare rimanendo in contatto con altri sopravvissuti? “’All’epoca parlare della bomba nucleare era un tabù e soprattutto quando ero giovane non riuscivo a farlo. Era un’esperienza personale ma parlarne significava coinvolgere le persone vicine, e anche per i familiari aveva conseguenze negative. Non c’era nessuna comprensione nei confronti degli Hibakusha. Non volevamo parlarne neanche tra compagne di scuola perché avrebbe significato ricordare come ci eravamo messe in salvo, chi era scappata prima, che malattie avevamo avuto e cose di questo tipo. Così non sono rimasta in contatto con altri Hibakusha. Con gli anni però ci si è resi conto che il 6 e 9 sono un problema troppo grande perché si tratta del rapporto tra Uomo e Nucleare, ed era necessario riflettere e superare la paura della discriminazione. Anche se non incontravo altri Hibakusha, soprattutto mentre scrivevo “Il luogo del rito”, mi arrivavano le notizie di amici che morivano. Erano le sostanze radioattive che continuavano a uccidere, la bomba nucleare non era finita”. Ci sono cose che si sente di dire ai giovani che probabilmente non hanno consapevolezza di quanto immane sia stato quel crimine del ‘45? “’Dopo la guerra il Giappone ha camminato lungo il percorso tracciato dalla nostra Costituzione pacifista il cui Articolo 9 rinuncia per sempre alla guerra e all’uso della forza quale strumento per risolvere le controversie internazionali. Molti giovani recentemente hanno fatto sentire la loro voce per protestare contro il tentativo di interpretare l’Articolo 9 in modo diverso e svuotarlo del suo significato. Sono molto contenta che i giovani si interessino a questo problema, è la testimonianza che la democrazia che ha messo radici dopo la guerra ha prodotto i suoi effetti. Quello che mi sento di dire è di considerare anche il 6 e il 9 Agosto come un problema che li riguarda personalmente”. A suo parere nel mondo c’è stata una rimozione collettiva di Hiroshima e Nagasaki? “’Perlomeno in Giappone c’è consapevolezza, ma non al punto da sentirlo come un problema personale. Il 6 e 9 sono un problema di tutti noi, persona per persona. Non c’entra niente con il concetto di Nazione o con l’ideologia: riguarda la nostra sopravvivenza di Uomini”. Albert Einstein, scienziato pacifista convinto, ebbe una parte determinante nella decisione degli Stati Uniti d’America di avviare il Progetto Manhattan del valore di due miliardi di dollari (vi lavorarono 100mila collaboratori) che doveva portare alla costruzione della bomba nucleare. Lo dimostrano alcune lettere che egli scrisse al Presidente Roosevelt tra il 2 Agosto 1939 e il 25 Marzo 1945. Il 22 Gennaio 1947 lo scienziato più famoso del mondo scrive la lettera con cui delinea i fondamenti della Responsabilità Sociale della Scienza e, in particolare, i nuovi rapporti tra scienziati e società in quella che John Ziman definirà “l’era post-accademica della scienza”. L’occasione è data da un lavoro di ricerca e da un’innovazione tecnologica considerata non propriamente responsabile: l’arma nucleare. A considerarla tale, a un anno e mezzo dalle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki, non era solo una parte considerevole dell’opinione pubblica mondiale, ma anche un gruppo vasto e organizzato di scienziati americani e occidentali che si riconoscevano nella rivista “The Bulletin of the Atomic Scientists”. Molti di questi scienziati avevano lavorato al Manhattan Project e, dunque, la bomba nucleare l’avevano progettata e costruita. Anche se la gran parte aveva aderito al progetto con un chiaro obiettivo: utilizzarla come deterrente nel caso la Germania di Adolf Hitler l’avesse a sua volta messa a punto. Quando, alla fine dell’Estate 1945, ogni operazione di guerra finì e fu chiaro che non c’era alcun altro Paese, oltre gli Stati Uniti d’America, a possedere l’arma nucleare, questi stessi scienziati percepirono di avere una qualche responsabilità morale e sociale, e di doversi battere per obiettivi che non erano strettamente scientifici, ma soprattutto politici. La Bomba aggiornò la coscienza degli scienziati. Gli obiettivi erano primariamente due: impedire che la ricerca nucleare e le conseguenti innovazioni tecnologiche fossero completamente militarizzate; impedire la proliferazione nucleare e ricacciare lo spirito di Hiroshima e Nagasaki negli oscuri abissi dai quali era uscito. La tattica per raggiungere questi risultati politici fu dettata da una nuova consapevolezza. Nel secondo conflitto mondiale la Scienza aveva dimostrato, con la messa a punto del radar, della stessa bomba nucleare, ma anche di farmaci come la penicillina e di nuovi materiali polimerici, di poter assolvere a un ruolo decisivo non solo nei conflitti armati ma anche nello sviluppo della società. Espressione di questa nuova e forte consapevolezza fu la pubblicazione, nel Luglio 1945, del rapporto “Science, the Endless Frontier”, con cui il consigliere scientifico di Franklin D. Roosevelt, Vannevar Bush, inaugura non solo la moderna Politica della Scienza, ma la moderna Politica Economica per un’economia fondata sulla conoscenza. Una certa “hybris” portò gli scienziati ad immaginare di avere una forza e, dunque, un potere negoziale pari a quello dei politici. E, dunque, di poter imporre la loro visione responsabile morale etica nella gestione della tecnologia nucleare che ci avrebbe già sospinti sulle altre stelle. Naturalmente il Cinema li prenderà in giro! La figura dello scienziato “atomico” pazzo aiuterà non poco i politici e i militari a frenare i sogni di gloria dei cervelli. Ben presto si accorsero di quanto illusoria fosse questa convinzione. Dinamiche interne alla politica americana, ma soprattutto lo scoppio della cosiddetta Guerra Fredda anti-europea tra i due ex alleati già divenuti nemici (Usa e Urss, Est e Ovest), portarono alla sconfitta delle istanze degli “Atomic Scientists”. Ed è a questo punto che interviene Albert Einstein insieme a quella formidabile mente politica che era il fisico ungherese Leo Szilard, con una mossa da leone: ingaggiare il grande pubblico nella partita nucleare. Creare un’alleanza tra cittadini comuni e scienziati responsabili, per raggiungere la forza critica necessaria per fare pressione sulla Politica. Nasce così, sul finire del 1946, la “Emergency Committee of the Atomic Scientists”, un piccolo comitato, di cui Albert Einstein è il Presidente che ridisegna i rapporti tra Scienza e Società. Sulla base di quattro concetti espressi nella breve lettera firmata il 22 Gennaio dal grande fisico, che costituiscono a tutt’oggi la base teorica per quella “Responsible Research and Innovation” (RRI) che l’Unione Europea ha fatto propria con la Dichiarazione di Roma: 1) non c’è possibilità di controllare le tecnologie pericolose se non attraverso la vigile comprensione e la partecipazione attiva dei cittadini di tutto il mondo; 2) è necessaria più di una stretta alleanza, c’è bisogno di una sincera amicizia (la differenza non è da poco) tra scienziati responsabili e cittadini comuni; 3) sono i cittadini tutti e non ristrette élite a dover compiere le scelte sulle ricerche e le innovazioni desiderabili e a mettere al bando quelle indesiderabili; 4) gli scienziati hanno una sola e speciale responsabilità, cui – dichiara Einstein – non possono sottrarsi: fornire ai cittadini la comprensione dei fatti. Dovere inderogabile degli scienziati è quello di indicare ai cittadini non esperti dove la scarpa fa male, perché sono loro, gli scienziati esperti, che prima di ogni altro si accorgono cosa non va (e cosa va) in una nuova calzatura. Pochi anni prima della lettera con cui Albert Einstein delineava i principi cardine della Responsabilità Sociale degli Scienziati, nel 1942, il sociologo americano Robert K. Merton definiva la griglia valoriale fatta propria dalla comunità scientifica fin dalla Ririvoluzione del ‘600. I valori fondanti della comunità degli scienziati sono cinque: comunitarismo, universalismo, disinteresse, originalità e scetticismo sistematico. È vero. La Scienza non si preoccupa del tuo credo religioso, come recita la nuova T-Shirt AD 2015. Ma ne limita il parossismo. Il comunitarismo è quel valore per il quale la conoscenza scientifica prodotta è pubblica e trasparente. Tutto deve essere comunicato a tutti.
L’universalismo è quel valore secondo il quale tutti possono partecipare alla produzione di conoscenza scientifica: senza distinzione, di sesso, di età, di appartenenza a particolari gruppi religiosi e/o culturali e/o etnici. Il disinteresse è quel valore per il quale lo scienziato non deve trarre beneficio personale dalla produzione di nuova conoscenza scientifica. L’unico beneficio che può trarre è l’accresciuto prestigio. L’originalità è intrinseca all’attività dello scienziato, che consiste nella produzione di nuova conoscenza: se non si è originali non si produce nuova conoscenza e dunque non si fa Scienza. Lo scetticismo sistematico significa che nessuna affermazione va presa sulla parola, per quanto autorevole sia colui che la pronuncia, ma tutto va verificato. I “valori interni alla comunità scientifica” indicati da Merton e racchiusi nella acronimo CUDOS e i valori che secondo Albert Einstein regolano i rapporti tra Scienza e Società costituiscono un’ottima base su cui fondare la Ricerca e l’Innovazione Responsabili, che, secondo la Dichiarazione di Roma, prevedono cinque elementi tematici: “public engagement, open access, gender, ethics, science education”. Il public engagement è la partecipazione attiva e informata dei cittadini, in particolare degli “stakeholders”, persone che hanno un interesse specifico, alle scelte che coinvolgono la Scienza e l’Innovazione tecnologica. Come sostiene Einstein, “sono i cittadini (secondo le diverse articolazione della vita democratica) i decisori di ultima istanza”. Gli uomini di Scienza devono indicare “dove la scarpa fa male”, informare in maniera completa e trasparente il cittadino/decisore.
L’open access è la continuazione rigorosa dello spirito con cui la comunità scientifica del Seicento propose la Nuova Scienza, quello che ha portato ad abbattere il paradigma della segretezza e a comunicare tutto a tutti. Oggi l’accesso aperto alla Scienza è considerato un valore importante non solo per la comunità scientifica, ma per l’intera società. Se i cittadini per ben decidere devono essere ben informati, allora hanno il diritto di accedere a tutta la conoscenza scientifica. E gli scienziati hanno il dovere morale etico – quindi la responsabilità sociale – di rendere praticamente accessibile quella conoscenza a tutti. Un’interpretazione estesa dell’open access porta, di per sé, a inglobare un altro elemento indicato dall’Unione Europea per una Ricerca e un’Innovazione responsabili: la science education. Una buona ed estesa educazione scientifica fin dalla più tenera età, che a sua volta comporta un maggior numero di giovani, femmine e maschi, che scelgono come propria attività la ricerca scientifica e/o lo sviluppo tecnologico. La tematica del genere ha una valenza interna alla comunità scientifica: la Scienza deve scoprire “l’altra metà del cielo” e rendere effettivamente libero l’accesso delle donne al lavoro di ricerca; la Scienza deve essere accessibile e vantaggiosa per tutti, a prescindere dal sesso. Il tema etico riguarda il comportamento stesso degli scienziati. Occorre l’integrazione tra i valori che settant’anni fa hanno indicato Robert K. Merton e Albert Einstein: “Dear Friend, I write to you for help at the suggestion of a friend. Through the release of atomic energy, our generation has brought into the world the most revolutionary force since prehistoric man’s discovery of fire. This basic power of the universe cannot be fitted into the outmoded concept of narrow nationalisms. For there is no secret and there is no defense; there is no possibility of control except through the aroused understanding and insistence of the peoples of the world. We scientists recognize our inescapable responsibility to carry to our fellow citizens an understanding of the simple facts of atomic energy and its implications for society. In this lies our only security and our only hope — we believe that an informed citizenry will act for life and not death. We need $1,000,000 for this great educational task. Sustained by faith in man’s ability to control his destiny through the exercise of reason, we have pledged all our strength and our knowledge to this work. I do not hesitate to call upon you to help. Faithfully yours, A. Einstein”. Come dimostra la lettera di Albert Einstein, la Scienza si pone il problema della responsabilità con la scoperta della bomba nucleare. Da allora, il cammino della responsabilità in campo scientifico ha fatto ulteriori passi. È stato naturale che la ricerca scientifica sempre più si ponesse la questione delle conseguenze sociali, etiche ed ambientali degli sviluppi scientifici e tecnologici di fronte a temi come il cambiamento climatico, gli organismi geneticamente modificati, la sperimentazione animale, il recente “editing” genetico delle cellule germinali, lo scandalo AD 2015 della Planned Parenthood, totalmente ignorato dai media e politicanti “animalisti” italiani, e altro ancora. Non a caso una serie di progetti finanziati dal Settimo Programma Quadro della Commissione Europea ha posto questo come tema centrale, al motto di “Non più casi come gli OGM”. Con ciò intendendo che quando si aprono simili divaricazioni fra i legittimi orientamenti della comunità scientifica e i sentimenti di una disinformata “opinione” pubblica a rimetterci sono un po’ tutti: i ricercatori che si vedono negati, a volte con veri diktat politici, la Libertà stessa di ricercare e fare buona tecnologia nucleare di Pace anche in vista della colonizzazione umana del Cosmo, e i semplici cittadini che talvolta si autoescludono da possibili rivoluzionarie innovazioni che la Scienza potrebbe generare se fosse messa in grado di lavorare con agio e finanziamenti adeguati non elemosinati, dalle neuro-scienze e dalla medicina nucleare alla liberalizzazione dell’industria e dell’impresa spaziale privata.
La spirale dell’Hiroshima e della Nagasaki culturale può essere maligna, come insegna il caso degli OGM, ossia degli Organismi Geneticamente Migliorati. Una cattiva comunicazione alimenta i peggiori sospetti e incubi, aumenta il livello di ripugnanza pubblica, la chiusura si riverbera sui decisori che elettoralmente spaventati chiudono i già esigui rubinetti del finanziamento pubblico alla ricerca, di fatto lasciando fare sempre di più i capitali privati esteri che si muovono con logiche di profitto non italiane. Questo aumenta l’outrage, e così via, fino al disseccarsi della ricerca pubblica e privata italiana. La soluzione che molti commentatori hanno individuato sembra essere questa: “educhiamo il pubblico, lavoriamo sulla “public understanding of science”, divulghiamo di più”. Tutti propositi favorevoli, ma insufficienti perché di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno. Da qui l’idea di ampliare l’onere etico da un mero impegno dei ricercatori a una responsabilità condivisa fra i diversi portatori d’interesse: ricercatori, politici, industriali, società civile; e dialogo comunitario nazionale che precede, accompagna l’attività scientifica vera e propria, non la segue raccontandone i risultati, e ambisce anche a orientarne le finalità verso risultati socialmente utili e sostenibili, che pone la massima trasparenza in tutto il processo. È il nuovo mantra che la Commissione Europea pone alla base di Horizon 2020, il nuovo Programma Quadro comunitario di finanziamento della ricerca, che con 70 miliardi di euro in sette anni (2014-2020) detta le linee di sviluppo della ricerca europea. Nasce così l’RRI, la “Responsible Research and Innovation”, che nel 2013 viene così sinteticamente definita da René Von Schomberg: “a transparent, interactive process by which societal actors and innovators become mutually responsive to each other with a view to the ethical acceptability, sustainability, and societal desirability of the innovation process and its marketable products in order to allow a proper embedding of scientific and technological advances in our society”. Risulta abbastanza chiaro che piega stia prendendo la nuova definizione di Responsabilità Scientifica. Il nocciolo sta nel tentativo, tutt’altro che facile, di condividere le linee di sviluppo e le finalità  della ricerca con i soggetti attivi della società. Non solo. Dove possibile, occorre costruire insieme strategie e programmi di ricerca. Cosa non facile per due motivi: discutere insieme di Scienza implica la condivisione di alcune regole democratiche e alcune competenze di base sul metodo scientifico galileiano. In una società scientificamente analfabeta come l’Italia, e per certi versi impregnata di valori opposti a quelli scientifici, come fare? La storia di questi anni, almeno in Italia, degli scontri sulla sperimentazione animale, dell’oscurantismo anche politico contro gli OGM, che ha portato alla distruzione dei campi sperimentali e al sostanziale blocco della ricerca, mostra come il dialogo pubblico sulle finalità della Scienza può facilmente degenerare in un confronto fra sordi, in urla da stadio, in scritte del tipo “Assassini” sulle case dei ricercatori. Ecco come può degenerare una falsa “partecipazione”. Anche nel settore dell’Energia Nucleare. Stanno facendo a pezzi la Costituzione della Repubblica Italiana, in nome di “riforme” eversive, pur consapevoli dell’assoluta contrarietà della maggioranza del Popolo italiano sulla base di un Referendum costituzionale già celebrato nel 2008 che certamente tutti riconoscono più vincolante del semplice referendum abrogativo “ordinario” sull’estinzione delle centrali elettronucleari italiane nel 1986. C’è modo di evitare il peggio contro la Scienza e la Tecnologia? Per questo motivo è importante avere linee guida e strumenti operativi per costruire questa collaborazione, in modo da passare da una Democrazia diretta e confusionaria, a una Democrazia scientifica rappresentativa e competente. Qualcuno ci sta già provando. È il caso del Progetto RRI Tools. Finanziato dal Settimo Programma Quadro, il Progetto, coordinato dalla Fondazione La Caixa (fra i partner italiani, la Fondazione Cariplo e la Fondazione Bassetti), ha l’obiettivo di  mettere a punto strumenti pratici che supportino tutti gli attori (pubblico, ricercatori, educatori, politici, mondo dell’industria e innovazione) diversamente impegnati nella produzione di conoscenza nella condivisione della responsabilità della ricerca e delle innovazioni prodotte secondo lo spirito RRI. Il Progetto, diviso in vari gruppi, sta ora creando piccole comunità di pratica sui temi della RRI, che man mano dovrebbero allargarsi ad ambiti più vasti. È importante infatti che i ricercatori imparino a comunicare le loro ricerche anche al di fuori della loro comunità; che il metodo scientifico venga assorbito dalla scuola e dalla società nel suo insieme; che l’attività scientifica si renda più disponibile al pubblico attraverso l’Open Access, mettendo a disposizione i dati ben prima della pubblicazione su riviste scientifiche, come già oggi molti ricercatori fanno sui loro blog, non senza qualche problema se poi si vuole pubblicare su riviste “peer reviewed”; che si possano anche sperimentare forme di “Open Science”, in cui gruppi di cittadini motivati e preparati per entrare da “autori” nel processo scientifico. Come? In campo ambientale, con il monitoraggio diffuso della qualità dell’aria e dei terreni; in campo medico con la possibilità che gruppi di pazienti e associazioni di malati possano contribuire a disegnare i “trial” e così via. Da sempre la ricerca è stata definita come un’attività di squadra, comunitaria appunto, ma forse fino a qualche tempo fa non si prevedeva che la collaborazione potesse riguardare anche i non scienziati. Venerdì 22 Maggio si è conclusa a New York la quinquennale Conferenza di Rassegna del Trattato di Non Proliferazione (TNP), iniziata il 27 Aprile. Dopo quattro settimane di discussioni, dichiarazioni e negoziati, i diplomatici degli Stati firmatari del TNP (circa 190) non sono riusciti a raggiungere il consenso generale sul documento conclusivo. E questo è senza dubbio un insuccesso, reso meno drammatico dall’apparente determinazione di tutti gli Stati Nucleari (Stati Uniti d’America, Federazione Russa, Inghilterra, Francia e Cina, i cosiddetti “P5”) di riaffrontare e accelerare il confronto per una più soddisfacente implementazione del Trattato, che rimane un elemento di vitale importanza per la sicurezza internazionale. Del resto, anche nel 2005 non venne raggiunto un documento consensuale. Una delle ragioni principali per la quale non si è raggiunto il consenso generale sulla bozza di documento finale, che per altro era quasi una replica del documento del 2010 senza sostanziali e innovativi progressi, è la questione della Zona Libera da Armi di Distruzione di Massa in Medio Oriente (Weapons of Mass Destruction Free Zone in Middle East, WMDFZME). Stati Uniti d’America, Inghilterra e Canada hanno considerato inaccettabile la formulazione proposta di riprendere le iniziative per arrivare a creare una WMDFZME, di fatto avallando la contrarietà dello Stato di Israele ad affrontare questo problema nei termini nei quali è stato finora posto. Già il documento conclusivo della Conferenza del 2010 auspicava venisse convocato un incontro, in Finlandia, nel Dicembre del 2012, tra tutti gli Stati interessati, e la mancata convocazione di questa conferenza non ha certo contribuito alla credibilità del Trattato. Sembra comunque oggi possibile, se affrontato con la dovuta flessibilità e la necessaria disposizione al dialogo, riprendere il problema, tenendo presente che la creazione di zone libere da armi nucleari e più in generale di distruzione di massa, come quelle chimiche e biologiche, costituisce un passo cruciale verso l’obiettivo finale di un mondo libero da armi nucleari. Visto e considerato che le nuove armi elettromagnetiche ad energia cinetica diretta possono sortire gli stessi effetti termici senza sprigionare radiazioni. Altro argomento di difficoltà è l’assai diversa risposta degli Stati alla formulazione di un’affermazione richiamante il documento “Humanitarian Pledge” proposto dall’Austria: “è nell’interesse stesso della sopravvivenza dell’Umanità che le armi nucleari non vengano mai più usate, in nessuna circostanza” e per questo è necessario “identificare e perseguire misure efficaci per colmare il gap legale per la proibizione e l’eliminazione delle armi nucleari”. Mentre la quasi totalità degli Stati considerava importante sottolineare le conseguenze per l’Umanità di una guerra nucleare (107 Stati hanno sottoscritto il documento “Humanitarian Pledge”), da parte dei P5 veniva considerata non realistica l’ipotesi di non procedere passo-passo, ben definendo tempi e modi, verificabilità e opportunità di una qualunque iniziativa di riduzione degli arsenali nucleari.
Come ben messo in evidenza dal comunicato del Presidente e del Segretario Generale delle Pugwash Conferences, è un fatto che gli Stati Nucleari firmatari del TNP, i P5, abbiano operato come se l’indefinita durata del TNP decisa nella Conferenza di Rassegna del 1995 fosse equivalente ad un indefinito “permesso” a possedere armi nucleari. Ed è fuori discussione il motivato scetticismo degli Stati Non Nucleari aderenti al TNP nei confronti dei P5, che palesemente e gravemente hanno disatteso le prescrizioni dell’Art. VI del TNP: “Ciascun Stato Membro del Trattato si impegna a negoziare in tempi brevi e in buona fede misure efficienti per la cessazione della corsa agli armamenti nucleari e per il disarmo nucleare ed un trattato sul disarmo generale e completo sotto stretto ed efficiente controllo internazionale”. Le strade discordi seguite da un lato dalle diplomazie e dall’altro dalle Organizzazioni Non Governative hanno portato a controversie e competizioni piuttosto che avviare approcci innovativi e costruttivi. È invece assolutamente necessario e urgente che vengano individuate tutte le strade credibili che possono portare ad una Terra libera da armi nucleari (convenzioni, trattati, iniziative bilaterali e multilaterali) sempre e comunque cercando il dialogo e rifiutando ogni contrapposizione. Perché è il dialogo che permette di costruire fiducia reciproca e di fare progressi, come dimostrato dal successo degli incontri dei P5+ Germania con l’Iran, volti alla soluzione della questione del Nucleare Iraniano. Certamente i P5 debbono aprire un confronto produttivo, innanzitutto al loro interno, e con gli Stati Non Nucleari, per rafforzare il regime di non proliferazione orizzontale delle armi nucleari e dimostrare al mondo che il possesso di arsenali nucleari non è assicurazione di stabilità internazionale e per svalutare le armi nucleari come strumento politico e militare di garanzia della sicurezza nazionale, per arrivare finalmente ad un mondo finalmente libero da armi nucleari, chimiche e batteriologiche. A 70 anni dai bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki è il minimo che ci si possa aspettare da una Civiltà degna di futuro. Per capire l’Era Nucleare nella quale viviamo, basta dare un’occhiata ai film del regista Peter Kuran, mai trasmessi in Italia, che documentano la realtà con immagini a dir poco sconvolgenti e drammaticamente spettacolari. Avete mai visto una Bomba H esplodere nell’alta atmosfera terrestre? Allora non potere rinunciare a questa breve carrellata nella storia del documentario scientifico, diretto e prodotto da Peter Kuran. Diciamo subito che i film del celebre regista statunitense, non hanno nulla a che spartire con la fantascienza né con il brutto scherzo di un’esplosione nucleare, durante le previsioni meteo, messo in onda da un gruppo di buontemponi hacker sul canale ceco ČT2, la Domenica di 17 Giugno 2007. I film di Peter Kuran sono la realtà nuda e cruda dello sviluppo dell’industria degli armamenti nucleari americani. Si comincia con il film “Trinity and Beyong (The Atomic Bomb Movie)”, per assistere da testimoni diretti all’incredibile sviluppo delle armi nucleari. Il più drammatico, sconvolgente, storico, spettacolare e inquietante film sui test nucleari Usa, in 6 capitoli, 26 sezioni e contenuti speciali: dalla prima esplosione di 100 tonnellate di Tnt nello stesso sito sul quale sarebbe poi esplosa la prima bomba nucleare della storia nel Luglio 1945, alle inedite immagini riprese su Hiroshima e Nagasaki subito dopo il bombardamento nucleare Usa, alle esplosioni delle bombe H sull’oceano Pacifico, alla Super Bomba sovietica (57 megatoni), ai test cinesi. Il famoso regista di effetti speciali Peter Kuran (Star Wars, Star Trek II e V, Robocop, la Famiglia Addams, Tredici Giorni) ha dedicato più di tre anni della sua vita per la produzione del film-documentario che racconta la segretissima, strana e visivamente incalzante vicenda dell’ideazione, produzione e sperimentazione delle bombe nucleari a fissione (le bombe “atomiche” non esistono, in quanto il fenomeno di fissione-fusione è a livello sub-atomico, ossia nucleare!) e termonucleari a fusione (bomba all’Idrogeno, detta anche “H”), negli Stati Uniti d’America. Nel dvd vengono presentati, per la prima volta in assoluto, rari filmati d’epoca declassificati, tratti dagli archivi segreti del governo Usa. Il regista Kuran ha viaggiato in tutto il mondo per ottenere i filmati originali dei test nucleari condotti dalla Cina e dalla altre potenze nucleari, e delle più grandi esplosioni termonucleari della storia effettuate (Bomba Sakarov all’Idrogeno) dall’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. La qualità delle immagini è considerevole e ha richiesto la presentazione di un nuovo Academy Award, poi vinto dal regista Kuran per questo film, le cui immagini sono state eccezionalmente restaurate con processi digitali ad alta definizione appositamente creati per preservare queste spaventose immagini alle generazioni future. Il film, in lingua originale inglese, narrato dal famoso attore William Shatner (il capitano Kirk della nave interstellare Enterprise in Star Trek), si avvale di una superba colonna sonora originale, anch’essa premiata, eseguita dall’Orchestra sinfonica di Mosca. Interessante è l’intervista speciale al fisico recentemente scomparso, Edwar Teller, uno dei creatori della bomba H statunitense, per alcuni uno dei più controversi personaggi del XX Secolo, l’ispiratore del famigerato Dottor Stranamore. Fatti esplodere sotto gli oceani, sospesi a un pallone stratosferico, sparati da un cannone nucleare nel deserto del Nevada o nello spazio, questi ordigni infernali sono capaci di devastare la biosfera della Terra, riducendola alle fattezze del pianeta Marte. Il film, altamente educativo, è una straordinaria produzione che aiuta a capire per la prima volta, con il linguaggio visivo, gli eventi che hanno cambiato per sempre (furono effettuati migliaia di esperimenti, secondo la propaganda “controllati”!) la storia dell’Umanità. Infatti, per quanto si tenti di disinnescarle e disarmarle, sarà impossibile liberarsi delle armi nucleari, in quanto non le potremo mai disinventare. Guai a noi se, come lo struzzo, faremo finta che non esistono più nei silos in compagnia delle armi chimiche e batteriologiche. Il secondo film “Nuke in space – L’arcobaleno nucleare” di Peter Kuran ci porta alla scoperta dei test segreti Usa condotti nello spazio, declassificati e rivelati per la prima volta in assoluto, dopo più di 50 anni. Il dvd è narrato da W. Shatner. Al culmine della tensione Usa-Urss, durante la Crisi dei missili di Cuba, le due superpotenze hanno condotto test nucleari nell’atmosfera terrestre e nello spazio esterno. Il film rivela l’incredibile storia di più di 20 test termonucleari spaziali. Quasi del tutto ignote al pubblico italiano, le esplosioni “H” crearono aurore ed arcobaleni artificiali spettacolari, che solo ora sono mostrati in tutta la loro terrificante realtà. Immagini che ispirano soggezione e inquietudine. Dietro l’apparente spettacolarità delle cosiddette “bombe-arcobaleno” si celano sconvolgenti conseguenze, immediate e a lungo termine. Le radiazioni nucleari prodotte da questi test hanno avuto ed avranno effetti disastrosi permanenti sullo spazio prossimo alla Terra. Nell’era dello Sputnik e della conquista dello spazio, la supremazia tra Usa e Urss era misurata dalla tecnologia, ossia dalla capacità di applicare le conoscenze scientifiche acquisite nella teoria e negli esperimenti della fisica. I filmati del National Security Council e il documentario sulla Crisi dei missili cubani ci aiutano a comprendere e spiegare l’estrema virulenta pericolosità del livello di rivalità raggiunto che aveva condotto gli Usa ad aumentare la propria supremazia nucleare sull’Urss. Eventi che la storia ha immortalato nella leadership di uno dei più carismatici e amati presidenti degli Stati Uniti d’America, John. F. Kennedy. Delle cui parole pronunciate davanti al Congresso Usa e al popolo americano, questo film rende partecipi e testimoni in un’era nucleare, oggi niente affatto superata, che all’epoca stava diventando la costante di un’accecante supremazia militare fondata sull’equilibrio del terrore (teoria del MAD che in inglese significa “folle”, ossia dell’autodistruzione reciproca assicurata) oggi solo in parte superato e, comunque, non necessariamente in grado di garantire la Pace. In quanto l’arma nucleare rischia di trovare nuovi acquirenti in stati non democratici sulla Terra, e di diffondersi ovunque non come mezzo di deterrenza, come finora assicurato dalle superpotenze, ma di offesa preventiva. Peter Kuran, il vincitore del film “Trinity and Beyong (The Atomic Bomb Movie)”, nel dvd “Nuke in space – L’arcobaleno nucleare”, si avvale di nuovi filmati e documenti governativi declassificati, proponendo inedite interviste, controverse e originali, alle autorità militari e scientifiche protagoniste di quegli eventi. Una nuova colonna sonora dell’Orchestra sinfonica di Mosca è stata creata per un’esperienza visiva davvero cinematografica capace di aprire una finestra sulla quotidianità dell’era nucleare. Questo film è una pietra miliare nella documentazione storica sulla Guerra Fredda e sui test nucleari, con forti implicazioni sul futuro della sicurezza nazionale Usa. Non mancano i contenuti speciali con una sezione bonus dov’è possibile visionare: i filmati sui lanci nucleari falliti, la conferenza stampa di J.F.K; gli impianti nucleari di Cuba e tanto altro ancora. Il terzo film “Atomic Journeys – Benvenuti al Ground Zero” di Peter Kuran, è altrettanto spettacolare e sconvolgente. Che cosa fareste nello scoprire che la società del gas ha scavato una galleria a poche centinaia di chilometri da casa vostra, utilizzando una piccola testata nucleare? “L’Atomica in giardino” non è solo il titolo di un grande film di successo. Ed allora, “benvenuti al Ground Zero” dei test nucleari Usa. Più di 55 anni fa, sentendo un tonfo improvviso proveniente dal sottosuolo e osservando luci splendenti, qualcuno negli States avrebbe forse anche potuto interpretare l’evento con il passaggio di un treno, un terremoto o un Ufo. Ma qualcosa di più lontano e potente era accaduto: una detonazione nucleare a poche centinaia di chilometri da casa, chi mai l’avrebbe potuta immaginare? Questo film di P. Kuran è quanto di più segreto e sconosciuto al grande pubblico il governo Usa abbia mai potuto nascondere per decenni. Test nucleari super segreti e lavori per scavare tunnel, caverne e gallerie, condotti nel territorio degli Stati Uniti d’America per unire città e basi militari, di cui solo poche persone sono a conoscenza. Piccole bombe nucleari furono letteralmente sganciate nel giardino di casa, calate in pozzi di estrazione mineraria e nei deserti per costruire basi segrete. Non solo negli Stati Uniti. Non mancano gli incidenti nucleari, in gergo “Broken Arrow”, poi famosa pellicola cinematografica. Testimoni viventi raccontano di un ordigno con testata nucleare non armata, accidentalmente sganciata da un aereo su una casa in una cittadina dello stato della Carolina del Sud. Molti dei test erano parte integrante della politica della Commissione dell’Energia Atomica (la stessa casa editrice del celebre volume propagandistico “L’Amico Atomo” degli Anni ’50 del XX secolo) volta ad esplorare l’impiego civile di questi ordigni nucleari nell’ingegneria delle opere pubbliche, per usi pacifici come la costruzione di nuovi canali, gallerie sotterranee, caverne, porti, dighe e per aumentare l’estrazione di gas naturale. La Commissione ha così effettuato, all’insaputa dei contribuenti Americani, detonazioni nucleari segretissime, dissimulando anche i segnali sismici prodotti dalle esplosioni. Oggi sarebbe praticamente impossibile, visto che anche i pacifici e sensibilissimi esperimenti al Laboratorio Nazionale del Gran Sasso (Infn) possono benissimo individuare e segnalare in tempo reale test nucleari in ogni angolo della Terra. Peter Kuran conduce i più curiosi a visitare dieci dei più rilevanti siti di questi test segreti: dall’Alaska al Mississippi, al Nevada, “lo stato nucleare più bombardato sulla Terra”, dove furono fatti esplodere più di 900 ordigni. Non sono solo gli Usa sotto i riflettori di questa straordinaria inedita pellicola. Kuran ci accompagna alla scoperta di foto e filmati di simili test effettuati da Francia, Inghilterra e Urss. “Dalla visita di questi finora ignoti Ground Zero – assicura P. Kuran – si esce sicuramente diversi, più consapevoli del mondo terrificante in cui viviamo”. Un dvd in 29 capitoli, narrato da W. Shatner: non mancano i contenuti speciali, la biografia degli autori e i filmati bonus, nei quali possiamo accedere alla galleria Tour dove una Guida Speciale ci conduce all’interno dei siti che furono teatro di quei test. Una mappa globale planetaria svela dove sono ubicati tutti (quelli finora apertamente dichiarati) i Ground Zero nucleari e molto altro ancora. Nulla in confronto a ciò che fecero i sovietici. Quel giorno, quando esplose, fu definito “il giorno in cui la Terra fu uccisa”. La Bomba Tsar Fine del Mondo (www.youtube.com/watch?v=oP9B5PkKw-g) è stato il più potente ordigno termonucleare mai sperimentato dall’Uomo. Fu costruito in Unione Sovietica nel 1961 su comando del Partito Comunista (Pcus), da un gruppo di lavoro capeggiato da militari e dal fisico Andrej Dmitrievič Sakharov, in poco più di sei settimane. Il nome in codice dell’ordigno era Big Ivan. Il suo potere esplosivo fu di 57 megatoni (altre fonti affermano, fra i 62 e i 90 megatoni) ovvero oltre 4mila volte quello della bomba nucleare sganciata su Hiroshima. È stato calcolato che se fosse stata lanciata su Londra, la Tsar avrebbe distrutto ogni cosa nel raggio di 30 Km e incendiato tutto ciò che si fosse trovato entro 300 Km dal centro dell’esplosione. Inizialmente si pensava di realizzarla con una potenza di 100 megatoni ma, per evitare di bucare l’atmosfera terrestre (e non solo per un eccessivo fallout nucleare) fu poi ridimensionata a 57 megatoni. La bomba fu sganciata il 30 Ottobre 1961 alle ore UTC 8:32 (11:32 ora di Mosca) da un aereo ad alta quota (un Tupolev 95, il cui pilota divenne poi eroe nazionale) nella baia di Mityushikha sull’isola di Novaja Zemlja, a nord del Circolo Polare Artico, precisamente alle coordinate 73.85° Nord e 54.50° Est. La Tsar Bomb fu fatta esplodere a 4mila metri

dal suolo con l’ausilio di un gigantesco paracadute per frenare la caduta dell’ordigno e quindi consentire al velivolo di allontanarsi indenne. La sfera di fuoco nucleare raggiunse i 4,6 Km di diametro e la nube a fungo risultante dall’esplosione conquistò un’altezza di 60 Km, sovrastando i “funghetti” di Hiroshima e Nagasaki, mentre l’onda d’urto fece tre volte il giro del mondo impiegando nel primo “valzer” 36 ore e 27 minuti. Vi fu anche un black-out delle comunicazioni radio in tutto l’emisfero settentrionale. Tuttavia, contrariamente a quanto si possa pensare, quella della Tsar fu un’esplosione molto pulita ed efficiente in quanto sfruttò oltre il 97 percento della sua potenza dalla fusione termonucleare. Il test Tsar fu preceduto il 9 Agosto 1961 dalla dichiarazione di Nikita Sergeevič Chruščёv nella quale affermava che l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche era in grado di costruire e intendeva sperimentare una superbomba da 100 megatoni, scatenando forti proteste internazionali. A tali dichiarazioni seguirono il 16 Gennaio 1963 le rivelazioni fatte a Berlino Est, sempre dallo stesso Chruščёv, del possesso di una superbomba di quel tipo da parte dell’Unione Sovietica. Un simile ordigno, se testato sulla superficie terrestre, aprirebbe nella roccia un cratere profondo oltre 100 metri e largo quasi 3 Km con un fungo di almeno 14 Km di diametro. L’esplosione liberò un’energia pari a circa 2.1×10 alla 17ma potenza in Joule ovvero 5.3×10 alla 24ma potenza di Watt. La riduzione di potenza della Tsar si rese necessaria perché dal progetto iniziale di bomba a tre stadi (fissione-fusione-fissione) si passò ad una bi-stadio (fissione-fusione) sostituendo il terzo stadio di Uranio con uno di Piombo. Ciò ridusse enormemente il fallout radioattivo visto che il 97 percento dell’energia liberata fu derivata dalla fusione e solo il 3 percento dalla fissione. Tuttavia Big Ivan fu definito il test nucleare più pulito mai effettuato sulla Terra. Se invece fosse stata esplosa come una bomba da 100 megatoni, questo avrebbe potuto aumentare il fallout radioattivo, rispetto a quello prodotto da tutti i test nucleari effettuati sulla Terra, del 25 percento. La bomba sovietica Tsar pesava 27 tonnellate, era lunga 8 metri e aveva un diametro di 2 metri. Fu sganciata con un paracadute dalla quota di 10.500 metri. Il lampo termonucleare fu visibile a mille chilometri di distanza e nel raggio di centinaia di chilometri furono bruciate tutte le case di legno, mentre gli effetti termici si avvertirono sino a 270 Km di distanza con ustioni di terzo grado. Solo una speciale vernice termoisolante permise al Tupolev 95 russo, il quale al momento dell’esplosione si trovava già a 45 Km di distanza, di non esplodere a causa dell’effetto termico. La bomba in realtà non aveva alcuno scopo militare, visto che un ordigno di tale potenza non aveva specifici usi tattici. Fu sperimentata solo come azione dimostrativa delle capacità tecnologiche dell’allora Impero sovietico e del suo leader Chruščёv. La Tsar non aveva quindi impieghi pratici visto che era troppo pesante per essere trasportata da un missile balistico e inoltre un aereo che avesse voluto sganciarla su una città nemica sarebbe stato facilmente abbattuto prima ancora di violarne lo spazio aereo. I figli della Tsar Bomb furono le testate Mirv dei missili balistici intercontinentali (Icbm) russi oggi sempre più intelligenti e capaci di schivare qualsiasi scudo antimissile americano. Andrej Dmitrievič Sakharov fu poi insignito del Premio Nobel per la Pace. L’ignoranza dilagante in fatto di Energia Nucleare è sotto gli occhi di tutti. Dal 1945 fino ai nostri giorni la stampa ha sempre parlato di “bombe atomiche” e di “scienziati atomici”. Ora le “atomiche” sono le convenzionali armi elettromagnetiche (tritolo, plastico) mentre le differenti reazioni di fissione e fusione sono esclusivamente di tipo nucleare, ossia avvengono a livello del nucleo e non tra le orbite degli elettroni che circondano il nucleo! Ci si informi prima di continuare a divulgare sciocchezze, confondendo centrali elettronucleari ed ordigni nucleari, soffocando la ricerca scientifica e tecnologica nucleare di Pace, condannando un Paese libero, democratico, sovrano e civile come l’Italia alla totale dipendenza energetica estera delle multinazionali, alla depressione, alla recessione, alla decadenza morale, etica, politica, culturale, economica e sociale. Le atomiche nell’accezione fisica nucleare del termine, non sono mai esistite! La Conoscenza è la nostra unica arma di difesa contro i futuri mostri della storia e contro la spirale di violenze e di lutti che ogni guerra pubblica e privata produce. L’annientamento è sempre dietro l’angolo, come i tagliagole dimostrano. Un’ombra cupa di ignoranza e distruzione aleggia sulla Terra. Ma l’energia e la tecnologia nucleare civile di Pace in Italia e nel mondo non sono state ancora liberate. La condanna morale è netta e indiscutibile anche per le attuali 15mila testate nucleari pronte all’uso. Tre minuti alla Mezzanotte. Anche la obsoleta Nato se ne faccia una ragione. Umanità e armi nucleari non possono coesistere.

© Nicola Facciolini

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