Lo European Extremely Large Telescope sarà la cattedrale della Astrofisica mondiale in Cile grazie all’Italia

“Se vi è un solo Universo, le mucche con due teste sono molto più rare delle mucche con una sola testa e si può calcolare il rapporto tra i due numeri. In un Multiverso con un numero infinito di universi ci saranno infinite mucche con una testa e infinite mucche con due teste. Il rapporto […]

“Se vi è un solo Universo, le mucche con due teste sono molto più rare delle mucche con una sola testa e si può calcolare il rapporto tra i due numeri. In un Multiverso con un numero infinito di universi ci saranno infinite mucche con una testa e infinite mucche con due teste. Il rapporto – infinito diviso infinito – sarà indeterminato” (Alan Guth). Lo European Extremely Large Telescope sarà la cattedrale dell’Astrofisica mondiale in Cile grazie all’Italia. Il Finance Committee dell’European Southern Observatory (Eso), nel corso di una riunione straordinaria tenutasi il 3 Febbraio 2016, ha autorizzato l’avvio della negoziazione finale con i vincitori del bando di gara per il processo di progettazione, costruzione, trasporto, costruzione, assemblaggio sul sito finale e verifica della cupola e della struttura principale del telescopio E-ELT (European Extremely Large Telescope), il più grande strumento ottico sulla Terra per l’esplorazione dello spaziotempo profondo e la ricerca di nuove forme di vita e civiltà sugli altri mondi. La discussione tra Eso ed ACe, il consorzio vincitore composto dalle società italiane Astaldi, Cimolai ed European Industrial Engineering, quest’ultima nominata come “sub-contractor”, verrà avviata a breve, con l’obiettivo di giungere alla firma del contratto nel Maggio del 2016. Questa tappa fondamentale per il progetto E-ELT è il frutto di un esteso ed intenso lavoro di molte persone. Il contratto sarà il più cospicuo mai approvato da Eso e il più grande in assoluto per un telescopio terrestre E-ELT. “È una grande soddisfazione vedere la nostra Industria alla guida di quest’impresa – rivela Nicolò D’Amico, Presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) e delegato nel “Council” di Eso – un risultato che parte da lontano, costruito nel tempo anche con il contributo determinante dell’Inaf. Lo sviluppo delle tecnologie d’avanguardia, necessarie per svelare i segreti dell’Universo, configura importanti ritorni industriali per il Paese”. Il 13 Maggio 2015 il Finance Committee dell’European Southern Observatory aveva firmato a Monaco di Baviera (Germania) il contratto per la realizzazione di MAORY (wwwmaory.oabo.inaf.it/, Multi-conjugate Adaptive Optics RelaY) uno dei primi tre strumenti che equipaggeranno il grande telescopio E-ELT in costruzione sulle Ande cilene. L’Istituto Nazionale di Astrofisica, che guida il progetto Maory, riceve così da Eso un finanziamento di 18,5 milioni di euro per costruire un componente fondamentale di E-ELT, che permetterà di sfruttare appieno le potenzialità del suo gigantesco specchio principale, del diametro di ben 39 metri. Maory è un sofisticato sistema di ottica adattiva multiconiugata, pensato per annullare gli effetti negativi sulle riprese astronomiche prodotti dalla turbolenza atmosferica e restituire immagini con un altissimo livello di dettaglio, come nello spazio. Un gran bel successo per l’Astrofisica italiana. Maory è uno strumento che gli scienziati del Belpaese sono riusciti ad ottenere anche grazie al finanziamento del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca tramite un progetto premiale Inaf biennale, che ha permesso di supportare il team scientifico italiano coinvolto nello sviluppo del sistema di ottica adattiva per E-ELT. Dal punto di vista globale, il ritorno con questo contratto per l’Inaf e ovviamente per l’industria italiana è valutato ben maggiore di quello investito. Maory sfrutta una costellazione di stelle artificiali prodotte tramite raggi laser puntati verso il cielo. Il suo sensore di fronte d’onda, lo “LGS Wave Front Sensor”, analizza la luce di queste stelle artificiali che, da circa 90 Km di altitudine, torna a Terra.  Lo strumento, osservando oltre le stelle artificiali anche alcune sorgenti celesti naturali, riconosce le deformazioni sulle onde luminose indotte dalla turbolenza degli strati d’aria presenti sopra il telescopio e quindi impartisce in tempo reale i comandi per modellare opportunamente gli specchi di Maory e restituire così riprese astronomiche praticamente perfette. Questi specchi adattivi sono basati sulla tecnologia “voice-coil motor”, sviluppata nell’ambito di una collaborazione tra Inaf e l’industria italiana. “Grazie all’utilizzo di stelle artificiali e di specchi adattivi multipli, da cui l’appellativo “multi-coniugata” attribuito a questa tecnica di ottica adattiva – osserva Emiliano Diolaiti dell’Inaf, Principal Investigator del progetto – Maory riuscirà a compensare gli effetti della turbolenza atmosferica su un ampio campo di vista e sulla quasi totalità del cielo osservabile con E-ELT. La fase di progettazione concettuale dello strumento è stata completata positivamente oltre 5 anni fa. È davvero entusiasmante pensare che ora il progetto Maory è pronto per ripartire”. La ratifica del contratto per la realizzazione di Maory da parte del Finance Committee di ESO è l’ulteriore conferma delle competenze scientifiche e tecnologiche di eccellenza  raggiunte dall’Inaf nel campo dei sistemi di ottica adattiva per telescopi terrestri di grande taglia, frutto degli sviluppi ottenuti negli ultimi 16 anni. Strumenti made in Italy che utilizzano queste competenze sono già operativi con successo sul Multi Mirror Telescope (MMT), sul Telescopio Nazionale Galileo (TNG) e, in collaborazione con la Specola Vaticana, sul Large Binocular Telescope in Arizona (Usa). Altri telescopi della classe “8 metri” (la misura del diametro del loro specchio principale) hanno attualmente in sviluppo sistemi adattivi equivalenti: il Very Large Telescope dell’Eso con la “Adaptive Optics Facility” e il telescopio Magellan con il suo sistema adattivo nella banda della luce visibile. Nulla a che vedere con il valoroso popolo Polinesiano, Maory è un po’ l’equivalente ottico delle cuffie a riduzione attiva del rumore: un dispositivo in grado di compensare gli effetti della turbolenza atmosferica, la bestia nera di tutti i grandi e piccoli telescopi terrestri, comprese le nostre storiche Specole soffocate dall’inquinamento luminoso delle città. Permettendo così a quello che si appresta a diventare il più grande telescopio ottico al mondo, l’E-ELT, di sfruttare appieno le sue potenzialità, come se si trovasse nello spazio, surclassando anche il James Webb Space Telescope della Nasa, l’erede del celebre Hubble. La progettazione e la costruzione di Maory, un’impresa da 18.5 milioni di euro, è ufficialmente affidata da Eso a un consorzio internazionale guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica. Il nuovo accordo firmato da Nicolò D’Amico, Presidente dell’Inaf, e da Tim de Zeeuw, Direttore Generale dell’Eso, durante una cerimonia nel quartier generale dell’Eso a Garching (Monaco, Germania), spalanca all’Italia il dominio dell’Astronomia mondiale, in attesa dell’ingresso della Russia nell’Eso. Una responsabilità scientifica e tecnologica non di poco conto nella crescente pacifica competizione internazionale. “La messa a punto di tecnologie innovative che consentono di affondare le mani nei segreti della Natura, ha sempre giocato un ruolo primario nello sviluppo della società moderna. Basti pensare al wi-fi, un dispositivo inventato (da Nicola Tesla, NdA) e poi brevettato anni fa dai radioastronomi australiani – ricorda D’Amico – proprio per fronteggiare problematiche connesse a sofisticate misure astronomiche, una diavoleria che poi ha cambiato la nostra vita e ha creato un colossale business. Oggi siamo di fronte ad un fenomeno simile: l’ottica adattiva costituisce una vera rivoluzione tecnologica messa in moto sempre dalla nostra instancabile voglia di conoscere l’Universo, e il fatto che l’Italia sia in prima linea su questo fronte è motivo di orgoglio per la Nazione”. Grazie a Maory gli strumenti per le osservazioni nel vicino infrarosso di E-ELT (primo fra tutti MICADO, la fotocamera di prima generazione di E-ELT) potranno avvalersi dell’ottica adattiva multi-coniugata con “stelle-guida” artificiali generate da fasci laser. Mediante questi dispositivi, particolari specchi dalla superficie deformabile, è possibile compensare in tempo reale i disturbi dovuti a fenomeni quali l’effetto del vento sul telescopio, che altrimenti degraderebbero la qualità dell’immagine limitando fortemente le prestazioni di E-ELT e dei suoi strumenti scientifici. “Il processo di analisi della luce e di compensazione dei disturbi mediante gli specchi adattivi viene ripetuto costantemente durante tutta la durata dell’esposizione – spiega Emiliano Diolaiti dell’Osservatorio Astronomico Inaf di Bologna – con frequenza di ripetizione tipica di 500 volte al secondo o anche maggiore. Utilizzando più specchi adattivi lungo il percorso ottico, da cui il nome, Maory è in grado di fornire immagini corrette su un campo di vista molto più esteso rispetto all’ottica adattiva tradizionale. Uno di questi specchi è l’imponente specchio quaternario di E-ELT che sarà realizzato da un consorzio di industrie italiane”. Il successo appena conseguito non nasce dal nulla. Maory è stato supportato in questi anni dal progetto premiale “T-REX: tecnologie italiane per E-ELT”, finanziato dal Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca (MIUR) nell’ambito dei bandi 2011 e 2012. Anche grazie al cospicuo finanziamento del Miur, l’Inaf ha potuto raggiungere questo risultato, ottenendo l’aggiudicazione di un contratto di importo molto maggiore del finanziamento stesso. E-ELT con il suo grande occhio da 39 metri di diametro ci dirà se ET esiste davvero, perchè osserverà direttamente le atmosfere aliene degli esomondi! Un esopianeta è un pianeta non appartenente al “nostro” Sistema Solare, ovvero orbitante attorno a una stella diversa dal Sole. Ad oggi sono stati classificati come esopianeti 2.052 mondi extrasolari (http://planetquest.jpl.nasa.gov/) distribuiti in 1.300 sistemi planetari alieni. Tutti diversi l’uno dall’altro. L’avventura nasce all’inizio di Ottobre di 21 anni fa, quando Michel Mayor e Didier Queloz dell’Osservatorio svizzero di Ginevra, grazie a osservazioni spettroscopiche compiute dall’Osservatorio dell’Alta Provenza (Francia) annunciarono la scoperta del primo pianeta extrasolare in orbita attorno a un astro simile al Sole, la stella 51 Pegasi, a 48 anni luce nella Costellazione di Pegaso. La scoperta di mondi fuori dal Sistema Solare ha idealmente autorizzato gli scienziati a porsi domande sempre più specifiche sulla costituzione di questi esopianeti, su quante e quali stelle della nostra Galassia ne ospitano almeno uno e, ovviamente, se ci sono pianeti compatibili con la vita. L’Agenzia Spaziale Europea ha deciso di affidare il coordinamento di  due progetti per la ricerca degli esopianeti all’astronoma catanese Isabella Pagano, 53 anni, ricercatrice all’Istituto Nazionale di Astrofisica di Catania, con alle spalle una notevole esperienza scientifica in Colorado. PLATO e CHEOPS sono i nomi dei due satelliti che saranno utilizzati nella ricerca, avviata dal 2007, il cui scopo è l’esplorazione di possibili corpi celesti gravitanti attorno ad altri astri. “Parliamo di stelle e sistemi vicini, come Alfa Centauri, visibili anche a occhio nudo – spiega Isabella Pagano – eppure distanti dalla Terra da 4 a 25 anni luce. I satelliti che stiamo progettando, come Plato (in orbita nel 2024) o che stiamo già costruendo, come Cheops (in orbita nel 2018), avranno come missione lo studio di questi pianeti che fino a 21 anni fa non erano neanche visibili e adesso sono oggetto di attenzione da parte della comunità scientifica internazionale e di curiosità da parte dell’opinione pubblica”. Il progetto è finanziato dall’Esa con circa 800 milioni di euro e l’Italia, oltre al contributo della scienziata catanese, partecipa tramite l’Inaf realizzando le lenti dei telescopi montate sui due satelliti. Vista la distanza esistente, la scoperta di quasi tutti gli esopianeti è stata possibile solo attraverso metodi di osservazione indiretta o da fotografie effettuate con il telescopio. La maggior parte dei pianeti individuati sono giganti gassosi come Giove o, più recentemente, soprattutto grazie alla missione Kepler della Nasa, sono stati individuati pianeti rocciosi, in particolare quelli massivi del tipo “Super Terra”, anche se la speranza è quella di trovare l’esatto pianeta gemello della Terra. Un mondo alieno con le caratteristiche della Terra potrebbe essere stato individuato in Kepler 452b, come annunciato dalla Nasa, a 1400 anni luce dalla Terra. È il mondo di Predator, nel trentesimo anniversario della suggestiva pellicola cinematografica di John McTiernan con Arnold Schwarzenegger? Per avere conferme o smentite su questo pianeta bisognerà attendere la partenza della missione CHEOPS, prevista alla fine del 2017, e PLATO, nel 2024. “Una delle cose che abbiamo imparato in questi 21 anni di raccolta dati, è che la relazione tra la massa e il raggio di un pianeta non è univoca, come invece accade nel Sistema Solare – rileva Isabella Pagano – questo significa che laddove troviamo un pianeta piccolo, non possiamo dire con certezza che sia roccioso. E stiamo constatando che è problematico anche il caso opposto: pianeti grandi che non è detto che siano gassosi”. Dunque, esomondi alieni caratterizzati da una consistente Gravità, che potrebbero ospitare per davvero esseri massicci come Predator! “La missione PLATO – spiega la scienziata – andrà a raccogliere quei dati che attualmente mancano per avere una statistica completa sulle densità, in particolare di pianeti piccoli su orbite lunghe, superiori al periodo di Mercurio, considerate abitabili per le stelle simili al Sole. Mi aspetto che tra una quindicina di anni avremo compilato un catalogo abbastanza completo, quasi un Atlante, di pianeti attorno alle stelle più vicine, soprattutto quelle simili al Sole. Poi mi aspetto che avremo compreso qual è la composizione interna di questi pianeti, qual è la relazione che c’è tra la struttura e la dimensioni. In questo Atlante ci saranno anche delle indicazioni su dove ci aspettiamo che ci siano delle atmosfere osservabili, e questo sarà il punto di partenza per il passo successivo, andare proprio a guardare queste atmosfere, misurarne la composizione, rivelare la presenza di eventuali biomarker, come la clorofilla. Mi aspetto dunque che tra vent’anni avremo già un buon inventario di osservazioni sulle atmosfere di esopianeti”. E-ELT farà la sua parte nella Esoplanetologia. Non solo. La galassia più luminosa che si conosca nell’Universo, il Quasar W2246-0526, visto quando il Creato aveva meno del 10% della sua età attuale, è così turbolenta da essere sul punto di espellere tutti i rifornimenti di quel gas che serve per formare nuove stelle, secondo le ultime osservazioni con il telescopio ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array). I Quasar sono galassie distanti con un buco nero supermassiccio e molto attivo al centro, che spara fuori getti potenti e collimati di particelle e radiazione. La maggior parte dei Quasar è molto brillante, ma una piccola frazione di questi oggetti così energetici ricade nella categoria insolita degli Hot DOG, ovvero “Hot Dust-Obscured Galaxies”, galassie calde e piene di polvere che assorbe la radiazione, tra cui la galassia WISEJ224607.57-052635.0, la più luminosa che si conosca nell’Universo, trovata dal telescopio Wide-field Infrared Survey Explorer della Nasa. Solo uno ogni 3000 Quasar osservati viene classificato come Hot DOG. Per la prima volta, il team di scienziati, guidato da Tanio Díaz-Santos dell’Universidad Diego Portales di Santiago (Cile), sfruttando le capacità uniche del radiotelescopio Alma per scrutare l’interno di W2246-0526, è riuscito a tracciare il moto degli atomi di Carbonio ionizzato tra le stelle della galassia. Alma, unico tra gli strumenti attuali, è infatti in grado di rivelare la debolissima luce emessa naturalmente a lunghezze d’onda millimetriche dagli atomi di Carbonio. “Grandi quantità di questo materiale interstellare sono state trovate in uno stato molto turbolento e dinamico, in corsa attraverso la galassia a circa due milioni di chilometri all’ora”, rivela Tanio Díaz-Santos, autore principale dello studio presentato nell’articolo “The Strikingly Uniform, Highly Turbulent Interstellar Medium of The Most Luminous Galaxy in the Universe”, pubblicato dalla rivista Astrophysical Journal Letters, frutto del lavoro dell’equipe composta da T. Díaz-Santos (Universidad Diego Portales, Santiago, hile), R.J. Assef (Universidad Diego Portales, Santiago, Cile), A.W. Blain (University of Leicester, Regno Unito), C.W. Tsai (Jet Propulsion Laboratory, California Institute of Technology, Pasadena, California, USA) , M. Aravena (Universidad Diego Portales, Santiago, Cile), P. Eisenhardt (Jet Propulsion Laboratory, California Institute of Technology, Pasadena, California, USA), J. Wu (University of California Los Angeles, California, USA), D. Stern (Jet Propulsion Laboratory, California Institute of Technology, Pasadena, California, USA) e C. Bridge (Jet Propulsion Laboratory, California Institute of Technology, Pasadena, California, USA). Gli astronomi credono che questo comportamento turbolento possa essere legato all’estrema luminosità della galassia. W2246-0526 emette tanta luce quanto 350 milioni di milioni di Soli tutti insieme. Questo sorprendente fulgore è alimentato da un disco di gas che si surriscalda mentre spiraleggia verso il buco nero supermassiccio al centro della galassia. La luce del “disco di accrescimento” incredibilmente luminoso nel centro di questo Hot DOG, non sfugge direttamente, ma viene assorbita da una spessa coltre di polvere che lo circonda e che quindi re-irradia l’energia sotto forma di luce infrarossa. A causa dell’espansione dell’Universo, scoperta grazie al Very Large Telescope dell’Eso, la radiazione infrarossa di W2246-0526 viene spostata verso il rosso, ossia lunghezze d’onda millimetriche più lunghe, a cui Alma è molto sensibile, se osservato da Terra. Questa potente sorgente infrarossa ha un impatto diretto e violento sull’intera galassia. La regione intorno al buco nero è almeno 100 volte più luminosa del resto della galassia combinata, e cosi rilascia una radiazione intensa ma localizzata in W2246-0526 che esercita una tremenda pressione sull’intera galassia. Il processo di interazione reciproca tra il buco nero centrale di una galassia e il resto del materiale che la compone viene chiamato dagli astronomi “feedback”. Nella maggior parte degli altri Quasar questo rapporto è più modesto. “Sospettiamo che questa galassia sia in uno stadio di trasformazione, proprio a causa dell’enorme quantità di energia infrarossa”, osserva il coautore Peter Eisenhardt, capo scientifico del progetto WISE al Jet Propulsion Laboratory. “Alma ci ha mostrato che la fornace furiosa di questa galassia sta per far traboccare la pentola”, avverte Roberto Assef dell’Universidad Diego Portales, a capo delle osservazioni di Alma. Se queste condizioni di turbolenza continueranno, l’intensa radiazione infrarossa farà ribollire ed evaporare tutto il contenuto di gas interstellare della galassia. Alcuni modelli di evoluzione galattica basati sui nuovi dati di Alma, sembrano indicare che il gas interstellare sia già in esplusione dalla galassia, in tutte le direzioni. “Se questo schema continua – rivela Manuel Aravena dell’Universidad Diego Portales – è possibile che W2246 alla fine divenga un Quasar più tradizionale. Solo Alma, con la sua risoluzione ineguagliata, può permettere di vedere questo oggetto ad alta definizione per scandagliare un episodio così fondamentale nella vita di questa galassia”. Molti sistemi stellari sono zeppi di polvere, mentre altre galassie mostrano rare strisce opache di fuliggine cosmica che turbinano tra le stelle e il gas. Ma la galassia ritratta nell’immagine ottenuta con la camera OmegaCAM montata sul telescopio per survey del VLT (VST) dell’Eso, in Cile, è insolita: la piccola galassia, nota come IC1613, è una vera solerte domestica della pulizia! IC1613 contiene pochissima polvere e consente agli astronomi di esplorarne il contenuto con molta chiarezza. Non è solo una questione di apparenze. La pulizia della galassia è fondamentale per capire l’Universo in cui viviamo, pieno di misteri e magari di esomondi alieni celati alla nostra vista! IC1613 è una galassia nana nella costellazione della Balena. La nuova immagine del VST mostra in dettaglio la bellezza non convenzionale della galassia di stelle sparse tra i gas brillanti rosati. L’OmegaCAM è una camera da 32 CCD con 256 milioni di pixel, montata sul VLT Survey Telescope da 2,6 metri di diametro all’Osservatorio del Paranal in Cile. L’astronomo tedesco Max Wolf scoprì il debole bagliore di IC1613 nel 1906. Nel 1928 il suo connazionale Walter Baade usò il più potente telescopio da 2,5 metri di diametro all’Osservatorio di Mount Wilson (California) per distinguere le singole stelle della galassia. Da queste osservazioni gli astronomi ricavarono l’idea che la galassia dev’essere abbastanza vicina alla “nostra” Via Lattea, perchè è possibile risolvere le singole stelle, luci come punte di spillo, solo per i sistemi stellari più vicini. Da allora gli astronomi hanno confermato che IC1613 è proprio uno dei membri del Gruppo Locale, una raccolta di più di 50 galassie che comprende la Via Lattea. IC1613 si trova a circa 2,4 milioni di anni luce dalla Terra. È relativamente ben studiata grazie alla sua vicinanza. Gli astronomi hanno scoperto che è una nana irregolare, senza molte delle caratteristiche classiche, come un disco di stelle, comuni ad altre galassie minuscole. Ma ciò che IC1613 non rivela per forma, lo compensa con l’ordine. Gli scienziati conoscono con elevata precisione la distanza di IC1613, in parte grazie al livello insolitamente basso di polvere sia nella galassia sia lungo lo spaziotempo che la separa dalla Via Lattea. Fatto che consente osservazioni molto più nitide. La polvere cosmica è formata da vari elementi pesanti, come Carbonio e Ferro, così come da molecole più grandi e granulose. Non solo la polvere blocca la luce, rendendo più difficile individuare gli oggetti circondati dalla polvere, ma diffonde preferenzialmente i fotoni blu. Ne risulta che la polvere cosmica rende gli oggetti più rossi, quando osservati con un telescopio, di quanto non siano in realtà. Gli astronomi possono tenere conto di questo “arrossamento” quando studiano gli oggetti. In ogni caso, minore è l’arrossamento e migliori risultano le osservazioni. La seconda ragione che spiega la distanza di IC1613 nota così precisamente è che la galassia contiene un grande numero di stelle notevoli di due diversi tipi: le variabili Cefeidi e le variabili RR Lyrae. Oltre alle due Nubi di Magellano, IC1613 è l’unica galassia nana irregolare nel Gruppo Locale in cui sono state identificate variabili del tipo RR Lyrae. Entrambe le classi di stelle pulsano ritmicamente, diventando più grandi e brillanti in modo caratteristico a intervalli fissi. Come la normale programazione fisica dei nostri cervelli consente di percepire nella nostra esperienza quotidiana, oggetti luminosi come una lampadina o la fiamma di una candela appaiono più deboli a mano a mano che si allontanano da noi. Gli astronomi usano questa semplice relazione per stimare le distanze degli oggetti nell’Universo, ma solo quando si conosce la loro luminosità intrinseca. Le Cefeidi e le variabili RR Lyrae vantano la speciale proprietà del periodo di variazione di luminosità che è direttamente legato alla loro luminosità intrinseca. Misurando perciò quanto velocemente la loro luce fluttua si può derivare la loro luminosità intrinseca. Quindi si possono confrontare questi valori con la luminosità apparente misurata e derivare quanto lontani devono essere per apparire così deboli. Stelle di luminosità intrinseca nota possono essere usate come “candele standard” così come una candela di luminosità specifica può funzionare da misura degli intervalli di distanza basandosi sulla luminosità osservata della sua fiammella. Usando candele standard come le stelle variabili all’interno di IC1613 e le meno comuni Supernovae di tipo Ia, che sono visibili a grandissime distanze cosmiche, gli astronomi hanno costruito una lunghissima scala delle distanze cosmiche, per arrivare sempre più lontano nello spaziotempo. Decenni fa, la IC1613 ha aiutato gli astronomi a scoprire come sfruttare le stelle variabili per misurare la vasta distesa dell’Universo. Non male per una piccola galassia informe! Altri astronomi hanno usato i telescopi Alma e Iram per effettuare le prime misure dirette della temperatura dei grani di polvere più grandi nelle zone esterne di un disco di formazione planetaria intorno a una giovane stella. Sfruttando una tecnica innovativa per le osservazioni di un oggetto soprannominato “Disco Volante” (nulla a che vedere con gli Ufo!) hanno trovato che i grani sono molto più di freddi del previsto: meno 266 gradi Celsius. Il risultato sorprendente suggerisce che i modelli di questi “dischi” debbono essere rivalutati. L’equipe internazionale guidata da Stephane Guilloteau del Laboratoire d’Astrophysique de Bordeaux (Francia) ha misurato la temperatura dei grani di polvere grandi, intorno alla stella giovane 2MASSJ16281370-2431391, nella spettacolare regione di formazione stellare di Rho Ophiuchi, a circa 400 anni luce dalla Terra. L’astro è circondato da un disco di gas e polvere di natura protoplanetaria. Siamo cioè in presenza dei primi stadi di creazione dei sistemi esoplanetari alieni. Il Disco Volante in questione, osservato quasi di taglio, presenta il suo aspetto caratteristico nelle fotografie in luce visibile che ha portato al soprannome. Gli astronomi hanno usato il telescopio Alma per osservare il bagliore delle molecole di monossido di Carbonio nel disco di 2MASSJ16281370-2431391. Sono stati così in grado di produrre immagini molto nitide, trovando qualcosa di strano: in alcuni casi hanno visto un “segnale negativo”! Di solito un segnale negativo è impossibile dal punto di vista fisico, ma in questo caso esiste, per dirla con il Signor Spock, una spiegazione plausibile che porta a conclusioni sorprendenti. “Questo disco non viene osservato su un fondo buio e vuoto come un cielo notturno – rivela Stephane Guilloteau, primo autore dello studio “The shadow of the Flying Saucer: A very low temperature for large dust grains”, pubblicato da Astronomy & Astrophysics Letters – viene visto invece in controluce sopra la nebulosa di Rho Ophiuchi. Questa luce diffusa è troppo estesa per essere rilevata da Alma, ma il disco la assorbe. Il segnale negativo che ne risulta significa che alcune parti del disco sono più fredde del fondo. La Terra è letteralmente nell’ombra del Disco Volante!”. L’equipe composta da S. Guilloteau (University of Bordeaux/CNRS, Floirac, Francia), V. Piétu (IRAM, Saint Martin d’Hères, Francia), E. Chapillon (University of Bordeaux/CNRS; IRAM), E. Di Folco (University of Bordeaux/CNRS), A. Dutrey (University of Bordeaux/CNRS), T. Henning (Max Planck Institute für Astronomie, Heidelberg, Germania [MPIA]), D. Semenov (MPIA), T. Birnstiel (MPIA) e N. Grosso (Observatoire Astronomique de Strasbourg, Strasbourg, Francia) ha combinato le misure del disco effettuate da Alma con le osservazioni del bagliore del fondo ottenute dal telescopio da 30 metri IRAM in Spagna, poichè Alma non è ancora sensibile al segnale esteso del fondo. Hanno derivato una temperatura dei grani di polvere del disco di soli meno 266 gradi Celsius, appena 7 gradi sopra lo Zero Assoluto (7 gradi Kelvin), a una distanza di circa 15 miliardi di chilometri dalla stella centrale. Ciò corrisponde a circa cento volte la distanza tra la Terra e il Sole, la regione occupata oggi dalla Fascia di Kuiper nel “nostro” Sistema Solare. È la prima misura diretta della temperatura di grandi grani di dimensioni intorno al millimetro in questo tipo di oggetti. Questa temperatura è molto più bassa dell’intervallo compreso tra i meno 258 e i meno 253 gradi Celsius (15-20 Kelvin) predetto dalla maggior parte dei modelli. Come risolvere la discrepanza? I grani di polvere grandi devono avere proprietà diverse da quelle attualmente ipotizzate, per permettere loro di raffreddarsi a queste temperature. “Per calcolare l’impatto di questa scoperta sulla struttura del disco – osserva il coautore Emmanuel di Folco – dobbiamo trovare quali proprietà plausibili della polvere conducano a temperature così basse. Abbiamo qualche idea, per esempio la temperatura potrebbe dipendere dalla dimensione dei grani, con quelli più grandi che sono anche più freddi di quelli piccoli. Ma è troppo presto per esserne sicuri”. Se si scopre che queste temperature delle polvere così basse sono una caratteristica normale dei dischi protoplanetari, si può pensare che ciò abbia delle conseguenze importanti sulla nostra comprensione di come essi si formino ed evolvano. Diverse proprietà della polvere, ad esempio, potrebbero influire su ciò che accade quando queste particelle si scontrano e perciò sul loro ruolo nel fornire il seme per la formazione dei pianeti. Non si può ancora stabilire, però, se il cambiamento richiesto nelle proprietà della polvere sia significativo o meno in questo senso. Temperature basse per la povere possono avere un impatto significativo per i dischi di polvere più piccoli che gli scienziati conoscono. Se questi dischi sono composti soprattutto da grani grandi ma più freddi di quanto si ipotizzi attualmente, quelli compatti potrebbero essere arbitrariamente massicci e formare pianeti giganti relativamente vicini alla stella centrale. Servono ulteriori osservazioni, ma già sembra che la polvere fredda trovata da Alma possa avere conseguenze significative sulla comprensione dei dischi protoplanetari. La Scienza non è piena di certezze e verità assolute. Vi sono molti concetti matematici, fisici e astronomici che, sebbene complessi, ci sono familiari, se non altro per averli incontrati ripetutamente nelle nostre letture, sentiti in conferenze e congressi, e che i fisici del mestiere utilizzano in ambito professionale. Quando però li dobbiamo spiegare a un pubblico curioso e istruito, ma non specializzato, ci accorgiamo spesso e mal volentieri di essere in difficoltà, forse perché non li abbiamo capiti veramente bene nemmeno noi. Le varie banalizzazioni in “lingua volgare” a cui si ricorre, i paragoni con situazioni verosimili e intuitive tratte dalle esperienze quotidiane, reggono fino a una certa soglia di attenzione, per breve tempo, e solo se chi ascolta le nostre spiegazioni si accontenta della banalizzazione e non sente la necessità di andare oltre. Se invece vuole approfondire, mette talvolta in difficoltà anche lo scienziato. A dimostrazione del fatto che gli stessi test d’ingresso alle facoltà italiane di Medicina e Odontoiatria, ogni anno quasi del tutto “impossibili” per la metà dei partecipanti, proiettano la spessa oscura cortina fumogena del dubbio sulle reali capacità scientifiche degli Italiani, in particolare sulla metà del campione che li supera più o meno brillantemente. Alle selezioni dell’8 Settembre 2015 hanno partecipato 53.164 (più 50 schede annullate tutte a Pavia) per 9.385 posti disponibili (8.653 Medicina e 732 Odontoiatria): 1.909  candidati su 9.385  pari al 20,33% dovranno frequentare il corso di Medicina in un ateneo diverso dalla sede dove hanno svolto la prova (prima scelta). Come nel 2014 anche nel 2015 è uno studente di Torino che ottiene il primo posto assoluto con il punteggio massimo di 80,90 (80,50 nel 2014). Uno studente di Napoli “Federico II” ottiene lo stesso punteggio (80,90) ma per lo “score” inferiore in logica è secondo. Nessuno studente ha raggiunto il massimo 90/90.
Ma 32 è stato il punteggio minimo per essere ammessi. Se 114 studenti hanno ottenuto questo punteggio, solo 27 rientrano nella graduatoria in base alle priorità. Il voto più basso è stato ottenuto a Catanzaro: (meno) -13,6.  Rispondendo a tutti i quesiti in maniera errata si ottiene il punteggio di (meno) -24. Il  48,08% di studenti è risultato idoneo. Solo 25.530 su 53.164 partecipanti  hanno ottenuto un punteggio maggiore di 20/90. Solo 67 studenti hanno ottenuto zero punti; 985  studenti hanno ottenuto un punteggio negativo, minore di zero; 23,01 è la media in centesimi della prova di tutti i 53.164 candidati. Nel 2014 era stato di 25,63. Padova si conferma migliore con 28,92. Per la media più bassa Catanzaro conferma l’ultima posizione con 16,49. Tra gli atenei italiani l’Università di Milano “Bicocca” si conferma al primo posto con 444 idonei pari al 294,04% di quelli assegnati dal Ministero (151), ossia 293 candidati in più. Milano conferma il numero assoluto maggiore di idonei (826) pari al 202,45%, più del doppio, di quelli assegnati (408), ossia 418 studenti in più. Si conferma così al 2° posto. Messina realizza il risultato peggiore confermando 62 studenti su 198 pari al 31,31%. Accoglierà 136 studenti che hanno sostenuto la prova in altri atenei. Napoli SUN si conferma l’ateneo che ospiterà più studenti provenienti da altri atenei: 300 contro i 154 Locali per un totale di 454. Gli studenti di Milano Bicocca per avere la “speranza” di frequentare la propria sede devono aver totalizzato almeno un punteggio di 42,60. Magari per poi cadere sulla domanda: com’è fatto un atomo? Difficile non ricorrere al paragone con un sistema planetario composto da una stella (il nucleo) e da un certo numero di pianeti (gli elettroni) che vi orbitano attorno. Ma la banalizzazione non regge e poche domande successive, sul Principio di Esclusione di Pauli o sulla localizzazione degli elettroni alla luce del Principio di Indeterminazione di Heisenberg, piuttosto che sulle interazioni tra i Quark che compongono i Protoni e i Neutroni del nucleo (i quali, scambiandosi Pioni, si trasformano continuamente l’uno nell’altro e viceversa), fanno capire che non è facile immaginare o vedere il micro e il macrocosmo. Abbiamo scoperto che su scale molto più piccole di quelle della nostra quotidianità, la Fisica cambia registro. Il “continuo” e il deterministico non permettono una descrizione adeguata del mondo microscopico e sono invece necessari il “discreto” e il probabilistico della Fisica Quantistica. Il più semplice atomo, quello dell’Idrogeno (un solo Protone fatto di tre Quark e un solo Elettrone), ben descritto dalle soluzioni dell’Equazione di Schroedinger, assume aspetti diversi a seconda dei suoi possibili livelli energetici. Non va meglio se dall’estremamente piccolo si passa all’estremamente grande. C’è familiarità con l’espansione dell’Universo. La si ritrova persino sui test di Medicina! Espansione accelerata. Ma cosa vuole veramente dire che l’Universo si espande? Quando lo si prova a spiegare ai bambini, proponiamo palloncini della pace che si gonfiano, per mostrare come i punti disegnati sulla loro superficie (le galassie) si allontanano l’uno dall’altro, oppure panettoni, agnellini e colombe che lievitano, con la relativa uvetta e i canditi in espansione nell’impasto che si gonfia. I più smaliziati notano che nel primo caso i punti disegnati sulla superficie del palloncino s’ingrandiscono durante l’espansione mentre nel secondo caso uvetta e canditi rimangono sempre grandi. Poi aggiungono che quello che cresce, in realtà cresce all’interno di un contenitore, il quale implica appunto che vi sia un “dentro” e un “fuori”. Qual è il fuori dell’Universo? Il panettone che lievita rende meglio l’idea visto che gli atomi, le stelle e le galassie non diventano più grandi per effetto dell’espansione? Le loro dimensioni sono determinate dalle Forze nucleari che tengono legati i Quark a formare e legare i Protoni e i Neutroni del nucleo; dalle Forze elettromagnetiche che legano tra loro atomi e molecole e dalla Forza di Gravità che raggruppa le stelle in galassie. Ma allora cos’è veramente che si espande visto che non c’è un contenitore all’interno del quale qualcos’altro va crescendo? È lo spaziotempo della Relatività Generale di Einstein, con le tre dimensioni geometriche che conosciamo, che si espande all’interno di una quarta dimensione come suggerisce l’analogia del palloncino che si gonfia? La sua superficie 2D, in pratica, cresce nel volume 3D. E se lo spazio è quantizzato, cosa succede alla sua quantizzazione durante l’espansione? Non crediate lo si possa capire senza rinunciare a ricondurre il concetto alle nostre esperienze quotidiane e senza piuttosto affidarsi alla matematica e alle sue equazioni. Ma un concetto ancor più difficile da spiegare è quello di Infinito. Perché è impossibile capirne la profondità e, soprattutto, tutte le implicazioni. La follia dei quanti e dell’elettronica di uso quotidiano, però, dimostra che siamo ancora ignorant, anche se la sappiamo usare e la facciamo bene. Il mercato si rassegni. Perchè esistono dei precisi limiti anche in questo genere di affari quantistici! La stessa cosa succede con il concetto di Infinito che ai fisici piace pochissimo mentre ai matematici molto, tant’è che lo trattano con familiarità e addirittura hanno più di un tipo di Infiniti. Lo abbiamo incontrato già alle Elementari. Ce l’hanno presentato nei Numeri Naturali, i più intuitivi. Si può sempre dire “più uno” e, dunque, non finiscono mai. Sono appunto infiniti e diventano sempre più grandi. Ma infinito non è un numero grande. E ogni numero, per grande che sia al suo confront, è piccolo a piacere. Poi abbiamo incontrato un secondo Infinito, di natura diversa, quando ci hanno insegnato che esistono i Numeri Reali. Che diventano necessariamente sempre più grandi, non sono mai completamente definiti e perciò serve un numero infinito di cifre per caratterizzarli. Come il famoso Pi Greco (π) o la radice quadrata di 2. Numerabile il primo infinito, non numerabile (più grande) il secondo. Georg Cantor alla fine del XIX Secolo spiegò che di infiniti ne esistono infiniti e che si possono paragonare tra loro con il suo “metodo della diagonale” per stabilirne la gerarchia. Resta comunque un concetto che non si riesce a rappresentare mentalmente. È inimmaginabile, a differenza del concetto di illimitato di cui si riesce facilmente ad avere ragione. È illimitata, ad esempio, la superficie di un toro o di una sfera, pur essendo infinita e misurabile. Gli infiniti vanno padroneggiati soprattutto se derivano da serie divergenti, altrimenti si prestano a produrre risultati apparentemente assurdi. Non tutti sanno che la somma degli infiniti Numeri Naturali è uguale a “meno 1/12”. Può fare la differenza per la carriera di un futuro medico! Ai fisici gli infiniti non piacciono e quando li incontrano pensano che siano indicatori di inaccuratezza o di incompletezza del modello in esame, dunque un campanello di allarme. Anche il matematico David Hilbert (ricordate l’Hotel con un numero infinito di stanze, tutte occupate, in cui riusciva comunque a sistemare l’arrivo di un ulteriore numero, anche infinito, purché numerabile, di turisti?) sosteneva che infinito è un’astrazione matematica e non ha alcun significato fisico. E, in effetti, i fisici sono riusciti a tenere gli infiniti lontano dalle loro teorie e dal loro formalismo sviluppando una fisica alternativa che li evitasse ogni qualvolta sembravano fare la loro comparsa. Quando la Fisica classica arrivò a predire, all’inizio del XX Secolo, che un “corpo nero” ideale avrebbe dovuto emettere radiazione con potenza infinita (la catastrofe di Rayleigh–Jeans ultravioletta) si capì che qualcosa andava rivisto e la riprogrammazione dei cervelli portò allo sviluppo della Fisica Quantistica che lo stesso Einstein aveva contribuito a fondare! L’Elettrodinamica quantistica (QED) è attualmente la miglior teoria fisica di cui disponiamo (“il gioiello della fisica”, secondo Feynman) in grado di predire in maniera estremamente accurata molte quantità fisiche che oggi permettono computer, pad e smartphone. A condizione che vengano opportunamente trattati gli infiniti che produce! Con un processo chiamato “rinormalizzazione”. Molti fisici però erano e sono insoddisfatti di questo processo, convinti che gli infiniti indichino, ancora una volta, la necessità di migliorare la teoria, riprogrammando nuovamente i cervelli per un salto di “qualità olografica” che potrebbe condurci chissà dove. Se da un lato si continua a considerare che gli infiniti siano incompatibili con il mondo fisico, dall’altro, alcuni cosmologi, a seguito degli sviluppi della teoria dell’Inflazione cosmica, stanno seriamente considerando la possibilità che esista addirittura un numero infinito di Universi a struttura frattale (Multiverso). Risolvono così anche il problema del “fine tuning” del nostro Universo derivante dal Principio antropico: le varie costanti fisiche hanno proprio i valori che ci consentono di essere qui a misurarle. Altri aborrono il Multiverso o comunque non lo considerano un modello da verificare, in quanto pensano che renderebbe impossibile calcolare le probabilità di differenti tipi di universi, di fare qualsivoglia previsione sul risultato di qualunque esperimento. Per dirla con Alan Guth, uno dei padri della Teoria inflattiva, “se vi è un solo Universo, le mucche con due teste sono molto più rare delle mucche con una sola testa e si può calcolare il rapporto tra i due numeri. In un Multiverso con un numero infinito di universi ci saranno infinite mucche con una testa e infinite mucche con due teste. Il rapporto – infinito diviso infinito – sarà indeterminato”. Addio dunque al potere predittivo che qualifica una buona teoria e addio alla conoscenza? Questo problema è noto come il Problema della misura. Di nuovo, è un problema con gli infiniti e con i nostri cervelli da riprogrammare, e molti fisici e cosmologi stanno cercando una soluzione per capire come sia effettivamente la Realtà delle cose. Ecco perchè con la lettera “Governments: Balance research funds across Europe” alla prestigiosa rivista “Nature”, il fisico Giorgio Parisi (Gruppo 2003) e altri ricercatori denunciano lo sbilanciamento fra le poche risorse che il governo italiano destina alla ricerca competitiva nazionale (l’ultimo bando PRIN è di 92 milioni di euro) e i 900 milioni di euro che l’Italia ha dato annualmente alla Commissione europea per il Settimo Programma Quadro (2007-2013), con una perdita netta annuale di 300 milioni. È ora di cambiare priorità. Riportiamo di seguito la lettera su Nature in originale: “Governments: Balance research funds across Europe. We call for the European Union to push governments into keeping their research funding above subsistence level. This will ensure that scientists from across Europe can compete for Horizon 2020 research funding, not just those from the United Kingdom, Germany and Scandinavia. Europe’s research money is divided between the European Commission and national governments. The commission funds large, transnational collaborative networks in mostly applied areas of research, and the governments support small-scale, bottom-up science and their own strategic research programmes. Some member states are not keeping their part of the bargain. Italy, for example, seriously neglects its research base. The Italian National Research Council has not overseen basic research for decades, being itself starved of resources. University funding has dwindled to a bare minimum. The ministerial initiative known as PRIN (Research Projects of National Interest) has been defunct since 2012, apart from a few limited programmes for young researchers. This year’s PRIN allocation of a 92-million (US $100-million) funding call to cover all research areas is too little, too late. Compare this with the annual French National Research Agency’s allocation of up to 1 billion, or with Italy’s 900-million annual contribution to the EU Seventh Framework Programme that ran in 2007–13. That resulted in a net annual loss of 300 million for Italian science. To prevent distorted development in research among EU countries, national policies must be coherent and guarantee a balanced use of resources”. Miliardi di euro vengono spesi ogni anno in guerre, terrorismo, armamenti e disperazione. Realtà? Se ci si pensa bene, è un altro concetto estremamente difficile da capire! In memoria dell’astronauta Edgar Mitchell della missione Apollo 14 della Nasa.

© Nicola Facciolini

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