Tumori: meglio prevenire che curare, ma Big Pharma non è d’accordo

Non sembra che la prevenzione dei tumori sia in testa all’agenda di Big Pharma. Dando un’occhiata agli studi in corso registrati presso la FDA si può osservare come la maggior parte degli investimenti si concentri su farmaci per chi ha già un tumore e per di più in fase avanzata; si fa ricerca cioè su […]

Non sembra che la prevenzione dei tumori sia in testa all’agenda di Big Pharma. Dando un’occhiata agli studi in corso registrati presso la FDA si può osservare come la maggior parte degli investimenti si concentri su farmaci per chi ha già un tumore e per di più in fase avanzata; si fa ricerca cioè su prodotti che possono allungare la vita di alcuni mesi a persone già segnate dal cancro. Perché? C’è chi si è fatto un’idea…

paio di ricercatori dell’Università di Chicago e del MIT di Boston hanno affrontato il problema in maniera sistematica e sono arrivati alla conclusione che i finanziamenti per la ricerca di base, per scoprire cioè le cause del cancro, sono scarsi, pur essendo l’opinione generale d’accordo che è questo il problema da affrontare.

La ricerca in campo privato deve arrivare ad un prodotto che ripaghi delle spese e produca profitti, al di là del fatto che i vantaggi sul paziente, nella fattispecie con un cancro in fase avanzata, siano minimi. L’industria ovviamente non affronta il problema dal punto di vista etico, investe dove guadagna di più, anche se questo ha di fatto dirottato investimenti potenziali nella terapia dei tumori a stadio iniziale con il risultato che nel solo 2003 sarebbero andati perduti negli USA 890.000 anni di vita.

Per registrare un farmaco i produttori devono dimostrare che è efficace e nel contempo sicuro, prima lo fanno più lungo sarà l’intervallo di tempo per fare profitti, finché cioè non scadrà il brevetto. Produrre farmaci che allungano la vita di pochi mesi è più semplice, più rapido e redditizio che fare ricerca su farmaci efficaci nei primi stadi della malattia. Nel primo caso i risultati richiedono poco tempo per essere valutati ed elaborati statisticamente, mentre sono molto lunghi e non scevri di incognite gli studi sulla prevenzione.

Il brevetto di un farmaco ha un arco di tempo di validità attorno ai 20 anni, che inizia da quando viene depositato. Poi c’è il tempo ‘perduto’ per produrre studi che ne permettano la registrazione presso la FDA, cosicché giunge sul mercato in media con soli 12.5 anni disponibili. Alcune sostanze non sono probabilmente mai state testate come farmaci proprio perché la lunga ricerca avrebbe annullato i margini di profitto. Per velocizzare i tempi di registrazione la legge americana ha introdotto vari percorsi ‘facilitati’, che permettono ad un prodotto definito ‘innovativo’ di ridurre il cosiddetto commercialisation lag time (ritardo nella messa in commercio).(2) Nel 1992, ad esempio, la FDA ha creato il PDUFA (Prescription Drug User Fee Act) che ha permesso l’approvazione di molti farmaci in tempi più brevi. Ma la fretta a volte fa commettere errori, così hanno beneficiato del PDUFA farmaci come Avandia e Actos (antidiabetici) e Risperdal (antipsicotico), che hanno creato non pochi problemi ai pazienti, compreso il decesso.(3) Per beneficiare di un percorso più rapido nel periodo 1987-2014 ben il 33% dei farmaci approvati erano stati classificati come first-in-class, cioè fortemente innovativi. Ma è difficile pensare che una percentuale così elevata si riferisca realmente a nuove scoperte, sostiene Kasselheim sul BMJ di qualche mese fa.(2)

Tra i farmaci oncologici che beneficiano di una più rapida approvazione sono più numerosi quelli per le forme più avanzate. Tra il 1973 ed il 2011 ci sono stati 12.000 trials che hanno interessato pazienti con probabilità di decesso a 5 anni del 90%. Nello stesso periodo solo 6.000 hanno considerato pazienti in stadio iniziale con probabilità di decesso a 5 anni del 30%, mentre 17.000 trial erano rivolti a pazienti in fase molto avanzata. La maggior parte di questi ultimi trials avevano ricevuto finanziamento privato. Nello stesso lasso di tempo soltanto 500 studi hanno riguardato la prevenzione.

Per ridurre i tempi di ricerca si usano in genere end point surrogati. Così farmaci quali betabloccanti, ACE-inibitori e statine sono stati registrati in base alle modifiche dei valori pressori e del colesterolo-LDL, anche se poi hanno dimostrato di ridurre morbilità e mortalità cardiovascolare (end point primari). Per accelerare il processo di approvazione, anche nel caso del farmaci anti tumorali si usano end point surrogati.(4) Peccato che non sempre abbiano dimostrato di essere correlati con la qualità di vita guadagnata. Per quanto riguarda la mera sopravvivenza, mentre in alcune malattie ematologiche gli end point surrogati (conta dei globuli bianchi anomali, caratteristiche del midollo) hanno prodotto risultati eccellenti, in altri casi non è stato sempre così.

Per fare un esempio, si è visto che usare il valore di PSA per validare un chemioterapico contro il cancro della prostata offre scarsi benefici sulla sopravvivenza. La dimensione della massa tumorale ha dimostrato scarsa correlazione con la sopravvivenza effettiva, rendendo così poco sostenibile l’uso di tale parametro per giustificare la rapida approvazione e commercializzazione di un farmaco. (5) Inoltre, la consuetudine di ritenere che la risposta alla terapia sia comunque correlata all’aumento di sopravvivenza è esposta ad un bias importante: i pazienti che sopravvivono più a lungo sono quelli che hanno uno status generale migliore e che forse sarebbero comunque arrivati all’exitus più tardi, indipendentemente dai farmaci somministrati.(6)

A. Frakt, sul New York Times, conclude osservando come sarebbe più utile focalizzare l’attenzione su farmaci dedicati alla prevenzione del cancro, studiando misure efficaci per incentivare questo settore della ricerca, rendendolo commercialmente appetibile.

Sempre sul tema della ricerca oncologica vale la pena di annotare che non sempre avviene alla luce del sole. Sempre sul New York Times, una paziente sopravvissuta al cancro, scrive una lettera in cui denuncia la mancata registrazione di molti RCT su ClinicalTrials.gov, obbligatoria per legge dal 2007. L’autrice della lettera denuncia come nel suo stato, l’Indiana, uno studio su Avastin nel cancro mammario in stadio avanzato sia stato sospeso nel 2009 per effetti avversi importanti a fronte di scarsi benefici. Questi studi non sono mai stati registrati né pubblicati, prosegue la lettera.

Solo nel 2011 la FDA ritirò l’approvazione di Avastin per l’indicazione di cancro mammario metastatico: quante donne furono messe in pericolo o danneggiate dal farmaco tra il 2009 e il 2011?

Questo è solo un esempio, ma in molti altri casi anonimi pazienti che si sono offerti volontariamente per la ricerca, sperando di ottenere un miglioramento della loro condizione, sono stati ingannati, in quanto la mancata pubblicazione dei dati aveva reso vano il loro sacrificio. Si tratta di pazienti che hanno firmato un consenso al trattamento con farmaci potenzialmente mortali, ma che lo hanno fatto consapevoli dei benefici che avrebbero potuto ricadere su di loro e su altri infelici nella loro stessa condizione. Il paziente che firma per la sua parte di accordo dovrebbe pretendere che il ricercatore firmi per la sua, mantenendo la promessa di agire nella legalità.

L’autrice della lettera conclude ricordando come ella stessa abbia partecipato con notevole sacrificio e dispendio di danaro ad uno studio poi non pubblicato. Nonostante la legge sia severa, 10.000 dollari di multa per ogni giorno di ritardo nella pubblicazione dei dati, nessuno, né aziende farmaceutiche né ricercatori istituzionali, si sono intimoriti. Anche questo è un modo per disperdere risorse nella ricerca contro il cancro, ma purtroppo non sembra di vedere un cambiamento di rotta.

La trasparenza in questo campo deve arrivare a trionfare e ogni singolo studio su esseri umani deve essere preventivamente registrato e poi pubblicato.

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