Europa, la lunga stagione referendaria

Referendum: è questa, ormai, la parola d’ordine nel Vecchio Continente. Il comune denominatore che unisce le sorti delle classi dirigenti europee. L’anno dei referendum è iniziato il 23 giugno, con la decisione del Regno Unito di lasciare l’Unione, e si potrebbe concludere dopo l’inverno: l’esito del voto britannico, infatti, ha dato il via a tutti […]

Referendum: è questa, ormai, la parola d’ordine nel Vecchio Continente. Il comune denominatore che unisce le sorti delle classi dirigenti europee. L’anno dei referendum è iniziato il 23 giugno, con la decisione del Regno Unito di lasciare l’Unione, e si potrebbe concludere dopo l’inverno: l’esito del voto britannico, infatti, ha dato il via a tutti i partiti euroscettici, i quali hanno chiesto una uguale consultazione nelle rispettive Nazioni.

Le occasioni maggiori per i secessionisti sono in Francia ed Olanda: Oltralpe guidati dal Front National (primo in tutti i sondaggi per le prossime elezioni politiche), nei Paesi Bassi invece capeggiati dal partito di Geert WIlders. E qui le prove generali si sono già tenute in aprile, quando gli elettori hanno bocciato l’accordo tra UE e Ucraina. Quindi, in primavera i capi di governo di entrambi i Paesi potrebbero chiamare i cittadini al voto.

In Austria, il Partito della Libertà ha già annunciato che vorrebbe convocare una consultazione referendaria sulla permanenza tra gli ormai Ventisette nel caso di una vittoria di Hofer al ballottaggio per le elezioni presidenziali, che si ripeteranno il 2 ottobre. Lo stesso giorno, inoltre, si svolgerà un diverso –ma altrettanto significativo per le sorti dell’UE– referendum in Ungheria: sulla ripartizione o meno delle quote di migranti.

Dal canto suo, l’Italia non si tira indietro e, pur risultando il Partito con meno spinte euroscettiche tra quelli elencati sinora, si pone in continuità con essi nella chiamata del popolo alle urne: anche questa in autunno, ma sulla riforma costituzionale voluta dal governo.

In ogni caso, pare quasi che il desiderio comune sia la ricerca di una legittimità della classe dirigente: o come strumento di autoconservazione da parte di governi assediati dai cosiddetti populismi (in Italia, Ungheria e Regno Unito), o come ricerca del consenso da parte di movimenti sinora a margine dello schieramento politico (in Francia, Olanda, Austria) ma pronti al grande passo.

Una rischiosa scommessa nella quale i primi hanno tutto da perdere e i secondi tutto da guadagnare. Nella ricerca quasi esasperata della democrazia diretta, però, si intravede anche un’assunzione sempre minore di responsabilità dell’establishment, forse spaventata dalla recente volatilità elettorale. In questo senso, imporre dall’alto il minor numero di scelte è l’unico modo per non rimanere travolti dall’onda dei cittadini -o dei propri sbagli- una volta cambiato il vento.

Giovanni Succhielli – Pressenza

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