Colosseo Vendesi: un libro ed i fatti

“La fantasia è un posto dove ci piove dentro” Italo Calvino Presentato ufficialmente l’11 luglio scorso al Circolo Aniene di Roma (ma era uscito in aprile, presentato a Radio Radicale in maggio ed in giro per l’Italia nei mesi successivi), con ospiti di grande rilievo come Gianni Letta e la giornalista conduttrice della trasmissione di […]

“La fantasia è un posto dove ci piove dentro”

Italo Calvino

Presentato ufficialmente l’11 luglio scorso al Circolo Aniene di Roma (ma era uscito in aprile, presentato a Radio Radicale in maggio ed in giro per l’Italia nei mesi successivi), con ospiti di grande rilievo come Gianni Letta e la giornalista conduttrice della trasmissione di La7 L’Aria che tira Myrta Merlino, Colosseo Vendesi. Una storia incredibile ma non troppo, edito da Bompiani: ultima fatica in forma di romanzo di Marcello Sorgi, ex direttore del Tg1 e de La Stampa, un romanzo che ricorda Sciascia (non a caso conterraneo di Sorgi), da cui l’autore prende il tono immediato e insieme surreale, in una vicenda piena di nomi, personaggi, dettagli, con un’ambientazione precisa — Roma, primavera 2017 —, e nello stesso tempo con quella distanza rarefatta dal presente che sembra tenerla sospesa, incombente, improbabile ma possibile.
Salvini nel libro non c’è, o almeno non è mai nominato; ma è come se ci fosse. Perché il nuovo capo del governo, il Successore, gli somiglia molto. E la vicenda non sarebbe mai accaduta senza di lui.

Anche Matteo Renzi — indicato come Capo del Governo dei Ragazzi — non c’è: è caduto. Ha vinto il referendum sulla riforma costituzionale dell’ottobre 2016, ha chiamato nuove elezioni, ma a sorpresa le ha perse. Ha fatto il pieno al primo turno, senza arrivare al 40 per cento, ed è stato sconfitto al ballottaggio dal leader del Partito del No, nato dall’alleanza tra la Lega Nord e la destra sudista, che ha candidato un’infornata di giovani, spesso nipoti di antichi signori delle preferenze.

Nel romanzo, appunto, vendere il Colosseo per ridurre il debito pubblico, per quanto incredibile, è una ipotesi avanzata da un economista dal nome rivelatore, Ermanno Buio, sulla prima pagina di un quotidiano romano in crisi, che prende corpo nella Capitale grazie alla combinazione di una serie di fattori imprevedibili. “Il Vento”, diretto da uno stravagante cronista di nera, Dino Bricco, si trova così al centro di una vicenda internazionale, in cui i mercati e i grandi quotidiani che li rappresentano, il “Financial Times” e il “Wall Street Journal”, premono perché l’Italia risani al più presto il suo bilancio. E spunta a sorpresa uno sceicco arabo, Ibn Al Taib, che vuole togliersi il capriccio di comperare il monumento più conosciuto al mondo, smontarlo e portarselo a casa. Nei palazzi romani della politica si moltiplicano le opposizioni a un piano che rasenta la follia, ma il Successore è inarrestabile. Tutti i protagonisti ignorano un’angosciosa profezia che grava sul Colosseo e su Roma. Sarà questo dettaglio, niente affatto trascurabile, a provocare in conclusione un inatteso capovolgimento.

Il romanzo diverte e spaventa, in un crescendo di volti e vicende, in cui compaiono tutti i cliché della romanità di oggi e di ieri: il Papa che entra a piedi uniti nel dibattito politico, il Presidente della Repubblica, un arabo ricchissimo accompagnato da tre giovani mogli magnetizzate dalle vie dello shopping ed un fnale apocalittico, nel rispetto di quella massima del Venerabile Beda: “Finché esisterà il Colosseo, esisterà anche Roma; quando cadrà il Colosseo, cadrà anche Roma; quando cadrà Roma, cadrà anche il mondo”.
Leggere questo libro mi ha fatto riflettere. Il debito pubblico italiano è impressionante e continua a salire, come la preoccupazione di Bruxelles sulla messa in sicurezza del nostro sistema bancario.

Anche oggi, nei giorni in cui il Portogallo lotta per evitare la procedura per deficit eccessivo di competenza, prosegue a ritmi serrati la trattativa fra nostro governo e Commissione Europea per decidere se applicare il bail-in o invece usare fondi pubblici nel caso in cui il sistema bancario italiano entri in crisi.

Purtroppo il nostro sistema bancario non è così solido come volevano farci credere.
Dopo le vicende di Banca Etruria, Banca Marche, Carife e Carichieti, ora sono sotto inchiesta Banca Popolare Veneta, Banca Popolare di Vicenza, Banca Popolare di Bolzano, Cassa di risparmio di Cesena e la Cassa di risparmio di Rimini.
Inoltre, come si sa, Il Monte dei Paschi di Siena ha dieci miliardi di crediti deteriorati e critico è l’esito degli stress test sul capitale sociale delle cinque banche sistemiche, Unicredit, Mps, Banco Popolare, Ubi e Intesa san Paolo.
I 150 miliardi euro a copertura del 75% dei crediti deteriorati sono solo il primo tassello del mosaico. Manca ancora la ricapitalizzazione delle banche con i soldi pubblici, in deroga alle norme del bail-in.
Il negoziato sembra avere raggiunto un punto fermo: se la Bce riuscirà a convincere l’Antitrust europeo che le perdite inflitte agli investitori salvando il Monte dei Paschi di Siena col metodo corrente porterebbe all’instabilità finanziaria, allora lo Stato italiano potrà far fronte alla parte non sottoscritta dal mercato di un aumento del capitale di Mps.

Ma, a parte il dibattito di principio sul bail-in avviato con la Commissione europea, e le regole europee che lo disciplinano, non dovremmo dimenticare i singolari intrecci regionali che caratterizzano alcune delle banche italiane in difficoltà e il profondo impatto che il loro fallimento avrà sul tessuto sociale e sull’imprenditoria locale.
Certo, è necessario evitare che il sistema sia manipolato da emittenti di credito senza scrupoli e degli azionisti che possono allargare le perdite. Tuttavia è fondamentale che l’impatto reale del bail-in sia giudicato caso per caso. Se le perdite per la società e per il sistema politico e finanziario nel suo complesso sono di gran lunga superiori ai vantaggi che si avrebbero dall’impedire il fallimento di altre banche, l’UE dovrebbe agire di conseguenza.

Naturalmente la Germania resta ferma sul bail-in, pur sapendo la criticità tenuta sin’ora celata, dal suo sistema bancario.
Stupisce infatti, e non poco, la poca attenzione riservata alla notizia, molto allarmante, che riguarda il primo istituto di credito privato tedesco, cioè la Deutsche Bank, che, come scriveva già nel 2014 la Frankfurter Allgemeine, ha derivati in pancia da capogiro, con un valore complessivo che ammontava allora (e non è molto inferiore oggi) a 50 billioni di euro, cioè diciotto volte il Pil tedesco.

Se due anni fa i media tedeschi tendevano a minimizzare il pericolo, ora è il Fondo Monetario Internazionale a lanciare l’allarme “a vedere nell’istituto, qualora dovesse scoppiare una nuova crisi finanziaria, il pericolo più grande”, come riporta la Zeit.

Sembra però che non tutte le colpe siano da attribuire ai vertici della Deutsche Bank. Almeno leggendo l’articolo sul sito online di ARD. La televisione pubblica tedesca individua, infatti, nel finanziere George Soros il più temibile dei concorrenti per la Deutsche Bank.
Spiega infatti che, proprio Soros, il quale nel 1992 ha guadagnato milioni con una scommessa contro la sterlina britannica, subito dopo il voto a favore del Brexit ha di nuovo scommesso – con acquisti allo scoperto – su una ulteriore perdita delle azioni Deutsche Bank.

Come ricordava l’ARD la Deutsche Bank ha dietro di se anni in cui ha assistito a una perdita di valore mai vista prima. Nel giro degli ultimi 5 anni si è attestata al 66 per cento. E lunedì dopo il Brexit ha toccato i 12,07 euro. Una perdita alla quale avrebbe contribuito anche JPMorgan, che nella valutazione del titolo è passata dalla definizione “overweight” a “neutral”.
A scorrere oggi i giornali tedeschi, sembra che la notizia vera relativa al più grande istituto di credito in Germania sia la perdita di posizioni nel ranking mondiale e non i motivi veri che hanno portato a ciò.

Preoccupato è invece ane David Folkerts-Landau, responsabile economista di Deutsche Bank, che sottolinea come non solo il Vecchio Continente sia sull’orlo di una crisi bancaria, ma che debba affrontare i suoi problemi con accordi credibili all’opinione pubblica e sostenibili anche sul lungo periodo. Per questo, secondo lui, l’unica via di uscita sarebbe un maxi intervento di stato da 150 miliardi di euro, sulla scia di quanto avvenuto per le banche statunitensi nel 2008 con 475 miliardi di dollari iniettati a sostegno del sistema.
Quindi in pericolo è anche la Germania e non solo Italia, Spagna e Portogallo. In pericolo è l’intero continente che non ha saputo osare e credere sugli investimenti (come ha fatto l’America), ma ha solo previsto tagli, multe e riduzioni.
Tuttavia occorre riconoscere che la Germania ha una economia molto salda ed una salda credibilità internazionale, cosa che noi andiamo progressivamente perdendo.

Anche in questo inizio di settimana, infatti, i pasticci comunicativi del nostro premier sono riusciti a confezionare un perfetto assist per i ribassisti ed i detrattori del Bel Paese.
Dapprima è stata fatta circolare la notizia prematura che si stava lavorando per concordare con “l’Europa” un periodo di 6 mesi di sospensione della norma sul bail-in per consentire agli stati di salvare le banche senza danneggiare i correntisti. Poi che il governo pensava di creare un veicolo da 40 miliardi di capitale pubblico e privato, per togliere definitivamente di mezzo il problema delle sofferenze.
E’ inevitabile che simili voci alimentino la speculazione, che martedì ha infatti provocato un forte recupero dei bancari e del nostro indice, e si è estesa anche alla mattinata di ieri.

Ma nel pomeriggio la professoressa Merkel ha umiliato lo scolaretto Renzi troppo chiacchierone, gelandolo con l’ovvia affermazione che se mettiamo delle regole non possiamo cambiarle ogni due anni. Ed il nostro impavido condottiero ha dovuto incassare lo stop rifugiandosi nella solita narrazione megalomane di un’Italia che non è sotto esame, non ha bisogno di nessun aiuto, caso mai sono gli altri che vogliono violare le regole. Faremo tutto da soli e i risparmiatori possono stare tranquilli.

Il piano governativo si riduce così a una manciata di miliardi di ricapitalizzazione di Atlante a carico della solita Cassa Depositi e Prestiti e, come sempre, “io speriamo che me la cavo”.

In più di una capitale, a partire da Berlino, l’Italia gode di pessima fama. “Avete sempre un’esenzione da chiedere”, sbotta una fonte Ue e diffusa è, nei nostri confronti, la paura di essere imbrogliati.

Le riforme e la cattiva congiuntura sono state usate per tenere il debito lontano dai percorsi virtuosi negoziati coi partner Ue; la criticità del momento per poter puntellare con aiuti di Stato un sistema creditizio che traballa, fa si che, anche se di fatto, sinora, l’Italia non ha violato i Trattati, con l’appoggio “politico” della Commissione, e non soltanto, ottenendo tutta la flessibilità autorizzabile, eppure questo non cambia il quadro, non ispiriamo fiducia ai governi che devono decidere se venirci incontro o no. Nemmeno ai tedeschi, duri sebbene gli istituti nazionali li abbiano già salvati e guardino con orrore alla concreta possibilità di doverlo fare nuovamente

Io temo, davvero, che alla fine giungeremo a venderci Colosseo, Fontana di Trevi, Uffizi, Venezia e molto altro.

Carlo Di Stanislao

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