24 agosto: terremoto 6.0 devasta il centro Italia

Non mi sono mai sentito così fuori luogo nel camminare nel centro di Roma, tra le cupole e i marmi, tra le statue. Sento lontane le montagne, le mie. Sento lontane le case con le pietre tutte diverse e incastrate da secoli le une con le altre: materiali poveri, materiali di chi lavorava nei boschi […]

Non mi sono mai sentito così fuori luogo nel camminare nel centro di Roma, tra le cupole e i marmi, tra le statue. Sento lontane le montagne, le mie. Sento lontane le case con le pietre tutte diverse e incastrate da secoli le une con le altre: materiali poveri, materiali di chi lavorava nei boschi e nei pascoli, con le mane sporche e le unghie spezzate.

Ieri una scossa di terremoto mi ha svegliato: ero solo a casa, come nel 2009 quando si è aperta la terra sotto L’Aquila. Ma ci sono abituato, mi ha tremato il letto quando avevo sette anni e le Marche e l’Umbria furono devastate da un terremoto che buttò giù paesi di cui faccio fatica a ricordare i nomi: Muccia, Colfiorito. Chissà che fine hanno fatto. Tremavano anche i banchi e ci ritrovavamo tutti in cortile con i grembiuli blu e bianchi.


Dopo la scossa mi ha chiamato mia madre, dal paese dei miei nonni e dei miei bisnonni:
un paese che si aggrappa all’Appenino, da sempre. Dove il tempo rimane statico e il telefono non prende, un paese che negli anni si è svuotato, come quasi tutti i borghi che si arroccano tra i monti e le valli nel centro dell’Italia; è diventato un grande villaggio turistico che si anima a comando con le ferie di Ferragosto e con qualche Capodanno innevato. Un paese in cui non sei nessuno se non un segmento della tua famiglia, in una retta che buca il tempo e viaggia parallela a quella dei vicini di casa, dei ragazzini che giocano in piazza, agli anziani che chiacchierano vicino alla fontana, agli adolescenti ubriachi intorno ai falò nei prati che si aprono ai confini dei boschi. Un paese in cui le famiglie crescono ma le case sono sempre quelle. Quelle case che sono lì da sempre; dietro cui mi sono nascosto per anni giocando a nascondino, a cui ho bussato quando volevo vedere un amico e non avevo altro modo per sentirlo, dentro cui ho cucinato carbonare insipide alle quattro del mattino.
Mi ha chiamato mia madre e mi ha detto che tutti erano nel piazzale davanti alla chiesa, quel piazzale che a metà agosto è pieno di auto targate Roma. Erano rimasti in pochi ché lunedì in molti sono tornati a lavoro. Mia madre mi ha chiamato e mi ha detto che nonna stava bene e la casa anche, che la vetrinetta con gli alcolici aveva tremato così forte che si era aperta e le bottiglie erano a terra frantumate, nel salotto che puzzava di alcool. Mi ha detto che se l’epicentro non fosse stato nelle vicinanze, avremmo ricordato parecchi morti. Nel frattempo refreshavo Twitter con la storia che iniziava a dipanarsi: i dati, non ancora il racconto. I numeri, scarni, asettici: 6 punto 0. I luoghi,senza le immagini: Accumoli. La terra aveva tremato lì. Sotto la cantina, sotto la discesa che da casa porta al paese, sotto la fonte in cui ho bevuto milioni di volte, in cui ho riempito centinaia di bottiglie di plastica e taniche, da cinque litri, in vetro.

Stavano tutti bene, li vedevo nel piazzale davanti alla chiesa: Dante, Piera, Andrea, Matteo. L’ho anche twittato, pensando che nonostante tutto, fosse andato tutto bene; per riempire quel vuoto assordante del silenzio dei giornali e delle agenzie che mi metteva paura.

Sono andato a dormire sapendo di gravi crolli e forse due feriti ad Arquata. Perché la terra ha tremato espandendo la sua forza, contando le vertebre della Salaria.

 

La Salaria è una strada consolare: collega Porto d’Ascoli a Roma, attraversando le montagne dell’Appenino e le valli scavate dal Tronto. Ci si trascinava il sale, dalla costa alla capitale del mondo. È una strada che conosco a memoria, è un cordone ombelicale che unisce la mia infanzia e la mia adolescenza alla vita in cui da 9 anni provo a diventare un adulto. I bagni al mare, i castelli di sabbia, le albe fredde sulla riva, le prime sbornie, il sesso sudato nella casa al mare dei miei nonni, i bagni al fiume – quello stesso fiume che ho visto nascere tra i monti e morire nella foce – il tempo bruciato in scooter, le mattine gelate a inseguire la campanella, le sessioni d’esame preparate sull’autobus, gli amici conosciuti a Roma portati in provincia e quelli di sempre ospitati in case con tanti letti e poche comodità.
Ora la Salaria si frantuma tra i monti che l’hanno sempre accolta. Dicono di non passarci perché è difficile portare i soccorsi, perché le case sono isolate e i ponti crollano. Perché la gente urla da sotto le macerie e il numero dei morti sale. Perché la polvere è sporca di sangue e il sangue di polvere. Perché quelle case che sono sempre state lì, sono venute giù, sotto la potenza della terra. Perché Poggio d’Api, il mio Poggio d’Api, si è in parte salvato, ma Amatrice è crollata e io ci sarei dovuto andare il 16 agosto, ma poi siamo andati a mangiare la pizza a Trisungo. Ed è crollata anche Accumoli, dove mio zio è andato a prendere i documenti dopo la morte di nonno; ed è crollata Illica e mi ricordo di quando ci giocammo contro a calcio, su un campo scosceso con le porte in pvc e feci anche un gol. Non so i nomi dei ragazzi contro cui giocai, chissà che fine hanno fatto. È crollata Arquata e penso ai miei amici che vivono lì, al grande castello che domina la valle e sembra sfidare quelle montagne che hanno dimostrato tutta la loro onnipotenza. È crollata Pescara del Tronto che è il paese che guarda dall’alto quello più in basso della nonna della ragazza di cui ero innamorato ai tempi del liceo. Erano paesi bellissimi, sono paesi bellissimi. Silenziosi, immersi in una terra rigogliosa, con i boschi che arrivano fino in bocca al fiume. Austeri ma accoglienti. Uterini. In quelle case c’era l’eternità e spero ci sia ancora.

Butto giù queste parole inutili in un bar nel centro di Roma, tra le viuzze su cui si affacciano le chiese e i palazzi signorili. Penso siano inutili, ma servono a me per non scoppiare. Sento le voci dal telegiornale, con quel dialetto che so a memoria e mi fa sentire sempre a casa. E ho gli occhi gonfi di lacrime e lo stomaco che pesa, le mani sudate.

Il 24 agosto è il compleanno di mio nonno e questo è il primo anno in cui non lo festeggiamo, è morto a novembre: ho inseguito questa data per anni, cercando di piegare vacanze e sessioni d’esame, per stare vicino a quel nonno che ha tirato su la casa che questa notte ha tenuto botta e non è venuta giù. Da oggi, questa data si lega ancora di più alla mia vita e alla mia storia, al mio paese, alle mie pietre, alle mie montagne; e pretendo che continuino a essere le mie e le nostre, come è sempre stato, immortali, per sempre.(Dire)

Gian Mario Bachetti https://gianmariobh.wordpress.com/2016/08/24/24-agosto/

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