Il prossimo 6 aprile cancelliamo la rabbia

  “La rabbia è una follia momentanea, quindi controlla questa passione o essa controllerà te” Omero E’ la rabbia il sentimento più diffuso fra noi aquilani dopo il sisma di un anno fa, una rabbia cupa e violenta, capace di esprimersi in molti modi e nei fatti di ogni giorno. E questa rabbia, cresciuta nei […]

 La rabbia è una follia momentanea, quindi controlla questa passione o essa controllerà te”
Omero

E’ la rabbia il sentimento più diffuso fra noi aquilani dopo il sisma di un anno fa, una rabbia cupa e violenta, capace di esprimersi in molti modi e nei fatti di ogni giorno. E questa rabbia, cresciuta nei mesi, è divenuta ora, un anno dopo, un’emozione talmente potente da impadronirsi totalmente delle nostre percezioni, fino a modificare i nostri abituali comportamenti, trasformandoci in qualcos’altro rispetto a ciò che credevamo di essere. In un loro bel libro di due anni fa sul tema (“Rabbia. L’emozione che non sappiamo controllare”, edito da Mondadori), Rosario Sorrentino e Cinzia Tani ci insegnano che la rabbia, molto spesso, non è solo uno sfogo, ma un segnale d’allarme, che indica emozioni rimaste prigioniere dentro di noi e sfuggite completamente al nostro controllo, il mancato soddisfacimento di desideri e bisogni, che da luogo a una perdita di equilibrio, come se una energia negativa offuscasse la mente. E, ancora più grave, è che, in questi lunghi mesi, la nostra rabbia abbiamo imparato a reprimerla, a non agirla, a vestirla con i panni falsificanti della protesta o della rassegnazione, poiché, fin da bambini, ci è stato insegnato che è cattivo e sbagliato esprimere la collera, in quanto emozione inopportuna, irragionevole, associata all’aggressività e al capriccio. Così la rabbia repressa ci ha condotto verso comportamenti fuorvianti, con stati di aggressività alternata a depressione. Abbiamo provato rabbia e non l’abbiamo espressa, culturalmente l’abbiamo vestita di dignità o di vergogna e, in questo modo, abbiamo progressivamente imparato la pratica di proiettare sugli altri le critiche, con lo scopo di diminuire il dolore prodotto nell’immediato e di proteggere la nostra autostima. Ma, criticare gli altri ha sempre conseguenze negative sia interpersonali che intrapersonali ed è associato all’ ostilità e al risentimento, che conducono inevitabilmente ad un acuirsi delle emozioni rancorose e di ostilità verso tutto e tutti. Gabriella Zevi ci dice che, molto spesso, la rabbia nasce dalla paura non trasformata e vissuta inadeguatamente ed è questo, io credo, la matrice esistenziale della rabbia che oggi ci attraversa. Con la rabbia esprimiamo la paura di non essere adeguati, compresi, accolti, accettati: una paura primaria che ci deriva da una ferita presente e sanguinante in tutti ed in tutti ancora molto viva. Altro elemento che ha acuito la nostra rabbia è stato la negazione e la fuga dalla realtà, che spesso ci ha portato a non elaborare un’idea vera di ricostruzione ed accettare o attendere, invece, le idee proposte da altri. Sicchè, venuti meno gli effetti mascheranti della negazione della realtà e dell’isolamento, il dolore è riapparso, più feroce di prima. L’emozione intensa è deviata dall’oggetto del dolore e riorientata verso un niente ricostruttivo, si è di nuovo configurata come rabbia, a cui si è aggiunto un senso di colpa che ha alimentato la rabbia stessa. Abbiamo percorso una fase di auto-recriminazione su azioni che si sarebbero potute compiere e non si sono compiute, il che ha prodotto, nell’inverno, una fase depressiva, con sentimenti di tristezza, crisi di pianto, agitazione, scarsa concentrazione ed indolenza. In questa fase ci siamo sentiti traditi, lasciati da soli, abbandonati ed illusi e questa delusione ha di nuovo riacceso la nostra rabbia. Come ci dice ancora la Zevi, se c’è la speranza di realizzare un’impresa dalla quale ci si lascia coinvolgere totalmente e l’impresa fallisce, perché in realtà il modello proposto ci sta stretto o non ci piace, ne consegue una profonda delusione in cui non riusciamo ad accettarla e a dire “ho fallito”, poiché il fallimento ha un costo enorme, e così, negandolo, alimentiamo la rabbia, covata e rancorosa, che da un lato ci sostiene (incrementato le catecolamine), dall’altro crea danni sia psicologici che fisici e generali. Questo io credo ci sia accaduto ed oggi, dopo un anno, non posso che augurare a me stesso e a tutti i fratelli aquilani, di trovare, e subito, una strada per la rielaborazione della rabbia, non già attraverso qualche meditazione trascendentale o “tuffandosi” in una tecnica che prometta di risolvere nell’immediato le varie tensioni; bensì affrontando apertamente i vari problemi che la vita ci propone e cercando dei modi per vivere più intensamente questo nostro difficile presente. Come spiega Jung, siamo fatti di luce e ombra e più la luce è intensa più l’ombra risalta. Bisogna accettare ogni emozione ci venga da dentro, agirla ed esprimerla per ciò che è, condividerla con gli altri e con gli altri superarla. Un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, infermità, nulla”. Questa struggente frase di Pavese sintetizza bene la condizione in cui ci troviamo dopo il crollo della nostra città, ma ci suggerisce anche, di accettare la nostra fragilità e trasformarla in risorsa, non in rancore. Occorre, in primo luogo, agire e farlo con forza e determinazione, non lasciandoci vincere dalla pigra, accidiosa indolenza di vite dimezzate o svuotate, come i nostri quartieri. Bisogna cercare nuovi, forti interessi, che anche se non riempiranno il baratro lasciato dai precedenti, ci aiuteranno comunque. La natura umana aborrisce il vuoto e se non lo colmiamo, pur parzialmente, non usciremo mai dal baratro senza fine della paura trasformata in rabbia. Dobbiamo più che mai ricordaci della frase di Nieztsche :”tutto ciò che non mi uccide mi giova” e considerare ciò che è avvenuto come una occasione per rafforzare la nostra capacità di superare le difficoltà. Infine credere che è soprattutto il Tempo il più grande dottore, poiché con il suo trascorrere cicatrizza ogni ferita. E ricordarci, con gli antichi, sia di Cronos, che è il tempo cronologico, quello delle ore, dei giorni e dei mesi, sia dell’altro: Kairòs, che è un tempo individuale , un tempo necessario per il cambiamento interno, che ci fa comprendere che non possiamo che voltare pagina e con determinazione, ricominciare. E questo tempo individuale avrà sabbie e clessidre diverse per ciascuno, ma non mancherà, in spazi diversi, di ricomporre in noi la fiducia che superi la rabbia e l’attuale livore.

Carlo Di Stanislao

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