Reciproche accuse

Il raid aereo israeliano del 30 gennaio scorso, in un momento cruciale per il conflitto siriano, con il presidente della Coalizione dell’opposizione, Ahmad al Khatib, che si è dichiarato, a sorpresa, favorevole a negoziati diretti con rappresentanti del regime e con Assad che ha ora la possibilità di gridare al complotto straniero guidato dai sionisti […]

Il raid aereo israeliano del 30 gennaio scorso, in un momento cruciale per il conflitto siriano, con il presidente della Coalizione dell’opposizione, Ahmad al Khatib, che si è dichiarato, a sorpresa, favorevole a negoziati diretti con rappresentanti del regime e con Assad che ha ora la possibilità di gridare al complotto straniero guidato dai sionisti e portato avanti dai terroristi”, così come vengono chiamati dai media i ribelli anti-regime; rischia di costituire l’ultima scintilla per un incendio di dimensioni spaventose in una delle aree più a rischio del mondo.
Sulle modalità dell’azione non c’è ancora chiarezza. La Nato e l’Onu dicono di non avere informazioni sufficienti e continua il balletto delle accuse reciproche. L’Esercito siriano afferma che i missili israeliani hanno centrato e parzialmente distrutto il sito militare di Jamraya, considerato il polo tecnologico più avanzato del Paese e fulcro del programma missilistico. Fonti occidentali sostengono invece che i caccia hanno colpito un convoglio che trasportava missili anti-aerei SA-17 di fabbricazione russa destinati alle milizie Hezbollah in Libano.
Non è da escludere che siano vere entrambe le versioni: le violazioni accertate dello spazio aereo libanese sono state diverse – almeno otto i caccia coinvolti – e sono durate per diverse ore, il sito militare di Jamraya si trova a pochi chilometri dal confine libanese, dove sarebbe stato colpito il convoglio.
Altre reciproche, infuocate accuse, se le scambiano, in luoghi altrettanto turbolenti, India e Pakistan, dopo che, lo scorso 6 gennaio, in Kashmir forze militari indiane hanno varcato “senza essere state provocate” la Linea di controllo (Loc) che funge da confine provvisorio fra i due Paesi, attaccando un check-point dell’esercito pachistano, con un bilancio di due morti (un militare ed un civile) e tre feriti.
Un portavoce dell’esercito indiano a Srinagar ha, per contro, negato che vi sia stata una simile incursione, accusando le forze pachistane di avere bombardato durante la notte un villaggio causando danni materiali e provocando una risposta militare indiana. L’ufficio stampa dell’esercito pachistano (Ispr) ha immediatamente precisato che la presunta violazione della tregua è avvenuta nell’area di Bagh del settore di Hajipir del Kashmir sotto amministrazione pachistana, uccidendo un soldato e ferendone un altro. All’incursione è seguito uno scambio di tiri di artiglieria ha infine detto l’Ispr, secondo cui i proiettili indiani hanno causato la morte di un civile pachistano e il ferimento di altri due.
Invece, anche in questi ultimi giorni, il colonnello Brijesh Pandey, portavoce militare a Srinagar, capitale estiva del Kashmir amministrato dall’India, ha ribadito una versione opposta , negando categoricamente lo sconfinamento e affermando che: “L’artiglieria del Pakistan ha bombardato con proiettili di mortaio un villaggio del distretto di Uri, confinante con Haji Pir. Abbiamo risposto con armi di piccolo calibro in uno scontro durato circa un’ora”.
La disputa fra India e Pajkistan sul Kashmir, ebbe inizio nel 1947, anno dell’indipendenza dalla corona britannica e della spartizione forzata della regione tra India e Pakistan. Dopo l’ultimo Raja Hari Singh, iniziò il conflitto armato che si trascina fino ai giorni nostri. Dal 1948 le Nazioni Unite hanno istituito una missione di monitoraggio (UNMOGIP) che ha sortito ben poco successo. I 47 osservatori ONU di varie nazionalità, forse a causa del numero esiguo e del debole mandato, hanno potuto solo registrare una continua e sanguinosa escalation degli scontri e della tensione. Il colonnello Mukhtiyar Singh, portavoce dell’Esercito indiano presso il Comando di Srinagar ha dichiarato: “Dopo gli attacchi agli USA dell’11 settembre 2001, è ancora più chiaro il ruolo dell’India nella lotta dei Paesi democratici contro il terrorismo islamico. Il nostro esercito è impegnato duramente nella repressione delle attività dei gruppi armati che si infiltrano attraverso i confini pakistani per compiere quotidianamente attacchi contro le nostre forze di sicurezza e la popolazione civile. Le sofferenze della popolazione sono indicibili e gli atti di violenza sessuale contro le donne che vivono nei villaggi più a ridosso della linea di confine. Centinaia sono i soldati indiani feriti e uccisi durante gli scontri a fuoco susseguitisi negli anni”.
In passato, tra queste montagne, indu e musulmani avevano sempre vissuto in pace. Qui nel 12° secolo giunse la corrente mistica del sufismo. I sufi erano predicatori itineranti dediti alla vita ascetica. Portavano vesti rozze dette suf, che sembra fossero le preferite del profeta Maometto. Incontrando i favori dei sovrani locali, il sufismo si espanse attirando sempre più numerosi adepti fra gli strati più bassi della società. L’islam, proclamando l’eguaglianza di tutti gli esseri umani, consentiva il superamento della suddivisione in caste della società indu.
Nella grande moschea Jama Masjid, ogni venerdì si radunano più di 50.000 fedeli in preghiera. Il loro leader politico e religioso è il Mullah Umar Faruk che incontro alla fine del sermone: “Il problema del Kashmir non è religioso, ma politico. Siamo musulmani è vero, ma le tensioni derivano dalla divisione forzata delle comunità. Qui la linea di confine divide la terra e le stesse famiglie. La gente è costretta a vivere separata come nelle due Germanie. I fratelli pakistani sono cuore integrante della nostra cultura e quindi il Pakistan deve avere un ruolo primario nel futuro della regione. I gruppi armati che lottano per la nostra indipendenza, deporranno le armi solo se ci sarà un dialogo vero e costruttivo tra i rappresentanti kashmiri, pakistani e indiani”. Nella sede del Fronte di Liberazione del Jammu e Kashmir, Jassin Malik, 36 anni, capo storico della resistenza contro l’esercito indiano, rilasciato dopo una lunga prigionia e ancora sotto sorveglianza, dichiara: “Se l’India non prenderà in seria considerazione le aspirazioni del popolo kashmiro, non ci sarà pace. L’esercito indiano ci occupa da anni. Le nostre donne sono violentate dalle forze di sicurezza. Non ne possiamo più di torture e uccisioni sommarie. Bisogna trovare una soluzione politica che porti all’indipendenza del Kashmir”. Fino alla fine degli anni ’90 i guerriglieri erano circa 10.000 suddivisi in piccoli gruppi che facevano capo a 23 partiti indipendentisti locali. Ora nessuno sa quanti siano. Il gruppo armato più importante nella Valle rimane l’Hizbul Mujahideen, forte di un migliaio di combattenti, per l’85% kashmiri. Gli altri sarebbero essenzialmente suddivisi in quattro gruppi filo-pakistani: il Lashkar-i-Taiaba, responsabile di una serie di operazioni suicide lanciate nell’ultimo anno; il Jaish-e-Mohammed, ritenuto vicino all’organizzazione Al Qaeda; infine l’Harakat-ul Ansar e Al Badar. Alcune fazioni hanno negli ultimi tempi deposto le armi cercando una soluzione politica al conflitto, pronti a riprendere la jihad nel caso il dialogo con Delhi fallisca.
Per quanto riguarda l’incidente del 6 gennaio, , fonti attendibili hanno indicato alla Pti che “il Border Action Team dell’ esercito pachistano è entrato in territorio pachistano nell’area di Krishna Ghati del distretto di Poonch per realizzare un attacco”.
E, in un comunicato, il Comando settentrionale dell’esercito indiano ha definito l’attacco “una escalation significativa” nell’ambito dei continui tentativi di violazioni del cessate il fuoco e di infiltrazioni appoggiate dall’esercito pachistano.
Situazione incandescente anche in Italia, con le forze politiche che si scambiano reciproche accuse sui fatti sempre più gravi del Monte dei Paschi di Siena.
Tremonti e Brunetta criticano il governo tecnico e l ‘azione di vigilanza della Banca d’Italia guidata all’epoca da Draghi, col primo, ora capolista della Lega i ieri ministro della economia, che sostiene in una lettera [a Dagospia.it, sic] che “la vigilanza bancaria non c’è tanto se interviene ‘ex post’, ma soprattutto se interviene ex ante” e che la Banca d’Italia “è stata surrogata dalla magistratura”.
Ad aumentare la pressione su via Nazionale una frase dell’attuale ministro dell’Economia Vittorio Grilli, che è stato il candidato di Tremonti per il ruolo di governatore della Banca d’Italia poi ottenuto da Ignazio Visco. A margine di una cerimonia a Torino, Grilli ha detto che il governo sapeva da un anno che Mps era in una situazione problematica e che “i controlli spettano alla Banca d’Italia”.
Le parole di Grilli sono sembrate una critica all’operato di Draghi prima e di Visco oggi, anche se poi l’attuale ministro ha precisato, in un comunicato, che la sottoscrizione dei Monti-bond, che in parte sostituiscono i cosiddetti Tremonti-bond, non è ancora avvenuta perché si attende l’approvazione dell’aumento di capitale al servizio dell’operazione da parte dell’assemblea della banca convocata per domani e il parere della Banca d’Italia sull’adeguatezza patrimoniale attuale e sulle prospettive della banca.
Duri anche Di Pietro e Ingroia ed è toccato a Monti e soprattutto al capo dello Stato Giorgio Napolitano difendere Draghi e Visco. “Mi sembra che non sia in questione il tema dei controlli, e soprattutto è importante sottrarre questa tematica del Monte dei Paschi dalla confusione che si sta creando intorno ad essa per evidenti ragioni, in particolare per quanto riguarda il governo e il ministero dell’Economia”, ha detto il presidente del Consiglio uscente in conferenza stampa a Davos.
“E’ un tema veramente che non sussiste, sul quale comunque il governo è pronto a riferire al Parlamento”, ha aggiunto. Ancora più netto Napolitano che ha svolto un ruolo strategico nella nomina di Draghi alla Bce e di Visco in Bankitalia: Mps “mi pare una questione abbastanza grave di cui si sta occupando la Banca d’Italia. […] Se la questione è grave bisogna preoccuparsi, ma ho piena fiducia nell’operato della Banca d’Italia”, ha detto a Torino.
In fibrillazione anche il Pd, chiamato in causa direttamente, poiché il principale azionista della banca senese è la Fondazione Monte dei Paschi di Siena che è a sua volta controllata dal Comune e dalla Provincia che eleggono 13 dei 16 consiglieri della Deputazione, da sempre roccaforti dell’ex Pci oggi confluito nel Partito democratico.
“Noi, e per noi intendo il Pd di Siena nella persona dell’ex sindaco Franco Ceccuzzi, Mussari lo abbiamo cambiato un anno fa, assieme a tutto il consiglio di amministrazione del Mps. Sono i banchieri che lo hanno tenuto come loro presidente alla guida dell’Abi ed è dunque a loro che eventualmente bisogna rivolgersi”, ha dichiarato Massimo D’Alema a Francesco Manacorda su La Stampa.
Ancora, il segretario del Pd Pier Luigi Bersani, in una conferenza stampa a Roma, ha detto: “A noi non crea nessun imbarazzo […]. Io non ho fatto mai in vita mia una riunione su una banca”.
Scrive il Giornale, che Bersani accusa il centrodestra di manovre “subliminali»” quando l’intero mondo politico italiano – da Ingroia a Monti – e persino la stampa amica (con l’eccezione della sovietizzante Unità), da giorni non parla d’altro, incapace di dire una parola chiara sullo scandalo che ha travolto la banca, il gruppo dirigente democratico (in calo nei sondaggi di questi giorni) si attorciglia in prese di distanza, allusioni e contorcimenti il cui obiettivo sembra essere uno solo: lo scaricabarile.
Eloquente a tal proposito la presa di posizione del giovane Stefano Fassina, che da giorni ripete alla radio e in tv che “non era il Pd locale che influenzava la banca, ma era la banca che influenzava il Pd”: come se un partito infiltrato dai banchieri fosse più rassicurante agli occhi degli elettori che fra un mese sceglieranno il prossimo presidente del Consiglio. E senza accorgersi che nelle stesse ore Massimo D’Alema andava dicendo l’esatto opposto.
Ancora più grave è il fatto che il caso Mps sia scoppiato mentre in Italia gli esperti del Fondo monetario internazionale stanno tenendo i primi colloqui con le grosse banche nell’ambito del Financial Sector Assessment Program, che valuterà la stabilità del sistema finanziario nazionale. Grilli ha difeso il sistema bancario dicendo che non c’è evidenza di problemi simili in altre banche”, ma siamo in molti a nutrire più di una preoccupazione.

Carlo Di Stanislao

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