Riflessioni su Cannes 2016

Dopo il terzetto del 2015 siglato da Garrone, Moretti e Sorrentino, Cannes 2016 ha fatto praticamente saltare un turno agli italiani: niente Virzì con La pazza gioia, né Marco Bellocchio (Fai bei sogni), fuori anche il nuovo film di Kim Rossi Stuart, nonché Le confessioni di Roberto Andò. A parte il poster ufficiale ispirato a […]

Dopo il terzetto del 2015 siglato da Garrone, Moretti e Sorrentino, Cannes 2016 ha fatto praticamente saltare un turno agli italiani: niente Virzì con La pazza gioia, né Marco Bellocchio (Fai bei sogni), fuori anche il nuovo film di Kim Rossi Stuart, nonché Le confessioni di Roberto Andò.

A parte il poster ufficiale ispirato a “Il disprezzo” di Godard ma tratto da un romanzo di Moravia, per il Belpaese solo Pericle il nero di Stefano Mordini con Riccardo Scamarcio e Valeria Golino nella sezione Un Certain Regard, in una edizione, partita l’11 maggio e che si concluderà domenica 22, affollata di star e ottimi film, con una cinquantina di opere provenienti da 22 paesi.

“L’universalità è una nostra caratteristica – ha sottolineato patròn Fremaux – essendo Cannes non un festival francese bensì mondiale”.
Fuori concorso hanno sfilato– tra gli altri – Steven Spielberg con Il Gigante Gentile, Shane Black con The Nice Guys interpretato dal duo hollywoodiano Russell Crowe e Ryan Gosling e Jim Jarmush con il suo documentario su Iggy Pop Gimme Danger.

Apertura affidata a Cafè Society di Woody Allen e molto apprezzato Money Monster di Jodie Foster con George Clooney e Julia Roberts. Il cinema americano ha spadroneggiato in questa edizione, con venti titoli sui cinquantadue in concorso con i più significativi rappresentati da: Paterson del grande Jim Jarmush con Adam Driver, The Last Face di Sean Penn con i divi Charlize Theron e Javier Bardem e Loving di Jeff Nichols (che abbiamo solo due mesi fa visto anche concorrere a Berlino) interpretato da Joel Edgerton e Michael Shannon.
Sono poi tornati a concorrere alcuni “vecchi” maestri tradizionalmente amati a Cannes come Ken Loach (I, Daniel Blake), Pedro Almodovar (Julieta) e i blasonati fratelli belga Jean-Pierre e Luc Dardenne (La Fille Inconnue), oltre a Doppio colpo per la Romania che ha (ri)porta in concorso due autori di talento quali Cristian Mungiu (Bacalaureat) e Cristi Puiu (Sieranevada).

Comunque, a tre giorni dalla premiazione, nessuno fa pronostici e nessuno avanza ipotesi su chi conquisterà la Palma d’oro, assegnata dalla giuria presieduta da George Miller, regista del fotonico, adrenalinico, disperato Mad Max Fury Road, a cui, secondo me, dovrebbe essere molto piaciuto American Honey, film on the road (parola magica per Miller) che segue un gruppo di ragazzi nel tentativo di fare soldi vendendo riviste porta a porta: per la giovane protagonista, lontana dalla famiglia disfunzionale di origine, rappresenterà il rito di passaggio verso l’età adulta.

Ma dovrà battere i pugni sul tavolo il vecchio leone Miller perché, Shia Laboeuf a parte, gli attori sono sconosciuti, la durata interminabile (2 ore e 42 minuti) e gli applausi alla proiezione stampa modesti. Dalla sua avrebbe però un pregio: se vincesse la regista Andrea Arnold sarebbe la prima donna ad aggiudicarsi una Palma d’oro senza condividerla con altri (nel 1993 Jane Campion dovette spartirla con Chen Kaige per “Addio mia concubina”).

Ma a tal proposito, vi è un’altra donna che potrebbe ricevere il premio: Maren Ade, per il suo Toni Erdmann, dove una rampantissima manager ossessionata dal lavoro, triste e anaffettiva ha la vita sconvolta dall’arrivo del padre, un insegnante burlone che, pur di provare a renderla felice, si traveste da uomo d’affari con parrucchino oppure – in una sequenza che da sola merita la visione del film –  da gigantesca creatura pelosa durante un party nudista.
O forse Miller potrebbe rimanere colpito dall’eleganza, dalla ferocia e dalla sensualità di Mademoiselle, il ritorno del coreano Park Chan-wook, autore di un film cult come “Old Boy”, che qui racconta un lesbo-thriller in salsa melò ambientato nella Corea degli anni ‘30 e cadenzato in tre parti in cui, come in Rashomon, la verità emerge solo sposando più punti di vista, con un paio di sequenze grafiche davvero hot tra le due protagoniste, una ricca giapponese imprigionata in un castello dove è stata allevata a suon di pornografia e la sua graziosa serva.

Buone possibilità anche il ritorno in grande stile di Pedro Almodovar con i dolori di madre e figlia in Julieta e il francese Ma Loute di Bruno Dumont con Valeria Bruni Tedeschi, ovvero le grottesche ferie d’agosto ai primi del 900 di un gruppo di ricchi borghesi in una comunità di pescatori poveri in canna.

Comunque si tratta di aspettare solo tre giorni e poi vedremo.

Carlo Di Stanislao

Una risposta a “Riflessioni su Cannes 2016”

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