ll bacio più puzzolente e più bello della mia vita

In occasione della Giornata Mondiale del Bacio, Fondazione ANT pubblica sul proprio sito e sui propri social il racconto di Mario, uno dei suoi preziosi volontari socioassistenziali, e di Vincenzo, un suo assistito: una storia di generosità, amicizia e dedizione. Quel giorno erano quasi le 7 del mattino, e, con gli occhi pesanti e arrossati […]

In occasione della Giornata Mondiale del Bacio, Fondazione ANT pubblica sul proprio sito e sui propri social il racconto di Mario, uno dei suoi preziosi volontari socioassistenziali, e di Vincenzo, un suo assistito: una storia di generosità, amicizia e dedizione.

Quel giorno erano quasi le 7 del mattino, e, con gli occhi pesanti e arrossati per la stanchezza, guidavo in direzione di casa di Vincenzo. Avrei dovuto accompagnarlo all’ospedale Bellaria per fare la chemioterapia, come sempre.

Vincenzo non era un paziente come tutti gli altri, e il ricordo di quando lo vidi per la prima volta rimane ancora impresso nella mia memoria, così come le raccomandazioni che avevo ricevuto riguardo il suo carattere difficile.

Viveva in un appartamento fuori porta, ma il suo tenore di vita era pressoché equivalente a quello di un senzatetto, non avendo possibilità di lavarsi dal momento che non aveva né acqua né luce perché non pagava le bollette. Nonostante la sua età anagrafica fosse compresa tra i 60 e i 70 anni, il suo peso corporeo non superava i 40 kg. Che fosse inverno oppure estate, indossava sempre un berretto di lana calato sulla testa e uno zaino da montagna carico di oggetti di qualsiasi forma, funzione e dimensione e che, nel corso della nostra amicizia, fece nascere in me il grande desiderio di scoprirne, un giorno, l’intero contenuto.

Un dettaglio che non posso rinunciare a raccontare con un sorriso, riguarda il fatto che il piccolo ed esile corpo di Vincenzo emanava un tale fetore, che una volta mia moglie, salita in auto poche ore dopo che ne era sceso lui, mi aveva chiesto se per caso fossi andato a comprare del letame per il mio orto. Le avevo risposto di sì.

Vincenzo non aveva una famiglia, non aveva amici. Era solo, ma non completamente. Un’unica figura gli rimase accanto sempre e comunque. La “cagna”, come lui la chiamava, gli era moglie, madre, sorella e compagna. Quattro zampe e una coda, eppure era tutto ciò di cui realmente gli importasse. Era sorprendente vedere come, attaccato all’ago della chemio, il suo unico pensiero fosse il senso di colpa nel ritardare la passeggiata della cagna. Pensarla sola ad aspettarlo faceva più male del tumore che piano lo divorava. Io l’ho conosciuta, la cagna. Non ricordo il suo vero nome, non ricordo nemmeno se ne abbia mai avuto uno. La ricordo magrissima, vecchia e malata. Ma Vincenzo l’amava, fino alla morte e anche oltre.

Dalla nostra prima conversazione di persona, scoprii che l’uomo che avevo davanti era un tipo “contro”, del tipo molto ma molto polemico nei confronti di autorità, politici e quant’altro. Ma trovai in lui un ottimo interlocutore e una persona di gran cuore. Quel primo accompagnamento andò benissimo. Lui si era trovato bene in mia compagnia, e io nella sua. Doveva essere un fatto strano perché, quando la settimana seguente mi proposi all’assistente sociale di ANT per accompagnare ancora Vincenzo all’ospedale, la sua reazione fu di sorpresa.

“Davvero?” mi disse “Solitamente chi lo accompagna una volta poi non vuole tornarci”.

Ero stupito. Nessuno mi aveva chiesto di fare il volontario. Il mio compito, quello che avevo consapevolmente e volontariamente scelto di fare era aiutare gli altri, e chi se non Vincenzo poteva avere bisogno d’aiuto?

Erano le 7 del mattino, e guidavo in direzione di casa di Vincenzo. Avevo trascorso la nottata completamente in bianco. Un mio collega di lavoro si era sentito male, lo avevo accompagnato all’ospedale per fare un controllo e ne eravamo usciti alle 5.30 del mattino. Neanche un’ora e mezza dopo stavo per raggiungere Vincenzo che, puntuale, mi aspettava sull’uscio, l’immancabile berretto calato sulla testa e lo zaino da montagna come il guscio di una lumaca. Assieme ai due immancabili accessori, ne stringeva un terzo tra le mani: era un tablet di una qualche sottomarca americana. Non appena riuscì, sempre con gran trambusto, a sistemarsi sul sedile accanto a me, cominciò a lamentarsene:

“Dannati americani, come possono dare per scontato che tutti capiscano la loro lingua? Questo libretto di istruzioni lo potrei usare come carta igienica!”

Io, insonne da 25 ore circa, misi subito le mani avanti.
«Vincè, davvero, guarda che questa mattina non è cosa, non sono ancora andato a dormire.»
«Cos’è successo?» Mi chiese preoccupato.

Gli raccontai della mia nottata in bianco al pronto soccorso. Mi guardò con aria confusa.
“E scusa, allora perché sei venuto qui?”
“Vincè, ma secondo te chi mai avrei potuto chiamare alle 5 e mezza del mattino per venire qua a prenderti al posto mio?”

A quel punto lui in silenzio mi cinse la testa con una mano, mi diede un bacio e mi disse un’unica, sola parola, che valse per me più di mille discorsi della migliore qualità oratoria.
“Grazie”.

Quella parola valse, e vale tuttora, tutto quello che avevo fatto e che avrei continuato a fare. Era molto, molto più di un diploma, più di una targa, più di un qualsiasi altro riconoscimento. Mi era così chiaro che non era lui a dover ringraziare me, ma ero io a essergli riconoscente per ciò che mi aveva permesso di essere aiutandolo.

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