“Io debole servitore di Dio devo assumere questo compito inaudito, che realmente supera ogni capacità umana”. Sono le parole pronunciate da Papa Benedetto XVI nell’omelia del 24 Aprile 2005 all’inizio del suo alto, umile e coraggioso ministero petrino. Nella Santa Messa di inizio pontificato Papa Ratzinger spiega che “il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui”. Nella sua prima udienza generale in piazza San Pietro, il 27 Aprile 2005, il Sommo Pontefice illustra le ragioni della scelta del suo nome pontificale:“Ho voluto chiamarmi Benedetto XVI per riallacciarmi idealmente al venerato pontefice Benedetto XV, che ha guidato la Chiesa in un periodo travagliato a causa del primo conflitto mondiale. Fu coraggioso e autentico profeta di pace e si adoperò con strenuo coraggio dapprima per evitare il dramma della guerra e poi per limitarne le conseguenze nefaste. Sulle sue orme desidero porre il mio ministero a servizio della riconciliazione e dell’armonia tra gli uomini e i popoli, profondamente convinto che il grande bene della pace è innanzitutto dono di Dio, dono purtroppo fragile e prezioso da invocare, tutelare e costruire giorno dopo giorno con l’apporto di tutti”. In verità già l’omelia del decano del Collegio Cardinalizio, pronunciata nella Missa Pro Eligendo Romano Pontefice del 18 Aprile 2005, Joseph Ratzinger prefigura la sapiente azione dirompente, rivoluzionaria e innovatrice del futuro Santo Padre per la Chiesa di Cristo, sulla base dell’alto magistero petrino del beato Giovanni Paolo II che sicuramente ispirerà tutti i suoi successori, anche in forza delle sacre scritture,nella Verità, nella Benedizione e nella Predicazione.Per non essere “sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina…”(Ef 4, 14) e per contrastare finalmente la dittatura del relativismo all’opera nel mondo. “In quest’ora di grande responsabilità – dichiara il Card. Ratzinger – ascoltiamo con particolare attenzione quanto il Signore ci dice con le sue stesse parole. Dalle tre letture vorrei scegliere solo qualche passo, che ci riguarda direttamente in un momento come questo. La prima lettura offre un ritratto profetico della figura del Messia – un ritratto che riceve tutto il suo significato dal momento in cui Gesù legge questo testo nella sinagoga di Nazareth, quando dice:“Oggi si è adempiuta questa scrittura”(Lc 4, 21). Al centro del testo profetico troviamo una parola che – almeno a prima vista – appare contraddittoria. Il Messia, parlando di sé, dice di essere mandato “a promulgare l’anno di misericordia del Signore, un giorno di vendetta per il nostro Dio.”(Is 61, 2). Ascoltiamo, con gioia, l’annuncio dell’anno di misericordia: la misericordia divina pone un limite al male – ci ha detto il Santo Padre. Gesù Cristo è la misericordia divina in persona: incontrare Cristo significa incontrare la misericordia di Dio. Il mandato di Cristo è divenuto mandato nostro attraverso l’unzione sacerdotale; siamo chiamati a promulgare – non solo a parole ma con la vita, e con i segni efficaci dei sacramenti, “l’anno di misericordia del Signore”. Ma cosa vuol dire Isaia quando annuncia il “giorno della vendetta per il nostro Dio”? Gesù, a Nazareth, nella sua lettura del testo profetico, non ha pronunciato queste parole – ha concluso annunciando l’anno della misericordia. È stato forse questo il motivo dello scandalo realizzatosi dopo la sua predica? Non lo sappiamo. In ogni caso il Signore ha offerto il suo commento autentico a queste parole con la morte di croce. “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce…”, dice San Pietro (1 Pt 2, 24). E San Paolo scrive ai Galati:“Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno, perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse alle genti e noi ricevessimo la promessa dello Spirito mediante la fede”(Gal 3, 13s). La misericordia di Cristo non è una grazia a buon mercato, non suppone la banalizzazione del male. Cristo porta nel suo corpo e sulla sua anima tutto il peso del male, tutta la sua forza distruttiva. Egli brucia e trasforma il male nella sofferenza, nel fuoco del suo amore sofferente. Il giorno della vendetta e l’anno della misericordia coincidono nel mistero pasquale, nel Cristo morto e risorto. Questa è la vendetta di Dio: egli stesso, nella persona del Figlio, soffre per noi. Quanto più siamo toccati dalla misericordia del Signore, tanto più entriamo in solidarietà con la sua sofferenza – diveniamo disponibili a completare nella nostra carne “quello che manca ai patimenti di Cristo” (Col 1, 24)”. La seconda lettura, la lettera agli Efesini, “tratta in sostanza di tre cose: in primo luogo, dei ministeri e dei carismi nella Chiesa, come doni del Signore risorto ed asceso al cielo; quindi, della maturazione della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, come condizione e contenuto dell’unità nel corpo di Cristo; ed, infine, della comune partecipazione alla crescita del corpo di Cristo, cioè della trasformazione del mondo nella comunione col Signore. Soffermiamoci solo su due punti. Il primo è il cammino verso “la maturità di Cristo”; così dice, un po’ semplificando, il testo italiano. Più precisamente dovremmo, secondo il testo greco, parlare della “misura della pienezza di Cristo”, cui siamo chiamati ad arrivare per essere realmente adulti nella fede. Non dovremmo rimanere fanciulli nella fede, in stato di minorità. E in che cosa consiste l’essere fanciulli nella fede? Risponde San Paolo: significa essere “sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina…”(Ef 4, 14). Una descrizione molto attuale! Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero…La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde – gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale;
dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf Ef 4, 14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie. Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. É lui la misura del vero umanesimo. “Adulta” non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. É quest’amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità. Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo. Ed è questa fede – solo la fede – che crea unità e si realizza nella carità. San Paolo ci offre a questo proposito – in contrasto con le continue peripezie di coloro che sono come fanciulli sballottati dalle onde – una bella parola: fare la verità nella carità, come formula fondamentale dell’esistenza cristiana. In Cristo, coincidono verità e carità. Nella misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono. La carità senza verità sarebbe cieca; la verità senza carità sarebbe come “un cembalo che tintinna” (1 Cor 13, 1). Veniamo ora al Vangelo, dalla cui ricchezza vorrei estrarre solo due piccole osservazioni. Il Signore ci rivolge queste meravigliose parole:“Non vi chiamo più servi…ma vi ho chiamato amici” (Gv 15, 15). Tante volte sentiamo di essere – come è vero – soltanto servi inutili (cf Lc 17, 10). E, ciò nonostante, il Signore ci chiama amici, ci fa suoi amici, ci dona la sua amicizia. Il Signore definisce l’amicizia in un duplice modo. Non ci sono segreti tra amici: Cristo ci dice tutto quanto ascolta dal Padre; ci dona la sua piena fiducia e, con la fiducia, anche la conoscenza. Ci rivela il suo volto, il suo cuore. Ci mostra la sua tenerezza per noi, il suo amore appassionato che va fino alla follia della croce. Si affida a noi, ci dà il potere di parlare con il suo io:“questo è il mio corpo…”, “io ti assolvo…”. Affida il suo corpo, la Chiesa, a noi. Affida alle nostre deboli menti, alle nostre deboli mani la sua verità – il mistero del Dio Padre, Figlio e Spirito Santo; il mistero del Dio che “ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito”(Gv 3, 16). Ci ha reso suoi amici – e noi come rispondiamo? Il secondo elemento, con cui Gesù definisce l’amicizia, è la comunione delle volontà. “Idem velle – idem nolle”, era anche per i Romani la definizione di amicizia. “Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando”(Gv 15, 14). L’amicizia con Cristo coincide con quanto esprime la terza domanda del Padre nostro:“Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”. Nell’ora del Getsemani Gesù ha trasformato la nostra volontà umana ribelle in volontà conforme ed unita alla volontà divina. Ha sofferto tutto il dramma della nostra autonomia – e proprio portando la nostra volontà nelle mani di Dio, ci dona la vera libertà: “Non come voglio io, ma come vuoi tu”(Mt 21, 39). In questa comunione delle volontà si realizza la nostra redenzione: essere amici di Gesù, diventare amici di Dio. Quanto più amiamo Gesù, quanto più lo conosciamo, tanto più cresce la nostra vera libertà, cresce la gioia di essere redenti. Grazie Gesù, per la tua amicizia! L’altro elemento del Vangelo – cui volevo accennare – è il discorso di Gesù sul portare frutto:“Vi ho costituito perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga”(Gv 15, 16). Appare qui il dinamismo dell’esistenza del cristiano, dell’apostolo: vi ho costituito perché andiate…Dobbiamo essere animati da una santa inquietudine: l’inquietudine di portare a tutti il dono della fede, dell’amicizia con Cristo. In verità, l’amore, l’amicizia di Dio ci è stata data perché arrivi anche agli altri. Abbiamo ricevuto la fede per donarla ad altri – siamo sacerdoti per servire altri. E dobbiamo portare un frutto che rimanga. Tutti gli uomini vogliono lasciare una traccia che rimanga. Ma che cosa rimane? Il denaro no. Anche gli edifici non rimangono; i libri nemmeno. Dopo un certo tempo, più o meno lungo, tutte queste cose scompaiono. L’unica cosa, che rimane in eterno, è l’anima umana, l’uomo creato da Dio per l’eternità. Il frutto che rimane è perciò quanto abbiamo seminato nelle anime umane – l’amore, la conoscenza; il gesto capace di toccare il cuore; la parola che apre l’anima alla gioia del Signore. Allora andiamo e preghiamo il Signore, perché ci aiuti a portare frutto, un frutto che rimane. Solo così la terra viene cambiata da valle di lacrime in giardino di Dio. Ritorniamo infine, ancora una volta, alla lettera agli Efesini. La lettera dice – con le parole del Salmo 68 – che Cristo, ascendendo in cielo, “ha distribuito doni agli uomini”(Ef 4, 8). Il vincitore distribuisce doni. E questi doni sono apostoli, profeti, evangelisti, pastori e maestri. Il nostro ministero è un dono di Cristo agli uomini, per costruire il suo corpo – il mondo nuovo. Viviamo il nostro ministero così, come dono di Cristo agli uomini! Ma in questa ora, soprattutto, preghiamo con insistenza il Signore, perché dopo il grande dono di Papa Giovanni Paolo II, ci doni di nuovo un pastore secondo il suo cuore, un pastore che ci guidi alla conoscenza di Cristo, al suo amore, alla vera gioia. Amen”. Benedetto XVI viene eletto al soglio pontificio il 19 Aprile 2005 all’età di 78 anni, divenendo il settimo Papa tedesco nella storia della Chiesa, dopo un Conclave durato appena due giorni con quattro scrutini. Papa Ratzinger succede a Giovanni Paolo II. Nel primo discorso di Benedetto XVI, seguito dalla benedizione Urbi et Orbi, non manca un ricordo del suo amico predecessore:“Dopo il grande papa Giovanni Paolo II i signori cardinali hanno eletto me, un semplice ed umile lavoratore nella vigna del Signore. Mi consola il fatto che il Signore sa lavorare ed agire anche con strumenti insufficienti e soprattutto mi affido alle vostre preghiere”. Il 7 Maggio 2005, nella basilica di San Giovanni in Laterano, durante la Messa e l’insediamento sulla Cattedra del vescovo di Roma, Benedetto XVI riprese il concetto di “debole servitore di Dio”. Dichiara il Santo Padre:“Colui che è il titolare del ministero petrino deve avere la consapevolezza di essere un uomo fragile e debole – come sono fragili e deboli le sue proprie forze – costantemente bisognoso di purificazione e di conversione”. Nei suoi otto anni di pontificato Benedetto XVI predica la Fede, ponendola al centro della missione della Chiesa. Un “primato” che già indica nell’Eucaristia Pro Eligendo Romano Pontifice. Il Papa teologo evidenzia in numerosi interventi la ragiovenolezza della gioia di credere. E proprio il rapporto fra fede e ragione è uno dei pilastri del suo magistero petrino. Intensa la sua attenzione al dialogo con le altre confessioni cristiane e le altre fedi. Significativa la scelta della via della riconciliazione con la Fraternità San Pio X fondata dall’arcivescovo Marcel Lefebvre e della vicinanza ai fedeli della Comunione anglicana grazie all’istituzione di ordinariati personali per gli anglicani che entrano nella piena comunione con la Chiesa cattolica. Un Papa innovatore e conservatore, a riprova del fatto che la Chiesa di Cristo è sempre la stessa ieri, oggi e domani. Più volte Papa Ratzinger rimarca l’importanza del ruolo delle diverse fedi nel mondo contemporaneo nella visita alla Moschea Blu di Istanbul e nella spianata delle Moschee di Gerusalemme, per indicare il dialogo con il mondo islamico e per sancire la vicinanza all’ebraismo. Immortali sono le parole pronunciate da Papa Ratzinger nel 2010 nella Sinagona di Roma sui Comandamenti: il Decalogo è “comune messaggio etico di valore perenne per Israele, la Chiesa, i non credenti e l’intera umanità”; e l’invocazione di fronte al Muro del Pianto a Gerusalemme nel 2009 quando prega l’Altissimo:“manda la tua pace in questa Terra Santa”. Gli Anni speciali che Benedetto XVI indice sono l’anima della sua missione come successore di Pietro. L’Anno Paolino voluto per il bimillenario della nascita di Paolo, tenuto fra il 2008 e il 2009, richiama il “bisogno di testimoni e di martiri come san Paolo”, afferma il Papa. L’Anno Sacerdotale, svoltosi fra 2009 e il 2010 in occasione dei 150 anni dalla morte di San Giovanni Battista Maria Vianney, patrono dei parroci, è una risposta a “situazioni, mai abbastanza deplorate, in cui è la Chiesa stessa a soffrire per l’infedeltà di alcuni suoi ministri”, scrive Benedetto XVI nella lettera di indizioni facendo un riferimento implicito ai casi di abusi da parte di sacerdoti; fatti nei confronti dei quali Papa Ratzinger invoca (umiliato dai media!) “trasparenza” e “rigore” negli anni di pontificato incontrando anche le vittime. L’Anno della Fede (2012-2013) voluto in occasione dei 50 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II e dei 20 anni dalla promulgazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, è la sintesi del suo ministero petrino per sollecitare “un’autentica e rinnovata conversione al Signore, unico Salvatore del mondo” e promuovere attivamente una sfida molto cara al Sommo Pontefice: quella della Nuova Evangelizzazione per “riscoprire la gioia nel credere e ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede”. Con i giovani protagonisti attivi della Chiesa di Cristo. Benedetto XVI scrive e promulga tre Encicliche (“Deus caritas est”, “Spe Salvi” e “Caritas in veritate”). L’Enciclica sulla Fede rimane nel cassetto. Inoltre pubblica quattro Esortazioni Apostoliche post-sinodali: la “Sacramentum Caritatis” dedicata all’Eucaristia fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa (22 Febbraio 2007); la “Verbum Domini” sulla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa (30 Settembre 2010); la “Africae munus” sulla Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace (19 Novembre 2011); la “Ecclesia in Medio Oriente” sulla Chiesa in Medio Oriente, comunione e testimonianza (14 Settembre 2012). Papa Ratzinger pubblica tre monumentali libri personali sulla figura storica di Gesù Cristo: “Gesù di Nazaret” (2007), “Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione” (2011) e “L’infanzia di Gesù” (2012), fissando le date precise della Nascita, della Passione, della Morte e della Risurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo. Benedetto XVI compie viaggi apostolici in 21 Paesi di tutti i continenti: tre volte in Germania (il suo primo viaggio apostolico oltre confine è per la Giornata Mondiale della Gioventù a Colonia), poi in Polonia, terra di Giovanni Paolo II, in Spagna (tre viaggi, uno per la XXVI Giornata Mondiale della Gioventù), in Turchia, in Austria, in Francia, in Repubblica Ceca, a Malta, in Portogallo, a Cipro, nel Regno Unito, in Croazia e a San Marino. Sette i viaggi apostolici intercontinentali: in Brasile, negli Stati Uniti d’America, in Messico, a Cuba, in Australia, in Africa (Camerun, Angola e Benin), nel Libano, e in Terra Santa (Giordania e Israele). Trenta le visite apostoliche in Italia: Bari (29 Maggio 2009 per la conclusione del XXIV Congresso Eucaristico Nazionale), al Santuario del Volto Santo a Manopello (1° Settembre 2006); Verona (19 Ottobre 2006 per IV Convegno Nazionale della Chiesa Italiana); Vigevano e Pavia (21-22 Aprile 2007); Assisi (due volte: 17 Giugno 2007 per l’Ottavo Centenario della Conversione di San Francesco; il 17 Ottobre 2011 Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo); Loreto (due volte: 1-2 Settembre 2007 in occasione dell’Agorà dei giovani italiani; 4 Ottobre 2012 nel 50° anniversario del viaggio di Giovanni XXIII); Velletri-Segni (23 Settembre 2007); Napoli (21 Ottobre 2007); Savona e Genova (17-18 Maggio 2008); Santa Maria di Leuca e Brindisi (14-15 Giugno 2008); Cagliari (7 Settembre 2008); Pontificio Santuario di Pompei (19 Ottobre 2008); zone terremotate dell’Abruzzo (L’Aquila, 28 Aprile 2009); Cassino e Montecassino (24 Maggio 2009); San Giovanni Rotondo (21 Giugno 2009); Viterbo e Bagnoregio (6 Settembre 2009); Brescia e Concesio (8 Novembre 2009); Torino (2 Maggio 2010); Sulmona (4 Luglio 2010); Carpineto Romano (5 Settembre 2010); Palermo (3 Ottobre 2010); Aquileia e Venezia (7-8 Maggio 2011); San Marino-Montefeltro (19 Giugno 2011); Ancona (11 Settembre 2011 per la conclusione del XXV Congresso Eucaristico Nazionale); Lamezia Terme e Serra San Bruno (9 Ottobre 2011); Arezzo, La Verna e Sansepolcro (13 Maggio 2012); Milano (1-3 Giugno 2012 per il VII Incontro Mondiale delle Famiglie); zone terremotate dell’Emilia-Romagna (26 Giugno 2012). L’annuncio della rinuncia al Papato durante il Concistoro di Lunedì 11 Febbraio 2013, è senza precedenti storici per le modalità, le conseguenze e gli effetti sulla Chiesa, anche relativamente alle procedure previste per l’elezione del prossimo Romano Pontefice. Nel 2013 avremo due successori di Pietro viventi? Il Codice di Diritto Canonico prescrive al secondo comma del canone 332:“Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti”. Così è stato. Le motivazioni sono note. Il florilegio romanzesco contro la Curia Romana, gli attacchi alla Chiesa di Cristo, al Papato, ai Fedeli Cristiani Cattolici, perpetrati da traditori, dissennatori, dissacratori, da capi di stato e di governo immorali e da spregiudicate formazioni politiche e multinazionali omosessuali della cultura “gender”, troveranno l’adeguata risposta nel magistero del prossimo Papa. Perché non fu soltanto Celestino V, il Papa del “gran rifiuto”, a denunciare le divisioni e la spazzatura. Anche se il 60mo versetto del terzo canto dell’Inferno nella Divina Commedia (“che fece per viltade il gran rifiuto”) non è fra i più simpatici di Dante Alighieri e nei fatti non sappiamo con certezza al 100 per cento se il grande poeta si riferisse proprio a Pietro da Morrone, nella storia della Chiesa non ci sono stati casi che in qualche modo possano lontanamente assomigliare a quello che stiamo vivendo oggi insieme a Benedetto XVI. Gli storici infatti sanno che in realtà casi simili all’abdicazione di Papa Ratzinger non ce ne sono stati, ma “se proprio si vuole andare a caccia di Papi che hanno rinunciato – spiega Franco Cardini – ci sono casi vagamente somiglianti. Le somiglianze storiche zoppicano, perché sono sempre soggettive. In questa logica salta a piè pari il caso poco documentato di Papa Clemente, terzo successore di Pietro. Poi, c’è quello di Papa Ponziano, che nel 235 viene deportato in Sardegna e nella prospettiva di non tornare più dai lavori forzati rinuncia alla carica consentendo la nomina del suo successore. Sorte che più o meno accade tre secoli dopo a Papa Silverio, confinato da Belisario su ordine dell’imperatrice Teodora”. Un caso emblematico è quello relativo a Benedetto IX, Teofilatto dei conti di Tuscolo, che viene eletto nel 1032. “Personaggio dalla vita assai criticabile, che viene cacciato da una rivolta nel 1044. Al suo posto viene eletto Silvestro III che a sua volta viene rimosso dal ritorno di Benedetto IX che resta in carica fino a maggio del 1045, quando vende il pontificato a Giovanni dei Graziani che prende il nome di Gregorio VI e viene deposto l’anno dopo. Una fase particolarmente confusa della storia della Chiesa che culmina con lo Scisma d’Oriente e si chiude con la nomina al soglio pontificio di Ildebrando di Soana, il riformatore Gregorio VII”. Poi, nel ‘400, si verifica una singolare sovrapposizione di Papi. “Se da professore di storia, non da commentatore della vicenda attuale, dovessi andare cercando curiose analogie indicherei i fatti accaduti negli anni fra il 1409 e il 1414”. Siamo esattamente alla fine dello Scisma d’Occidente. “Parliamo del caso di Gregorio XII, il veneziano Angelo Correr, che si dimette nel 1415 su richiesta del Concilio di Costanza, dopo però che nel 1409 il Concilio di Pisa aveva deposto sia lui sia il papa avignonese Benedetto XIII, eleggendo in loro sostituzione Alessandro V, che muore nel 1410 e viene sostituito dall’antipapa Giovanni XXIII. Una situazione particolarmente confusa a fronte della quale, anche su sollecitazione di molti cardinali che rilevano la necessità di porre fine allo scisma, interviene l’imperatore Sigismondo di Boemia. Viene indetto il Concilio di Costanza il 4 luglio del 1415 che accoglie l’abdicazione ufficiale, ancorché forzata, di Gregorio XII, che torna cardinale e va a vivere a Recanati. Qualche mese dopo lo scisma viene ricomposto con l’elezione di un membro di una nobile famiglia romana, Oddone Colonna, che assume il nome di papa Martino V. È nel corso del Concilio di Costanza che emerge un fatto importante nella Chiesa, cioè il dibattito sull’opportunità che il Papa governi affiancato dal Concilio. A questo scopo si decise che i Concili venissero indetti a cadenze fisse”. Passerà alla storia come il Piccolo Scisma. “Emerge la singolare figura di un antipapa dimissionario. Si tratta di Amedeo VIII di Savoia, eletto in seno al Concilio di Basilea da un gruppo di cardinali che deposero Eugenio IV. Prese il nome di Felice V. Quando a Roma Eugenio IV muore, su richiesta del successore, Nicolò V, accetta di abbandonare la tiara per riunire la Chiesa. È il 1449. Muore due anni dopo da cardinale e in fama di santità. Da quel momento l’unità di guida all’interno della Chiesa Cattolica non viene più messa in discussione”. Nulla a che fare con l’abdicazione di Benedetto XVI. “Sono somiglianze molto vaghe. Alla fine il caso che si avvicina di più, nonostante le tante differenze, è forse quello di Celestino V. Lui è tornato a fare il monaco anche perché non poteva fare altrimenti, considerate le pressioni esterne. Le libere dimissioni di papa Benedetto aprono ora nuovi scenari anche riguardo alla domanda su cosa fa un Papa dopo che si è dimesso”. Sarà Vescovo Emerito di Roma? Perderà la porpora cardinalizia? Di sicuro il suo coraggioso gesto “di rottura – secondo Galli della Loggia – dà voce alla ragione”. Ernesto Galli della Loggia nelle ultime settimane è stato uno dei pochi intellettuali italiani europei, dalle colonne del Corriere della Sera, a condividere le argomentazioni laiche messe in campo da Papa Ratzinger e dal Gran rabbino di Francia per opporsi ai matrimoni gay ed alle adozioni da parte di coppie omosessuali. Lo storico ed analista valuta le dimissione del Sommo Pontefice come di “grande portata e importanza da molti punti di vista, soprattutto da quello strettamente istituzionale. Si può intravedere, in questa decisione, un mutamento di profilo del Papato”. Evidenti sono le conseguenze. “A mio avviso, e lo dico da laico, la storica rinuncia di un pontefice può contribuire a ‘desacralizzare’ la figura pubblica del Papa, rendendola più simile a quella di altri leader che, se impossibilitati a compiere la propria missione, possono lasciare. Nessuno aveva mai sentito praticabile questa opzione, data la funzione sacrale e carismatica svolta dal pontefice. Viene toccata la natura istituzionale e politica del Papato, mettendo anche in luce un problema che è sempre rimasto sotto traccia, quello del modo di elezione. La procedura del Conclave ristretto, oggi, può anche sembrare stridente alla luce del gesto di Joseph Ratzinger. Sebbene vada precisato che la Chiesa è una monarchia assoluta elettiva e questo assetto non può che portarle vantaggi pure nel mondo moderno”. Dunque, il coraggioso gesto di Benedetto XVI, avrebbe delle forti implicazioni giuridiche. “Nel suo Pontificato, Ratzinger ha sperimentato due difficoltà, che egli per primo ha evidenziato. Un bisogno di purificazione, e penso in primo luogo allo scandalo della pedofilia, e un problema all’interno della stessa Santa Sede, evidenziato, ad esempio, dalla fuga di carte riservate. Di fronte a ciò, il Pontefice ha preso posizioni forti e condotto con determinazione un’azione coerente. Ma per fare questo serve una notevole carica di energia fisica e mentale, un’energia che forse il Papa ha sentito venire meno. Paradossalmente, il capo della Chiesa cattolica ha un potere illimitato, ma non può fare ‘quello che vuole’, e ciò comporta un grande dispendio di risorse personali. ‘Politicamente’, la scelta di rinunciare al soglio di Pietro potrebbe essere anche un modo per fare ‘esplodere’ situazioni che non avevano possibilità di governo”. Una lettura che solo apparentemente contrasta con l’intento del Papa di “lasciare” per il bene della Chiesa. “Non sembri irriverente o banale sottolineare che il Papa è uomo di massima fede e che, quindi, si affida alla Provvidenza. Quello che non può compiere con le sue forze, ritiene possa fare lo Spirito Santo guidando la scelta del successore dentro il Conclave”. Perché si è “dimesso”? “Una domanda che interroga tutti. La spiegazione della semplice stanchezza può non convincere un analista laico come me”. Benedetto XVI è un convinto assertore della razionalità dell’antropologia cristiana: in questo ha forse trovato un’ostilità preconcetta e immotivata. “È il caso del matrimonio e delle adozioni gay. Quello che dice il Papa è sovrastato dalla considerazione negativa della sua figura. C’è un immotivato sospetto che scatta automaticamente sulle sue parole. Prevale il conformismo progressista incarnato dalla linea del New York Times. Se Ratzinger condanna la guerra o il razzismo tutti sono d’accordo, quando si discosta invece dal main-stream ideologico, diventa subito conservatore, dogmatico, reazionario. Non c’è stato nessun serio dibattito intellettuale sulla questione matrimonio omosessuale, nessun argomento razionale”. L’addio ufficiale di Benedetto XVI alle ore 17 del 28 Febbraio 2013, quando volerà via dal Vaticano per raggiungere in elicottero Castel Gandolfo, non sarà un addio alla Nixon! E l’arrivo di un nuovo Papa farà “tremare” i nemici della Chiesa. Se, in generale, in casi simili, sui media, sui romanzi spacciati per “scoop” giornalistici però immeritevoli di Pulitzer e nella discussione pubblica prevalgono le interpretazioni più ostili al governo della Curia, il giudizio sulle persone giuste come Papa Benedetto XVI, come accadde con l’agonia di papa Wojtyla, è molto buono, e “ciò si riflette in positivo anche sull’istituzione” Chiesa. Il Papa cita esplicitamente nella sua “rinuncia” anche la velocità del mondo contemporaneo ed la necessità di farvi fronte. Un fenomeno laico antropologico che sta sotterrando, grazie anche a Internet, i partiti politici tradizionali italiani e i governi di destra e sinistra con i loro presunti “leader”: il popolo italiano (e mondiale) preferisce la piazza e il chiasso dei nuovi pifferai magici! La Chiesa di Cristo mette in guardia, ammonisce e consiglia. E Papa Ratzinger, da successore di Pietro, sceglie il silenzio monastico per sempre, il ritiro dal mondo, suggerendo forse anche una modifica degli stili di governo nella Chiesa la cui saggezza bimillenaria, unitamente a tempi di reazione più rapidi e utili, saprà salvare la barca di Pietro. Per il canonista Arroba la scelta di Benedetto XVI è “un gesto di servizio”, la più evidente manifestazione del principio che regge tutta la struttura della Chiesa. “Tra i fedeli di Cristo ogni incarico è fatto per servire e non per essere serviti”. Il professor Manuel Jesús Arroba Conde, docente ordinario di Diritto canonico alla Pontificia Università Lateranense, ricorda le radici teologiche e giuridiche del gesto compiuto dal Papa. “Quello del Romano Pontefice, da un punto di vista strettamente giuridico, è configurato come un ufficio ecclesiastico. E per ogni ufficio, da quello del parroco a quello «supremo» del Papa, è prevista la rinuncia. Tale possibilità s’inserisce non in una logica di potere ma di responsabilità nei confronti della missione legata all’ufficio stesso. Chi viene nominato a un ufficio, infatti, è al servizio della missione affidatagli, non viceversa, e ne risponde davanti a Dio”. Meglio usare quindi il termine «rinuncia» e non «dimissioni». “Direi che il termine «rinuncia» da un punto di vista canonico è più corretto. Esprime la presa di coscienza che non si è nelle condizioni di svolgere adeguatamente il compito affidato. D’altra parte nel Codice di diritto canonico, meglio che in altre realtà, è chiaramente espresso il fatto che gli uffici – anche il più elevato come quello del Papa – non esistono per se stessi ma per la cura delle anime. Così per tutti gli uffici, oltre al modo di assumere un incarico – nel caso del Pontefice attraverso l’elezione da parte dei cardinali con successiva accettazione dell’eletto –, sono previsti anche i modi di perderlo. Tra questi modi si annovera la rinuncia. Questo risponde anche a due dati del contesto attuale: l’allungamento della vita, non sempre con un corrispondente «vigore», e l’aumento delle sfide poste in modo immediato a chi svolge l’ufficio personale di guida suprema della Chiesa”. L’«ufficio del Papa» prevede condizioni particolari per la rinuncia. “Come per tutti gli uffici ecclesiastici la rinuncia, come atto giuridico, deve essere compiuta attraverso un atto libero e nel pieno delle proprie capacità. A differenza degli altri uffici, però, la rinuncia del Papa non richiede l’accettazione da parte del superiore, essendo quella del Pontefice l’autorità suprema. E poi essa deve essere «debitamente manifestata», cioè deve essere pubblica”. Papa Ratzinger ha scelto un Concistoro per l’annuncio, ma poteva farlo anche in un altro contesto. “Nel diritto la richiesta di una manifestazione pubblica della rinuncia – che non può restare una decisione privata – non è tradotta in una formalità concreta”. Profetica è la sola scena focale del film “Habemus Papam” di Nanni Moretti. Ma l’unico effetto rilevante “è che dal 28 Febbraio alle ore 20 si passerà da una situazione di «Sede piena» a una di «Sede vacante» con tutte le conseguenze giuridiche. Non esistono situazioni «intermedie » e questo per garantire la normalità dello svolgersi della vita della Chiesa. Il ministero petrino, infatti, è centrale per la Chiesa ma non è il centro, che rimane Cristo. A regolare la situazione di sede vacante, poi, è la Costituzione apostolica «Universi Dominici gregis» di Giovanni Paolo II”. Le norme per questo Conclave saranno quasi le stesse di quello del 2005 che portarono all’elezione di Benedetto XVI. “Tranne per un punto: Benedetto XVI, infatti, ha modificato le norme, laddove permettevano dopo i primi tre giorni e altre 21 votazioni di eleggere il Pontefice con la sola maggioranza assoluta (il 50 per cento più uno) dei voti. Ora saranno sempre necessari i due terzi dei voti. Questo perché la scelta del Pontefice deve essere il più possibile fondata sulla comunione di tutta la Chiesa universale, rappresentata dai cardinali in Conclave”.
Rispetto al caso della morte di un pontefice le procedure per la convocazione del Conclave non sono diverse. “Sono le stesse. Dal momento in cui ci sarà la sede vacante si potranno avviare le procedure per l’elezione e il primo atto sarà la convocazione delle Congregazioni generali di tutti i cardinali. Queste dovranno essere almeno tre: nella prima i porporati giureranno mentre nelle due successive ascolteranno due meditazioni. Questo per garantire che l’elezione del Pontefice avvenga dopo un preciso percorso di discernimento”. Come annunciato da Papa Benedetto XVI alle 20 del 28 Febbraio 2013 la sede di San Pietro “sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice”. In quel momento inizierà la cosiddetta Sede vacante durante la quale il Collegio dei cardinali non ha nessun potere o giurisdizione sulle questioni spettanti al Papa. Questo vuol dire che fino alle ore 20 del 28 Febbraio 2013 il Papa potrà continuare a fare nomine di vescovi o in Curia e a promulgare decreti o leggi, anche sulle procedure di convocazione nel Conclave dei 117 Padri Cardinali Elettori peraltro già tutti presenti a Roma per salutare Benedetto XVI. Dal 1° Marzo questi atti non saranno più possibili fino all’elezione del nuovo Pontefice. Nel periodo di Sede vacante cessano dall’esercizio del loro ufficio il segretario di Stato, i prefetti, i presidenti e i membri di tutti i dicasteri curiali. Mantengono l’incarico solo il penitenziere maggiore (oggi il cardinale Manuel Monteiro de Castro), il cardinal vicario per la diocesi di Roma (Agostino Vallini) e il cardinale arciprete di San Pietro (Angelo Comastri). Non decade dall’ufficio neanche il Camerlengo (attualmente il cardinale Tarcisio Bertone) che ha il compito di sigillare l’appartamento pontificio, di prendere possesso del Palazzo Apostolico, di curare e amministrare, col consenso dei cardinali nei casi più gravi, i beni e i diritti temporali della Santa Sede. Con la Sede vacante i cardinali, compresi gli ultraottantenni, cominceranno a riunirsi convocati dal e sotto la presidenza del cardinale decano che attualmente è Angelo Sodano. Le norme attuali stabiliscono che il Conclave vero e proprio inizi tra i 15 e i 20 giorni successivi all’inizio della Sede vacante. Il giorno preciso verrà stabilito dalla Congregazione generale dei cardinali. Al Conclave potranno entrare solo i cardinali con meno di ottanta anni e così Sodano, avendo superato l’età non vi potrà partecipare, come non potrà farlo, per lo stesso motivo, il vice-decano Roger Etchegaray. In Conclave svolgerà il compito di decano il più anziano dei porporati dell’ordine dei vescovi, attualmente il cardinale Giovanni Battista Re. Con le nuove norme è previsto che i Cardinali Elettori risiedano nella Domus Sanctae Marthae, un edificio moderno, voluto da Giovanni Paolo II, costruito proprio per questo scopo, mentre le votazioni si svolgeranno nella tradizionale cornice della magnifica Cappella Sistina. Il nome dell’eletto, dopo la tradizionale fumata bianca, verrà poi proclamato dal cardinale protodiacono, incarico attualmente tenuto dal francese Jean-Louis Tauran. Benedetto XVI ha cambiato in un punto specifico la Universi Dominici Gregis. La Costituzione apostolica del 1996, con un’innovazione epocale, infatti stabiliva, al punto 75, che dopo il trentatreesimo o trentaquattresimo scrutinio, qualora gli Elettori non avessero trovato un’intesa, i cardinali avrebbero potuto decidere, a maggioranza assoluta (cioè la metà più uno degli elettori presenti), che si sarebbe potuto procedere anche a votazioni per le quali fosse sufficiente “la sola maggioranza assoluta”. Con un “motu proprio” pubblicato il 26 Giugno 2007 Papa Benedetto XVI ha ripristinato la norma tradizionale. Secondo le nuove disposizioni, dopo la trentatreesima o trentaquattresima votazione, si passa direttamente al ballottaggio fra i due cardinali che avranno ricevuto il maggior numero di voti nell’ultimo scrutinio. Anche in questo caso, però, sarà necessaria una maggioranza dei due terzi. Viene inoltre specificato che i due cardinali rimasti in lizza per l’elezione non potranno partecipare attivamente al voto, avranno quindi solo elettorato passivo. In base alle norme attuali è severamente proibito violare il segreto del Conclave. Nessun iPad o iPhone potrà violare la clausura assoluta dei Padri Cardinali. Ma mentre per i non cardinali che prestano il loro servizio per le incombenze inerenti all’elezione, è prevista la gravissima sanzione della scomunica “latae sententiae”, per i porporati non è prevista alcuna pena specifica, facendo leva sul loro senso di responsabilità e sullo spessore della loro coscienza (“graviter onerata ipsorum coscientia”). Nel Conclave che si aprì il 18 Aprile 2005 i cardinali con diritto di voto erano 117 (come oggi) ma a partecipare all’elezione di Benedetto XVI furono in 115, visto che per motivi di salute non poterono giungere a Roma il messicano Adolfo Suarez Rivera e il filippino Jaime Sin. Anche per il prossimo Conclave, in calendario per il 15 Marzo (forse dal giorno 10, ma perché anticipare?), i Cardinali Elettori previsti sono 117, tenendo conto del fatto che il porporato ucraino Lubomyr Husar compirà ottanta anni il 26 Febbraio, due giorni prima in cui il Soglio di San Pietro rimarrà vacante come stabilito da Papa Ratzinger. Infatti da Paolo VI decise con il “motu proprio” Ingravescentem aetatem del 1970 e ribadito da Giovanni Paolo II, che possono partecipare all’elezione del Papa solo i cardinali che non hanno compiuto ottanta anni. E al 1° Marzo 2013 i porporati votanti saranno appunto 117. Di questi 60 sono gli europei (erano 58, otto anni fa), di cui 28 gli italiani (erano 20). Dalla Penisola verranno 19 cardinali curiali o ex curiali, come Angelo Amato, Ennio Antonelli, Giuseppe Bertello, Tarcisio Bertone, Domenico Calcagno, Francesco Coccopalmerio, Angelo Comastri, Velasio De Paolis, Raffaele Farina, Fernando Filoni, Giovanni Lajolo, Francesco Monterisi, Attilio Nicora, Mauro Piacenza, Gianfranco Ravasi, Giovanni Battista Re, Paolo Sardi, Antonio M. Vegliò e Giuseppe Versaldi. Nonché nove pastori o emeriti di Chiese particolari come Angelo Bagnasco, Giuseppe Betori, Carlo Caffarra, Severino Poletto, Paolo Romeo, Angelo Scola, Crescenzio Sepe, Dionigi Tettamanzi, Agostino Vallini. I latinoamericani saranno invece in 19 (erano 21 comprendendo anche Suarez Rivera), mentre i nordamericani assommeranno a 14 (come nel 2005). Gli africani saranno in 12 (erano 11) e gli asiatici in 11 (come otto anni fa, comprendendo anche Sin). Uno solo sarà il cardinale proveniente dall’Oceania (erano due). Nel Conclave AD 2013 le nazioni più rappresentate, dopo l’Italia, saranno gli Stati Uniti con 11 cardinali (come nel 2005), e cioè i curiali o ex-curiali Raymond L. Burke, James M. Harvey, William J. Levada, e i pastori o emeriti di diocesi Daniel N. DiNardo, Timothy M. Dolan, Eugene F. George, Roger M. Mahony, Edwin F. O’Brien, Sean P. O’Malley, Justin F. Rigali, Donald W. Wuerl. La Germania con 6 porporati (come nel 2005), e cioè gli ex curiali Paul J. Cordes e Walter Kasper, e i pastori Karl Lehmann, Reinhard Marx, Joachim Meisner, Rainer M . Woelki. Il Brasile con 5 (erano 4), e cioè il curiale Joao Braz de Aviz e l’ex Claudio Hummes, e i pastori o emeriti Geraldo M. Agnelo, Raymundo Damasceno Assis e Odilio P. Scherer. La Spagna con 5 (erano 6), e cioè i curiali Santos Abril y Castello e Antonio Canizares Llovera, e i pastori o emeriti Carlos Amigo Vallejo, Lluis Martinez Sistach e Antonio M. Rouco Varela. L’India con 5 (erano 3), e cioè l’ex curiale Ivan Dias e i pastori George Alencherry, Oswald Gracias, Basileios C. Thottunkal e Telesphore P. Toppo. La Francia con 4 (erano 5), e cioè il curiale Jean Louis Tauran, e i pastori Philippe Barbarin, Jean-Pierre Ricard e André Vingt-Trois. La Polonia con 4 (erano 3), e cioè i curiali Zenon Grocholewski e Stanislaw Rylko e i pastori Stanislaw Dziwisz e Kazimierz Nycz. A quanto pare nel Conclave AD 2013 non saranno rappresentate le nazioni presenti nel 2005, come il Giappone e l’Ucraina, che otto anni fa avevano due elettori ciascuno, e Camerun, Costa d’Avorio, Guatemala, Lettonia, Madagascar, Nicaragua, Nuova Zelanda, Siria, Thailandia e Uganda. Saranno invece rappresentate nazioni che non lo erano nel 2005, come la Slovenia (Franc Rodé), l’Ecuador (Raul E. Vela Chiriboga), l’Egitto (Antonios Naguib, colpito da emorragia celebrale a fine 2011), il Kenya (John Njue), la Guinea (Robert Sarah), il Senegal (Theodore-Adrien Sarr), lo Sri Lanka (Ranjith Patabendige) e Hong Kong (John Tong Hon). Il Regno Unito sarà rappresentato da un porporato scozzese, come otto anni fa, ma non da un inglese presente invece nel 2005. Il numero di appartenenti ad ordini religiosi è di 19 cui va aggiunto un porporato dell’Opus Dei, il peruviano Juan L. Cipriani Thorne. Tra loro 4 i Salesiani (gli italiani Amato, Bertone e Farina con l’honduregno Oscar A. Rodriguez Maradiaga), tre i Francescani (Amigo Vallejo, Hummes e il sudafricano Wilfried Fox Napier), due i Gesuiti (l’argentino Jorge M. Bergoglio e l’indonesiano Julius R. Darmaatmadjia) e due i Domenicani (l’austriaco Christoph Schonborn e il boemo Dominik Duka). Nel 2005 erano in 20, anche se distribuiti diversamente tra le varie Congregazioni: i Francescani erano 4, i Gesuiti e i Salesiani 3, mentre c’erano due Redentoristi e un Domenicano. Il numero dei porporati che lavorano o hanno lavorato a fine carriera nella Curia romana e in altri uffici ecclesiastici dell’Urbe, sono attualmente 40. Di cui 19 italiani. Nel 2005 i curiali e gli ex curiali erano 27, nove dei quali italiani. Nel Conclave AD 2013 i cardinali più giovani saranno: l’indiano Thottunkal (54 anni a Giugno), il filippino Luis A. Tagle (56 anni a Giugno), i tedeschi Woelki (57 anni ad Agosto) e Marx (60 anni a Settembre), l’olandese Willem Jacobus Eijk (60 anni a Giugno), l’ungherese Peter Erdo (61 anni a Giugno). I più anziani saranno il tedesco Kasper, l’italiano Poletto e il messicano Juan Sandoval Iniguez che compiranno 80 anni rispettivamente il 5, 18 e 20 Marzo 2013. Con le vecchie norme questi tre porporati avrebbero potuto non partecipare al Conclave. Fino alla Costituzione apostolica Universi Dominici Gregis promulgata dal beato Giovanni Paolo II nel 1996 infatti non avrebbero potuto votare i cardinali con 80 anni compiuti nei 15-20 giorni tra la morte o le dimissioni del Papa e l’inizio del Conclave. Oggi invece chi compie ottanta anni tra la data della Sede vacante e l’inizio delle votazioni conserva il diritto di voto. Pio XIII, Giovanni XXV, Giovanni Paolo III, Benedetto XVII: ha senso chiedersi come si chiamerà il prossimo Papa o, forse, è più utile ritirarsi nella santa umile preghiera per la Chiesa e il Papato? Il Concistoro dell’11 Febbraio 2013 resterà scolpito nella storia della Chiesa. Nei nostri cuori rimarranno incise le parole di Benedetto XVI, un tumulto di coscienza che in un attimo si è esteso su tutta la Terra con la forza del fulmine (non a ciel sereno!) che la stessa sera si è effettivamente abbattuto sulla croce del cupolone di San Pietro. Quasi segnalando, in termini di energia rilasciata, lo “spread”, il differenziale tra il Cielo e la Terra. Tra le Beatitudini di Gesù e la vita mondana anche nella Chiesa. Il cardinale Angelo Bagnasco, Presidente della Cei, legge il senso delle dimissioni del Papa come un atto di profondo e cosciente coraggio.
“Il Concistoro si stava svolgendo come previsto – rivela il cardinale Bagnasco – ma prima della benedizione finale il Santo Padre ha letto un suo testo in latino, breve, nel quale ha annunciato l’intenzione di concludere il servizio petrino il 28 Febbraio. C’è sempre un grande silenzio di attenzione quando il Papa parla, ma dopo queste parole è calato su di noi un silenzio ancor più palpabile, misto a sorpresa, sconcerto, grande rincrescimento. Quando poi il Santo Padre è uscito, dopo un momento nel quale nessuno parlava, ci siamo quasi timidamente scambiati i nostri sentimenti, scoprendoli profondamente condivisi. Siamo tutti dentro una profondissima emozione, ma dobbiamo collocare questo avvenimento dentro l’orizzonte della fede: Cristo è il Pastore dei pastori, la Chiesa è solida nelle mani di Gesù che si serve degli uomini scelti da Lui. Insieme al primo sconcerto, che resta nel cuore, emerge un grande abbraccio a Benedetto XVI, da credenti e non credenti, perché sta svettando più nitida ancora la statura di quest’uomo che il Signore ci ha donato per 8 anni, per il suo profondo magistero offerto con una tenerezza di animo e di tratto, di rispetto e di umiltà riconosciuta da tutti, specialmente in queste ore. Questa decisione nasce da un’anima – percezione crescente in questi anni – profondamente umile, che vive di fede e nella libertà del proprio cuore, che non ha da affermare se stesso ma sa di dover solo annunciare Gesù Cristo. Tutto ciò che lui compie – gesti, parole, scelte – l’ha vissuto esclusivamente per questo. L’Anno della fede comprova la preoccupazione che ha annunciato fin dall’inizio del suo pontificato: la questione principale della Chiesa oggi è la fede. Al Papa non importa essere conforme all’opinione dominante, perché è un uomo libero e quindi coraggioso. La decisione appena annunciata è dentro questo humus profondo della sua anima, che è il suo respiro quotidiano e che lo ha portato a valutare l’avanzare degli anni – come lui dice – in rapporto ai bisogni crescenti della Chiesa contemporanea. Non presumo di conoscerlo così profondamente, ma nella frequentazione di questi anni nei quali ho potuto avvicinarlo anche in circostanze molto difficili e di grande sofferenza – come il momento di massima esplosione delle vicende dolorosissime legate ai casi di pedofilia – mi ha sempre colpito la serenità e la fiducia. Mi porto dentro l’impressione fortissima di un uomo che vive tutto ciò che accade con uno sguardo di fede. Il suo è l’esempio di come si vive il Cristianesimo: vedere le cose con gli occhi del Signore. Il suo magistero di questi anni, insieme alla sua persona, è un richiamo, un esempio e una predicazione della fede. Che al suo centro ha Gesù Cristo”. Se lo stato d’animo di tante persone è di sorpresa e di dolore, forse molti pensano anche a Giovanni Paolo II che portò il suo servizio fino alla fine. “Le circostanze sono diverse, come le
personalità. Ognuno ha valutato davanti a Dio, nella preghiera, la propria situazione e quella della Chiesa cui è consacrato come servitore. Sarebbe indebito fare confronti così delicati e, alla fine, ritengo anche impossibili perché ci porterebbero dentro il sacrario della coscienza personale. L’«incapacità» di cui parla il Papa non è riferita alle virtù morali o a poco coraggio, scarsa attenzione, volontà di ritirarsi a una vita meno pesante. Le considerazioni del Papa sono riferite alle forze fisiche e al passare degli anni, con un logorìo che in questi ultimi mesi è stato anche visibile. Di certo non si può dire che questo non sia un Papa coraggioso: se qualcuno pensa a una ‘fuga’ dovrebbe chiedersi allora perché non lasciò nel mezzo della tempesta per la pedofilia.
Questo evento imprevedibile si può vedere come un annuncio del primato della fede e della centralità di Cristo. Noi uomini siamo strumenti e servitori, certo impegnandoci a esserlo in modo intelligente e responsabile, ma il grande timoniere resta Cristo. Se questa è la nostra fede, la scelta di coscienza che il Papa ha fatto diventa una proclamazione ulteriore e visibile di cosa vuol dire avere Cristo al centro. A ben considerare, ancora una volta lui che è così schivo con questo gesto sembra voler spostare l’attenzione da sé al Signore. Ringraziamo il Signore, perché è bello sentire in modo più esplicito e diffuso quanto Benedetto XVI sia entrato nei cuori. Non solo teologo ma padre. Gesù ha fondato la Chiesa come espressione del suo amore e della paternità di Dio verso il mondo, e la esprime anche attraverso i suoi pastori, in primo luogo tramite il suo fondamento Questo è stato per me un grandissimo dono e privilegio. Gli incontri con lui sono stati una grazia di conferma nella fede e di indirizzo per la Chiesa italiana. Il Papa ha sempre ascoltato con estrema attenzione e discrezione, suggerendo e incoraggiando, mostrando grande stima e affetto per l’episcopato italiano e il nostro Paese. L’udienza più recente, verso la fine di Gennaio, è stata particolarmente lunga – un’ora. Il Santo Padre, con la parola e lo sguardo, si è informato con un’attenzione tutta particolare. Un’esperienza che ho riferito ai miei confratelli in Consiglio episcopale, perché mi è sembrata una grazia specialissima. Nelle sue parole al Concistoro il Papa ha richiamato la consapevolezza che la missione affidata da Dio richiama all’essenza della fede cristiana. Che è ‘stare con Gesù’ nel mondo senza essere del mondo. Il giorno scelto dal Papa, una festa mariana così popolare e amata come la Madonna di Lourdes, è un elemento certo non casuale. La scelta è precisa, anzitutto come devozione filiale alla Madonna. Nei suoi viaggi il Santo Padre ha sempre visitato santuari mariani. A Lourdes la devozione mariana si esprime come amore misericordioso, che guarisce i corpi quando Dio vuole e le anime sempre. L’amore di Dio a Lourdes si fa misericordia per le afflizioni del nostro mondo, per le malattie del corpo e dell’anima. Mi pare una sottolineatura particolarmente bella e importante per l’umanità di oggi che ha estremo bisogno di sentirsi amata. Se il mondo a volte è tanto violento è perché forse non sa di essere amato nella misericordia. Mi sembra che, insistendo sulla centralità della fede e quindi di Gesù Cristo, il Santo Padre negli anni ha pazientemente richiamato l’attenzione su quello che ci ha indicato il Concilio Vaticano II, cioè il primato della liturgia, luogo e spazio del mistero, dove l’uomo s’incontra con il Signore e nella sua libertà si lascia afferrare dal mistero di Dio, per esserne trasformato. Il Papa ha messo a tema sin dall’inizio del pontificato la centralità della liturgia eucaristica come fonte e culmine di tutta la vita cristiana e della missione della Chiesa. Ci ha costantemente ricordato che l’Eucaristia genera il popolo di Dio. Mi pare che questa sottolineatura stia passando nella vita delle comunità e nella coscienza del popolo cristiano”. Bisogna affrontare questo tempo inedito di attesa che precede il Conclave per l’elezione del nuovo Papa “con un atteggiamento di grande fiducia e serenità. Il rammarico e lo sconcerto iniziali sono il segno che mostra come Benedetto XVI sia entrato nei cuori portandoci Gesù con la sua persona, la luce della sua parola e il calore della sua mitezza. Ma questi sentimenti devono essere vissuti dentro a un orizzonte più grande: la serenità radicata nella fede. Lasciamo stare tanti discorsi: il credente ha fiducia in Cristo. Non rincorriamo ipotesi, pronostici, illazioni che in questi giorni si faranno. Preghiamo, con lo sguardo fisso su Gesù, perché la Chiesa continui la sua storia di fedeltà a Cristo e all’uomo. Preghiamo per Benedetto XVI, e per il futuro successore di san Pietro”. Il Catechismo della Chiesa Cattolica spiega il significato autentico del ministero petrino. “Il collegio dei vescovi succede a quello degli apostoli; il vescovo di Roma succede a Pietro. Da lui eredita il compito di confermare i fratelli nella fede, il carisma della “roccia”, che dà coesione e stabilità a tutta la Chiesa:«Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,31-32). Durante la vita pubblica, Gesù ha dato a Simone il nuovo nome di Pietro e gli ha promesso uno speciale ruolo di guida con la triplice metafora della pietra, delle chiavi e del legare e sciogliere. Dopo la risurrezione, lo costituisce suo primo testimone:«apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor 15,5). Lo fa pastore di tutto il gregge:«Pasci i miei agnelli…Pasci le mie pecorelle» (Gv 21,15-16)”. Pietro, nella prima comunità di Gerusalemme, è sempre in prima fila come protagonista, nel prendere la parola a nome di tutti gli apostoli, nel compiere le guarigioni miracolose, nel punire gli indegni, nel confermare le conversioni, nell’ammettere i pagani, nell’affermare la libertà cristiana di fronte alla legge mosaica. Pietro e Paolo, «le più grandi e le più giuste colonne», portano a compimento la loro testimonianza a Roma, dove versano il sangue per Cristo «insieme a una grande moltitudine di eletti». Per questo la Chiesa di Roma «presiede alla carità», e con essa, «per la sua più alta autorità apostolica, deve accordarsi ogni Chiesa, cioè i fedeli di qualsiasi parte», perché attraverso la successione dei suoi vescovi «la tradizione, che è nella Chiesa a partire dagli apostoli, e la predicazione della verità è giunta fino a noi». «Dalla discesa del Verbo incarnato verso di noi, tutte le Chiese cristiane sparse in ogni luogo hanno ritenuto e ritengono la grande Chiesa che è qui [a Roma] come unica base e fondamento, perché, secondo la promessa del Salvatore, le porte degli inferi non hanno mai prevalso su di essa». l vescovo di Roma, erede della testimonianza di Pietro, «è il perpetuo e visibile principio e il fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli». Impersona l’unità del collegio episcopale; manifesta e promuove quella della Chiesa. Il papa eredita il compito che Gesù ha assegnato a Pietro: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16,18-19). Gli apostoli lasciano in eredità alle successive generazioni cristiane la loro testimonianza, viva e scritta, come un sacro deposito da custodire fedelmente e rivivere in situazioni sempre nuove. La Tradizione apostolica originaria, comprendente la Sacra Scrittura, si prolunga nella Tradizione ecclesiale posteriore, con il sostegno perenne dello «Spirito di verità» (Gv 14,17) promesso da Gesù. La rivelazione non può essere accresciuta. Viene però comunicata, esplicitata, attualizzata. La luce della divina rivelazione si propaga attraverso la dottrina, il culto e la prassi della Chiesa, servendosi di vari canali concreti: insegnamento del papa e dei vescovi, predicazione e catechesi, liturgia e arte, comportamento esemplare dei cristiani, soprattutto dei santi. Nella fede della Chiesa, proclamata, celebrata e vissuta, si esprime in opere e parole la rivelazione di Dio in Cristo, senza aggiunte e senza sottrazioni, ma sempre viva ed operante. Da una generazione all’altra viene trasmessa e ricevuta l’esperienza degli apostoli, che per primi incontrarono il Signore. Solo rivivendo questa esperienza originaria si diventa cristiani. Solo sul fondamento posto dagli apostoli una volta per sempre si può edificare. Per aderire al Signore e partecipare alla sua vita, è necessario ricordare ciò che egli ha operato e insegnato, custodire fedelmente la sua memoria, conformare ad essa i propri atteggiamenti. Sia nella Sacra Scrittura sia nella Chiesa risuonano molte voci. Non è sempre facile discernere il genuino messaggio rivelato. A servizio di esso, il Signore ha posto il magistero del papa e dei vescovi. Con l’autorità di Cristo e la grazia speciale dello Spirito, in atteggiamento di umile ascolto e di incondizionata fedeltà, essi hanno il compito di «interpretare autenticamente la parola di Dio scritta o trasmessa». Il collegio dei vescovi, presieduto dal papa, ha l’ufficio di garantire la tradizione autentica della fede e di guidare il popolo dei credenti; per questo ha ricevuto in modo speciale «il carisma sicuro della verità» e non può sbagliare quando è unanime nell’insegnare la verità rivelata, sia che si trovi disperso su tutta la terra, sia che si trovi solennemente riunito in concilio ecumenico. Il papa per volontà di Cristo deve confermare i fratelli ed essere “roccia” di sostegno per la Chiesa; perciò è infallibile anche da solo, quando come maestro universale della fede definisce la dottrina da credere. Accanto all’insegnamento definitivo e infallibile, vi è un insegnamento ordinario non definitivo del papa e dei vescovi in materia di fede e di agire morale, che ha lo scopo di guidare il popolo di Dio verso una profonda comprensione e una coerente prassi cristiana. Anche questo insegnamento ordinario non definitivo gode di una particolare assistenza divina. Esige un assenso interiore, non però un’adesione totale di fede come il precedente. Sacra Scrittura, Tradizione, magistero dei vescovi e del papa sono congiunti insieme «sotto l’azione del medesimo Spirito Santo». Il Magistero è l’interprete autentico posto a servizio della Scrittura e della Tradizione: piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone la verità di Dio contenuta in esse. Il ministero apostolico ha un carattere personale, in quanto ognuno dei ministri è chiamato da Cristo e, costituito suo rappresentante, agisce con responsabilità propria. Ma ha anche un carattere collegiale, in quanto i vescovi formano il collegio episcopale intorno al papa e, in modo analogo, i presbìteri formano il presbiterio diocesano sotto l’autorità del vescovo. Ogni vescovo in quanto tale è membro del collegio episcopale. «L’episcopato è uno e indiviso»; «come non vi è che un’unica Chiesa…così non vi è che un unico episcopato rappresentato da una molteplicità di vescovi uniti tra loro». Poiché i vescovi, per il dono dello Spirito, governano come rappresentanti di Cristo, in definitiva c’è un solo Pastore in molti pastori: «Cristo è lui solo che pasce il gregge, ma lo fa impersonandosi nei singoli pastori» e «tutti i pastori si identificano con la persona di uno solo, sono una cosa sola». All’interno della comunione in Cristo di tutti i fedeli, vi è una speciale comunione dei pastori. Il collegio è formato dai vescovi insieme al papa e ha «piena e suprema potestà su tutta la Chiesa…In quanto composto da molti, sta ad esprimere la varietà e l’universalità del popolo di Dio; in quanto raccolto sotto un solo capo, sta ad esprimere l’unità del gregge di Cristo». Così viene promossa la comunione pluriforme, dinamica e tesa alla mondialità; viene garantita una maggiore ricchezza nell’insegnamento. La natura collegiale dell’episcopato si manifesta concretamente nei vincoli visibili di fede, di carità, di disciplina e di corresponsabilità pastorale, in alcune istituzioni come i patriarcati o le conferenze episcopali, in alcuni avvenimenti come la concelebrazione dell’ordinazione, i sinodi e soprattutto i concili ecumenici. Nei concili ecumenici il collegio dei vescovi «esercita in modo solenne la potestà sulla Chiesa universale. Il singolo vescovo «viene costituito membro del corpo episcopale in forza della consacrazione sacramentale e mediante la comunione gerarchica con il capo e i membri del collegio». Anche quando non compie atti formalmente collegiali, si trova nel collegio e ne fa risuonare la voce nella sua Chiesa particolare, se è in armonia con il papa e gli altri vescovi. Pur essendo maestro della fede e capo della sua comunità, ha il dovere di accordarsi con i suoi fratelli nell’episcopato, tenendosi lontano dall’individualismo. Pur esercitando il governo pastorale soltanto nella propria diocesi, è tenuto ad avere sollecitudine per tutte le Chiese. La sua responsabilità è insieme locale e universale, come la Chiesa stessa. I vescovi formano un collegio che ha come capo visibile il papa e sono corresponsabili di tutta la Chiesa”(CCC 58, 60, 526-530, 531-534, 620-621). La decisione del Papa “sarà, come lui ha detto, per il bene della Chiesa” – spiega l’arcivescovo di Milano, il cardinale Angelo Scola, precisando che “viviamo la decisione del Pontefice nella serenità, perché è presa da un uomo di Dio, dalla fede e dall’umiltà assolutamente straordinarie, che ci ha per tanti anni comunicato un’intelligenza profonda della fede e del senso del vivere tramite un magistero assolutamente straordinario”. L’arcivescovo di Firenze, cardinale Giuseppe Betori, anche lui presente al Concistoro, parla di “accoglienza nell’obbedienza per la decisione del Papa come per tutte le decisioni e scelte che egli ha compiuto nel suo ministero petrino” ed esprime “gratitudine per la luce e il vigore con cui ha sostenuto il cammino dei credenti in tempi difficili per la testimonianza del Vangelo ma anche per un magistero che è stato e continuerà ad essere riferimento di principi imprescindibili per l’umanità tutta”. Il patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, dichiara che “se il Santo Padre ha pensato e riflettuto, di fronte al Signore, ritenendo di non avere più le forze e le energie fisiche per il buon governo della Chiesa, dobbiamo renderci conto che abbiamo un grande Papa. Siamo particolarmente vicini, con l’affetto e la preghiera, al Santo Padre perché questa sua decisione dice la libertà della persona e, in un ecclesiastico, la libertà è sempre sinonimo di obbedienza a un dovere più grande”. I Vescovi dell’Umbria esprimono “la loro ammirata gratitudine per la generosa testimonianza di amore e servizio a Cristo ed alla Chiesa universale resa nel corso dei otto anni di pontificato con la profondità della sua dottrina e la paternità del suo atteggiamento”. In una nota firmata dall’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e presidente della Conferenza episcopale umbra, Gualtiero Bassetti, i presuli dichiarano che il Papa continuerà a “servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Chiesa”. Si sono subito raccolti in preghiera sulla tomba di san Francesco i frati di Assisi. La comunità religiosa si è detta “attonita e sorpresa: preghiamo per il Papa e per la Chiesa in questo particolare momento storico”, riferisce un comunicato del Sacro Convento di Assisi. “Siamo testimoni di un avvenimento particolare nella storia della Chiesa” – scrive il vescovo di Bolzano-Bressanone, Ivo Muser. Per il vescovo di Rossano-Cariati, Santo Marcianò, “dalle parole con cui il Papa rinuncia al ministero di vescovo di Roma traspare la decisione sofferta ma serena dell’uomo di Dio che ha sempre vissuto il suo ministero con spirito di servizio, di dedizione, di amore”. Con la decisione di Benedetto XVI, il Papa ha “rotto un tabù secolare” – rivela l’arcivescovo di Parigi, cardinale Andrè Vingt-Trois, e presidente della Conferenza dei vescovi di Francia. “Personalmente considero il suo atto coraggioso. Per noi cristiani è un evento rilevante, per il suo carattere eccezionale, ma anche per la personalità del Papa”. L’arcivescovo di Cravocia, cardinale Stanislaw Dziwisz, afferma di capire “la motivazione del Papa che guida la Chiesa con grande saggezza e ponderatezza”. Il cardinale Timothy Dolan, arcivescovo di New York, nel consigliare prudenza riguardo a una data anticipata per l’inizio del Conclave, scrive:“Siamo tristi per le dimissioni ma grati per gli otto anni come successore di Pietro”, aggiungendo che “come pastore ha partecipato al dolore in un incontro privato alla nunziatura di Washington, dove ha ascoltato con cuore aperto le vittime degli abusi sessuali commessi da esponenti del clero”. Si è dichiarato “letteralmente sotto choc” il cardinale Giovanni Battista Re, prefetto emerito della Congregazione per i vescovi. “L’annuncio del Pontefice è un fatto che ha sconvolto tutti”. Il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, rivela: “Sono molto dispiaciuto, ci troviamo di fronte ad una dimensione completamente nuova”. Le dimissioni del Papa sono “un’enorme sorpresa” per il portavoce della Conferenza dei vescovi svizzeri, Walter Mueller. “Il
suo pontificato ha una grandissima importanza nella storia della Chiesa”. Reazioni giungono anche dai rappresentanti delle diverse confessioni cristiane e delle altre fedi. “Le relazioni fra ortodossi e cattolici non cambieranno in seguito al cambiamento di Pontefice”, dichiara il Patriarcato di Mosca secondo l’Agenzia Interfax. L’arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, primate della Comunione anglicana, spiega di aver appreso della rinuncia “con cuore afflitto” ma dichiara la sua “completa comprensione” nei confronti della scelta del Papa. Il rabbino capo d’Israele, Yona Metzeger, ha lodato il ruolo di Benedetto XVI sottolineando come durante il suo pontificato “vi siano state le migliori relazioni mai avute fra la Chiesa e il Rabbinato” ed esprimendo “gran riconoscimento per l’avanzamento dei rapporti interreligiosi fra l’ebraismo, la cristianità e l’islam”. In una nota a caldo, il vescovo di Teramo-Atri, Monsignor Michele Seccia, scrive: “Al primo messaggio ricevuto sul cellulare ho pensato ad uno scherzo. Ben presto la notizia si è rivelata vera e ben documentata. Oltre lo stupore iniziale, ho ripercorso tutto l’incontro del 17 gennaio u.s., quando sono stato ricevuto in udienza insieme al gruppo dei Vescovi in visita ad limina. Ho scritto il mio commento “a caldo”, oggi lo riprendo per un particolare che mi ha colpito: l’evidente difficoltà nel camminare, ma anche una lucidità nel dialogo e nell’attenzione a quanto ciascuno di noi diceva. Gli occhi di Benedetto XVI esprimevano tutta la sua concentrazione: non esitava a porre domande o insistere su qualche particolare emerso, come l’attenzione alla famiglia ed alle vocazioni sacerdotali, l’importanza dell’adorazione eucaristica, perché Dio è vicino ed educa nel silenzio. Con queste immagini nella mente e nel cuore, superato un certo senso di smarrimento, dopo aver ascoltato al TG1 il testo letto dal Papa, mi sono convinto del valore del “gesto storico e profetico”. Una chiara testimonianza di umiltà e verità, di coraggio e amore per la Chiesa, cioè per l’umanità intera. Colui che non ha voluto tirarsi indietro nel momento più critico per la vita della Chiesa, ha manifestato il suo amore alla Chiesa, attenendosi al dettato della sua coscienza a lungo interrogata al cospetto del Signore, Via, Verità, Vita. Una decisione che, se creerà confusione tra i tanti che vorranno cercare o scandagliare ragioni recondite, porterà la Chiesa in un nuovo orizzonte di speranza e di fiducia nel Pastore Supremo che ha fondato e guida sempre la sua Chiesa: Cristo Gesù. Come credenti ritroviamoci nella preghiera per Benedetto XVI: un atto di fede e di gratitudine per tutto ciò che ci ha donato in questi anni.
E preghiamo lo Spirito Santo perché questi giorni ci vedano più protesi a confermare la nostra fede nel Signore della Storia, che a seguire le prevedibili inchieste sul prossimo Papa”. Nella sua prima omelia in piazza San Pietro, Domenica 24 Aprile 2005, Benedetto XVI dichiara: “Per ben tre volte, in questi giorni così intensi, il canto delle litanie dei santi ci ha accompagnato: durante i funerali del nostro Santo Padre Giovanni Paolo II; in occasione dell’ingresso dei Cardinali in Conclave, ed anche oggi, quando le abbiamo nuovamente cantate con l’invocazione: Tu illum adiuva – sostieni il nuovo successore di San Pietro. Ogni volta in un modo del tutto particolare ho sentito questo canto orante come una grande consolazione. Quanto ci siamo sentiti abbandonati dopo la dipartita di Giovanni Paolo II! Il Papa che per ben 26 anni è stato nostro pastore e guida nel cammino attraverso questo tempo. Egli varcava la soglia verso l’altra vita – entrando nel mistero di Dio. Ma non compiva questo passo da solo. Chi crede, non è mai solo – non lo è nella vita e neanche nella morte. In quel momento noi abbiamo potuto invocare i santi di tutti i secoli – i suoi amici, i suoi fratelli nella fede, sapendo che sarebbero stati il corteo vivente che lo avrebbe accompagnato nell’aldilà, fino alla gloria di Dio. Noi sapevamo che il suo arrivo era atteso. Ora sappiamo che egli è fra i suoi ed è veramente a casa sua. Di nuovo, siamo stati consolati compiendo il solenne ingresso in Conclave, per eleggere colui che il Signore aveva scelto. Come potevamo riconoscere il suo nome? Come potevano 115 Vescovi, provenienti da tutte le culture ed i paesi, trovare colui al quale il Signore desiderava conferire la missione di legare e sciogliere? Ancora una volta, noi lo sapevamo: sapevamo che non siamo soli, che siamo circondati, condotti e guidati dagli amici di Dio. Ed ora, in questo momento, io debole servitore di Dio devo assumere questo compito inaudito, che realmente supera ogni capacità umana. Come posso fare questo? Come sarò in grado di farlo? Voi tutti, cari amici, avete appena invocato l’intera schiera dei santi, rappresentata da alcuni dei grandi nomi della storia di Dio con gli uomini. In tal modo, anche in me si ravviva questa consapevolezza: non sono solo. Non devo portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare da solo. La schiera dei santi di Dio mi protegge, mi sostiene e mi porta. E la Vostra preghiera, cari amici, la Vostra indulgenza, il Vostro amore, la Vostra fede e la Vostra speranza mi accompagnano. Infatti alla comunità dei santi non appartengono solo le grandi figure che ci hanno preceduto e di cui conosciamo i nomi. Noi tutti siamo la comunità dei santi, noi battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, noi che viviamo del dono della carne e del sangue di Cristo, per mezzo del quale egli ci vuole trasformare e renderci simili a se medesimo. Sì, la Chiesa è viva – questa è la meravigliosa esperienza di questi giorni. Proprio nei tristi giorni della malattia e della morte del Papa questo si è manifestato in modo meraviglioso ai nostri occhi: che la Chiesa è viva. E la Chiesa è giovane. Essa porta in sé il futuro del mondo e perciò mostra anche a ciascuno di noi la via verso il futuro. La Chiesa è viva e noi lo vediamo: noi sperimentiamo la gioia che il Risorto ha promesso ai suoi. La Chiesa è viva – essa è viva, perché Cristo è vivo, perché egli è veramente risorto. Nel dolore, presente sul volto del Santo Padre nei giorni di Pasqua, abbiamo contemplato il mistero della passione di Cristo ed insieme toccato le sue ferite. Ma in tutti questi giorni abbiamo anche potuto, in un senso profondo, toccare il Risorto. Ci è stato dato di sperimentare la gioia che egli ha promesso, dopo un breve tempo di oscurità, come frutto della sua resurrezione. La Chiesa è viva – così saluto con grande gioia e gratitudine voi tutti, che siete qui radunati, venerati Confratelli Cardinali e Vescovi, carissimi sacerdoti, diaconi,
operatori pastorali, catechisti. Saluto voi, religiosi e religiose, testimoni della trasfigurante presenza di Dio. Saluto voi, fedeli laici, immersi nel grande spazio della costruzione del Regno di Dio che si espande nel mondo, in ogni espressione della vita. Il discorso si fa pieno di affetto anche nel saluto che rivolgo a tutti coloro che, rinati nel sacramento del Battesimo, non sono ancora in piena comunione con noi; ed a voi fratelli del popolo ebraico, cui siamo legati da un grande patrimonio spirituale comune, che affonda le sue radici nelle irrevocabili promesse di Dio. Il mio pensiero, infine – quasi come un’onda che si espande – va a tutti gli uomini del nostro tempo, credenti e non credenti. Cari amici! In questo momento non ho bisogno di presentare un programma di governo. Qualche tratto di ciò che io considero mio compito, ho già potuto esporlo nel mio messaggio di mercoledì 20 aprile; non mancheranno altre occasioni per farlo. Il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia. Invece di esporre un programma io vorrei semplicemente cercare di commentare i due segni con cui viene rappresentata liturgicamente l’assunzione del Ministero Petrino; entrambi questi segni, del resto, rispecchiano anche esattamente ciò che viene proclamato nelle letture di oggi. Il primo segno è il Pallio, tessuto in pura lana, che mi viene posto sulle spalle. Questo antichissimo segno, che i Vescovi di Roma portano fin dal IV secolo, può essere considerato come un’immagine del giogo di Cristo, che il Vescovo di questa città, il Servo dei Servi di Dio, prende sulle sue spalle. Il giogo di Dio è la volontà di Dio, che noi accogliamo. E questa volontà non è per noi un peso esteriore, che ci opprime e ci toglie la libertà. Conoscere ciò che Dio vuole, conoscere qual è la via della vita – questa era la gioia di Israele, era il suo grande privilegio. Questa è anche la nostra gioia: la volontà di Dio non ci aliena, ci purifica – magari in modo anche doloroso – e così ci conduce a noi stessi. In tal modo, non serviamo soltanto Lui ma la salvezza di tutto il mondo, di tutta la storia. In realtà il simbolismo del Pallio è ancora più concreto: la lana d’agnello intende rappresentare la pecorella perduta o anche quella malata e quella debole, che il pastore mette sulle sue spalle e conduce alle acque della vita. La parabola della pecorella smarrita, che il pastore cerca nel deserto, era per i Padri della Chiesa un’immagine del mistero di Cristo e della Chiesa. L’umanità – noi tutti – è la pecora smarrita che, nel deserto, non trova più la strada. Il Figlio di Dio non tollera questo; Egli non può abbandonare l’umanità in una simile miserevole condizione. Balza in piedi, abbandona la gloria del cielo, per ritrovare la pecorella e inseguirla, fin sulla croce. La carica sulle sue spalle, porta la nostra umanità, porta noi stessi – Egli è il buon pastore, che offre la sua vita per le pecore. Il Pallio dice innanzitutto che tutti noi siamo portati da Cristo. Ma allo stesso tempo ci invita a portarci l’un l’altro. Così il Pallio diventa il simbolo della missione del pastore, di cui parlano la seconda lettura ed il Vangelo. La santa inquietudine di Cristo deve animare il pastore: per lui non è indifferente che tante persone vivano nel deserto. E vi sono tante forme di deserto. Vi è il deserto della povertà, il deserto della fame e della sete, vi è il deserto dell’abbandono, della solitudine, dell’amore distrutto. Vi è il deserto dell’oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino dell’uomo. I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi. Perciò i tesori della terra non sono più al servizio dell’edificazione del giardino di Dio, nel quale tutti possano vivere, ma sono asserviti alle potenze dello sfruttamento e della distruzione. La Chiesa nel suo insieme, ed i Pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso l’amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita, la vita in pienezza. Il simbolo dell’agnello ha ancora un altro aspetto. Nell’Antico Oriente era usanza che i re designassero se stessi come pastori del loro popolo. Questa era un’immagine del loro potere, un’immagine cinica: i popoli erano per loro come pecore, delle quali il pastore poteva disporre a suo piacimento. Mentre il pastore di tutti gli uomini, il Dio vivente, è divenuto lui stesso agnello, si è messo dalla parte degli agnelli, di coloro che sono calpestati e uccisi. Proprio così Egli si rivela come il vero pastore: “Io sono il buon pastore…Io offro la mia vita per le pecore”, dice Gesù di se stesso (Gv 10, 14s). Non è il potere che redime, ma l’amore! Questo è il segno di Dio: Egli stesso è amore. Quante volte noi desidereremmo che Dio si mostrasse più forte. Che Egli colpisse duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore. Tutte le ideologie del potere si giustificano così, giustificano la distruzione di ciò che si opporrebbe al progresso e alla liberazione dell’umanità. Noi soffriamo per la pazienza di Dio. E nondimeno abbiamo tutti bisogno della sua pazienza. Il Dio, che è divenuto agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori. Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall’impazienza degli uomini. Una delle caratteristiche fondamentali del pastore deve essere quella di amare gli uomini che gli sono stati affidati, così come ama Cristo, al cui servizio si trova. “Pasci le mie pecore”, dice Cristo a Pietro, ed a me, in questo momento. Pascere vuol dire amare, e amare vuol dire anche essere pronti a soffrire. Amare significa: dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio, della parola di Dio, il nutrimento della sua presenza, che egli ci dona nel Santissimo Sacramento. Cari amici – in questo momento io posso dire soltanto: pregate per me, perché io impari sempre più ad amare il Signore. Pregate per me, perché io impari ad amare sempre più il suo gregge – voi, la Santa Chiesa, ciascuno di voi singolarmente e voi tutti insieme. Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi. Preghiamo gli uni per gli altri, perché il Signore ci porti e noi impariamo a portarci gli uni gli altri. Il secondo segno, con cui viene rappresentato nella liturgia odierna l’insediamento nel Ministero Petrino, è la consegna dell’anello del pescatore. La chiamata di Pietro ad essere pastore, che abbiamo udito nel Vangelo, fa seguito alla narrazione di una pesca abbondante: dopo una notte, nella quale avevano gettato le reti senza successo, i discepoli vedono sulla riva il Signore Risorto. Egli comanda loro di tornare a pescare ancora una volta ed ecco che la rete diviene così piena che essi non riescono a tirarla su; 153 grossi pesci: “E sebbene fossero così tanti, la rete non si strappò” (Gv 21, 11). Questo racconto, al termine del cammino terreno di Gesù con i suoi discepoli, corrisponde ad un racconto dell’inizio: anche allora i discepoli non avevano pescato nulla durante tutta la notte; anche allora Gesù aveva invitato Simone ad andare al largo ancora una volta. E Simone, che ancora non era chiamato Pietro, diede la mirabile risposta: Maestro, sulla tua parola getterò le reti! Ed ecco il conferimento della missione: “Non temere! D’ora in poi sarai pescatore di uomini” (Lc 5, 1–11). Anche oggi viene detto alla Chiesa e ai successori degli apostoli di prendere il largo nel mare della storia e di gettare le reti, per conquistare gli uomini al Vangelo – a Dio, a Cristo, alla vera vita. I Padri hanno dedicato un commento molto particolare anche a questo singolare compito. Essi dicono così: per il pesce, creato per l’acqua, è mortale essere tirato fuori dal mare. Esso viene sottratto al suo elemento vitale per servire di nutrimento all’uomo. Ma nella missione del pescatore di uomini avviene il contrario. Noi uomini viviamo alienati, nelle acque salate della sofferenza e della morte; in un mare di oscurità senza luce. La rete del Vangelo ci tira fuori dalle acque della morte e ci porta nello splendore della luce di Dio, nella vera vita. E’ proprio così – nella missione di pescatore di uomini, al seguito di Cristo, occorre portare gli uomini fuori dal mare salato di tutte le alienazioni verso la terra della vita, verso la luce di Dio. E’ proprio così: noi esistiamo per mostrare Dio agli uomini. E solo laddove si vede Dio, comincia veramente la vita. Solo quando incontriamo in Cristo il Dio vivente, noi conosciamo che cosa è la vita. Non siamo il prodotto casuale e senza senso dell’evoluzione. Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è amato, ciascuno è necessario. Non vi è niente di più bello che essere raggiunti, sorpresi dal Vangelo, da Cristo. Non vi è niente di più bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l’amicizia con lui. Il compito del pastore, del pescatore di uomini può spesso apparire faticoso. Ma è bello e grande, perché in definitiva è un servizio alla gioia, alla gioia di Dio che vuol fare il suo ingresso nel mondo. Vorrei qui rilevare ancora una cosa: sia nell’immagine del pastore che in quella del pescatore emerge in modo molto esplicito la chiamata all’unità. “Ho ancora altre pecore, che non sono di questo ovile; anch’esse io devo condurre ed ascolteranno la mia voce e diverranno un solo gregge e un solo pastore” (Gv 10, 16), dice Gesù al termine del discorso del buon pastore. E il racconto dei 153 grossi pesci termina con la gioiosa constatazione: “sebbene fossero così tanti, la rete non si strappò” (Gv 21, 11). Ahimè, amato Signore, essa ora si è strappata! vorremmo dire addolorati. Ma no – non dobbiamo essere tristi! Rallegriamoci per la tua promessa, che non delude, e facciamo tutto il possibile per percorrere la via verso l’unità, che tu hai promesso. Facciamo memoria di essa nella preghiera al Signore, come mendicanti: sì, Signore, ricordati di quanto hai promesso. Fa’ che siamo un solo pastore ed un solo gregge! Non permettere che la tua rete si strappi ed aiutaci ad essere servitori dell’unità! In questo momento il mio ricordo ritorna al 22 ottobre 1978, quando Papa Giovanni Paolo II iniziò il suo ministero qui sulla Piazza di San Pietro. Ancora, e continuamente, mi risuonano nelle orecchie le sue parole di allora: “Non abbiate paura, aprite anzi spalancate le porte a Cristo!” Il Papa parlava ai forti, ai potenti del mondo, i quali avevano paura che Cristo potesse portar via qualcosa del loro potere, se lo avessero lasciato entrare e concesso la libertà alla fede. Sì, egli avrebbe certamente portato via loro qualcosa: il dominio della corruzione, dello stravolgimento del diritto, dell’arbitrio. Ma non avrebbe portato via nulla di ciò che appartiene alla libertà dell’uomo, alla sua dignità, all’edificazione di una società giusta. Il Papa parlava inoltre a tutti gli uomini, soprattutto ai giovani. Non abbiamo forse tutti in qualche modo paura – se lasciamo entrare Cristo totalmente dentro di noi, se ci apriamo totalmente a lui – paura che Egli possa portar via qualcosa della nostra vita? Non abbiamo forse paura di rinunciare a qualcosa di grande, di unico, che rende la vita così bella? Non rischiamo di trovarci poi nell’angustia e privati della libertà? Ed ancora una volta il Papa voleva dire: no! chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla – assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande. No! solo in quest’amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in quest’amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Solo in quest’amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera. Così, oggi, io vorrei, con grande forza e grande convinzione, a partire dall’esperienza di una lunga vita personale, dire a voi, cari giovani: non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo – e troverete la vera vita. Amen”. Nell’udienza generale di Mercoledì 27 Aprile 2005, Benedetto XVI dichiara: “Sono lieto di accogliervi e rivolgo un cordiale saluto a quanti siete qui presenti, come pure a coloro che ci seguono mediante la radio e la televisione. Come ho già espresso nel primo incontro con i Signori Cardinali, proprio mercoledì della settimana scorsa nella Cappella Sistina, sperimento nell’animo sentimenti tra loro contrastanti in questi giorni d’inizio del mio ministero petrino: stupore e gratitudine nei confronti di Dio che ha sorpreso innanzitutto me stesso, chiamandomi a succedere all’apostolo Pietro; interiore trepidazione dinanzi alla grandezza del compito e delle responsabilità che mi sono state affidate. Mi dà però serenità e gioia la certezza dell’aiuto di Dio, della sua Madre Santissima, la Vergine Maria, e dei santi Protettori; mi è di sostegno anche la vicinanza spirituale dell’intero Popolo di Dio al quale, come domenica scorsa ho avuto modo di ripetere, continuo a chiedere di accompagnarmi con insistente preghiera. Dopo la pia dipartita del mio venerato predecessore Giovanni Paolo II, riprendono quest’oggi le tradizionali Udienze generali del mercoledì. Ritorniamo così nella normalità. In questo primo incontro vorrei anzitutto soffermarmi sul nome che ho scelto divenendo Vescovo di Roma e Pastore universale della Chiesa. Ho voluto chiamarmi Benedetto XVI per riallacciarmi idealmente al venerato Pontefice Benedetto XV, che ha guidato la Chiesa in un periodo travagliato a causa del primo conflitto mondiale. Fu coraggioso e autentico profeta di pace e si adoperò con strenuo coraggio dapprima per evitare il dramma della guerra e poi per limitarne le conseguenze nefaste. Sulle sue orme desidero porre il mio ministero a servizio della riconciliazione e dell’armonia tra gli uomini e i popoli, profondamente convinto che il grande bene della pace è innanzitutto dono di Dio, dono purtroppo fragile e prezioso da invocare, tutelare e costruire giorno dopo giorno con l’apporto di tutti. Il nome Benedetto evoca, inoltre, la straordinaria figura del grande “Patriarca del monachesimo occidentale”, san Benedetto da Norcia, compatrono d’Europa insieme ai santi Cirillo e Metodio e le sante donne Brigida di Svezia, Caterina da Siena ed Edith Stein. La progressiva espansione dell’Ordine benedettino da lui fondato ha esercitato un influsso enorme nella diffusione del cristianesimo in tutto il Continente. San Benedetto è perciò molto venerato anche in Germania e, in particolare, nella Baviera, la mia terra d’origine; costituisce un fondamentale punto di riferimento per l’unità dell’Europa e un forte richiamo alle irrinunciabili radici cristiane della sua cultura e della sua civiltà. Di questo Padre del Monachesimo occidentale conosciamo la raccomandazione lasciata ai monaci nella sua Regola: “Nulla assolutamente antepongano a Cristo” (Regola 72,11; cfr 4,21). All’inizio del mio servizio come Successore di Pietro chiedo a san Benedetto di aiutarci a tenere ferma la centralità di Cristo nella nostra esistenza. Egli sia sempre al primo posto nei nostri pensieri e in ogni nostra attività! Ritorna con affetto il mio pensiero al venerato predecessore Giovanni Paolo II , al quale siamo debitori di una straordinaria eredità spirituale. “Le nostre comunità cristiane – ha scritto nella Lettera Apostolica Novo millennio ineunte – devono diventare autentiche scuole di preghiera, dove l’incontro con Cristo non si esprima soltanto in implorazione di aiuto, ma anche in rendimento di grazie, lode, adorazione, contemplazione, ascolto, ardore di affetti, fino ad un vero invaghimento del cuore – così il Papa Giovanni Paolo II” (n. 33). Queste indicazioni ha cercato di porre in atto egli stesso dedicando le catechesi del mercoledì degli ultimi tempi al commento dei Salmi delle Lodi e dei Vespri. Come egli fece all’inizio del suo pontificato, quando volle proseguire le riflessioni avviate dal suo Predecessore sulle virtù cristiane (cfr Insegnamenti di Giovanni Paolo II, I [1978], pp. 60-63), così anch’io intendo riproporre nei prossimi appuntamenti settimanali il commento da lui preparato sulla seconda parte dei Salmi e Cantici che compongono i Vespri…Cari Amici, grazie di nuovo per la vostra visita, grazie per l’affetto di cui mi circondate. Sono sentimenti che ricambio cordialmente con una speciale benedizione, che imparto a voi qui presenti, ai vostri familiari e a tutte le persone care”. Nel penultimo Angelus, Domenica 17 Febbraio 2013, Benedetto XVI, dichiara che “con il tradizionale Rito delle Ceneri, siamo entrati nella Quaresima, tempo di conversione e di penitenza in preparazione alla Pasqua. La Chiesa, che è madre e maestra, chiama tutti i suoi membri a rinnovarsi nello spirito, a ri-orientarsi decisamente verso Dio, rinnegando l’orgoglio e l’egoismo per vivere nell’amore. In questo Anno della fede la Quaresima è un tempo favorevole per riscoprire la fede in Dio come criterio-base della nostra vita e della vita della Chiesa. Ciò comporta sempre una lotta, un combattimento spirituale, perché lo spirito del male naturalmente si oppone alla nostra santificazione e cerca di farci deviare dalla via di Dio. Per questo, nella prima domenica di Quaresima, viene proclamato ogni anno il Vangelo delle tentazioni di Gesù nel deserto. Gesù infatti, dopo aver ricevuto l’“investitura” come Messia – “Unto” di Spirito Santo – al battesimo nel Giordano, fu condotto dallo stesso Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo. Al momento di iniziare il suo ministero pubblico, Gesù dovette smascherare e respingere le false immagini di Messia che il tentatore gli proponeva. Ma queste tentazioni sono anche false immagini dell’uomo, che in ogni tempo insidiano la coscienza, travestendosi da proposte convenienti ed efficaci, addirittura buone. Gli evangelisti Matteo e Luca presentano tre tentazioni di Gesù, diversificandosi in parte solo per l’ordine. Il loro nucleo centrale consiste sempre nello strumentalizzare Dio per i propri interessi, dando più importanza al successo o ai beni materiali. Il tentatore è subdolo: non spinge direttamente verso il male, ma verso un falso bene, facendo credere che le vere realtà sono il potere e ciò che soddisfa i bisogni primari. In questo modo, Dio diventa secondario, si riduce a un mezzo, in definitiva diventa irreale, non conta più, svanisce. In ultima analisi, nelle tentazioni è in gioco la fede, perché è in gioco Dio. Nei momenti decisivi della vita, ma, a ben vedere, in ogni momento, siamo di fronte a un bivio: vogliamo seguire l’io o Dio? L’interesse individuale oppure il vero Bene, ciò che realmente è bene? Come ci insegnano i Padri della Chiesa, le tentazioni fanno parte della “discesa” di Gesù nella nostra condizione umana, nell’abisso del peccato e delle sue conseguenze. Una “discesa” che Gesù ha percorso sino alla fine, sino alla morte di croce e agli inferi dell’estrema lontananza da Dio. In questo modo, Egli è la mano che Dio ha teso all’uomo, alla pecorella smarrita, per riportarla in salvo. Come insegna sant’Agostino, Gesù ha preso da noi le tentazioni, per donare a noi la sua vittoria (cfr Enarr. in Psalmos, 60,3: PL 36, 724). Non abbiamo dunque paura di affrontare anche noi il combattimento contro lo spirito del male: l’importante è che lo facciamo con Lui, con Cristo, il Vincitore. E per stare con Lui rivolgiamoci alla Madre, Maria: invochiamola con fiducia filiale nell’ora della prova, e lei ci farà sentire la potente presenza del suo Figlio divino, per respingere le tentazioni con la Parola di Cristo, e così rimettere Dio al centro della nostra vita”. Nell’omelia del Mercoledì delle Ceneri del 13 Febbraio 2013, il Santo Padre dichiara:“Oggi, Mercoledì delle Ceneri, iniziamo un nuovo cammino quaresimale, un cammino che si snoda per quaranta giorni e ci conduce alla gioia della Pasqua del Signore, alla vittoria della Vita sulla morte. Seguendo l’antichissima tradizione romana delle stationes quaresimali, ci siamo radunati oggi per la Celebrazione dell’Eucaristia. Tale tradizione prevede che la prima statio abbia luogo nella Basilica di Santa Sabina sul colle Aventino. Le circostanze hanno suggerito di radunarsi nella Basilica Vaticana. Siamo numerosi intorno alla Tomba dell’Apostolo Pietro anche a chiedere la sua intercessione per il cammino della Chiesa in questo particolare momento, rinnovando la nostra fede nel Pastore Supremo, Cristo Signore. Per me è un’occasione propizia per ringraziare tutti, specialmente i fedeli della Diocesi di Roma, mentre mi accingo a concludere il ministero petrino, e per chiedere un particolare ricordo nella preghiera. Le Letture che sono state proclamate ci offrono spunti che, con la grazia di Dio, siamo chiamati a far diventare atteggiamenti e comportamenti concreti in questa Quaresima. La Chiesa ci ripropone, anzitutto, il forte richiamo che il profeta Gioele rivolge al popolo di Israele: «Così dice il Signore: ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti» (2,12). Va sottolineata l’espressione «con tutto il cuore», che significa dal centro dei nostri pensieri e sentimenti, dalle radici delle nostre decisioni, scelte e azioni, con un gesto di totale e radicale libertà. Ma è possibile questo ritorno a Dio? Sì, perché c’è una forza che non risiede nel nostro cuore, ma che si sprigiona dal cuore stesso di Dio. E’ la forza della sua misericordia. Dice ancora il profeta: «Ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male» (v.13). Il ritorno al Signore è possibile come ‘grazia’, perché è opera di Dio e frutto della fede che noi riponiamo nella sua misericordia. Questo ritornare a Dio diventa realtà concreta nella nostra vita solo quando la grazia del Signore penetra nell’intimo e lo scuote donandoci la forza di «lacerare il cuore». E’ ancora il profeta a far risuonare da parte di Dio queste parole: «Laceratevi il cuore e non le vesti» (v.13). In effetti, anche ai nostri giorni, molti sono pronti a “stracciarsi le vesti” di fronte a scandali e ingiustizie – naturalmente commessi da altri –, ma pochi sembrano disponibili ad agire sul proprio “cuore”, sulla propria coscienza e sulle proprie intenzioni, lasciando che il Signore trasformi, rinnovi e converta. Quel «ritornate a me con tutto il cuore», poi, è un richiamo che coinvolge non solo il singolo, ma la comunità. Abbiamo ascoltato sempre nella prima Lettura: «Suonate il corno in Sion, proclamate un solenne digiuno, convocate una riunione sacra. Radunate il popolo, indite un’assemblea solenne, chiamate i vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera e la sposa dal suo talamo» (vv.15-16). La dimensione comunitaria è un elemento essenziale nella fede e nella vita cristiana. Cristo è venuto «per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (cfr Gv 11,52). Il “Noi” della Chiesa è la comunità in cui Gesù ci riunisce insieme (cfr Gv 12,32): la fede è necessariamente ecclesiale. E questo è importante ricordarlo e viverlo in questo Tempo della Quaresima: ognuno sia consapevole che il cammino penitenziale non lo affronta da solo, ma insieme con tanti fratelli e sorelle, nella Chiesa. Il profeta, infine, si sofferma sulla preghiera dei sacerdoti, i quali, con le lacrime agli occhi, si rivolgono a Dio dicendo: «Non esporre la tua eredità al ludibrio e alla derisione delle genti. Perché si dovrebbe dire fra i popoli: “Dov’è il loro Dio?”» (v.17). Questa preghiera ci fa riflettere sull’importanza della testimonianza di fede e di vita cristiana di ciascuno di noi e delle nostre comunità per manifestare il volto della Chiesa e come questo volto venga, a volte, deturpato. Penso in particolare alle colpe contro l’unità della Chiesa, alle divisioni nel corpo ecclesiale. Vivere la Quaresima in una più intensa ed evidente comunione ecclesiale, superando individualismi e rivalità, è un segno umile e prezioso per coloro che sono lontani dalla fede o indifferenti. «Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!» (2 Cor 6,2). Le parole dell’apostolo Paolo ai cristiani di Corinto risuonano anche per noi con un’urgenza che non ammette assenze o inerzie. Il termine “ora” ripetuto più volte dice che questo momento non può essere lasciato sfuggire, esso viene offerto a noi come un’occasione unica e irripetibile. E lo sguardo dell’Apostolo si concentra sulla condivisione con cui Cristo ha voluto caratterizzare la sua esistenza, assumendo tutto l’umano fino a farsi carico dello stesso peccato degli uomini. La frase di san Paolo è molto forte: Dio «lo fece peccato in nostro favore». Gesù, l’innocente, il Santo, «Colui che non aveva conosciuto peccato» (2 Cor 5,21), si fa carico del peso del peccato condividendone con l’umanità l’esito della morte, e della morte di croce. La riconciliazione che ci viene offerta ha avuto un prezzo altissimo, quello della croce innalzata sul Golgota, su cui è stato appeso il Figlio di Dio fatto uomo. In questa immersione di Dio nella sofferenza umana e nell’abisso del male sta la radice della nostra giustificazione. Il «ritornare a Dio con tutto il cuore» nel nostro cammino quaresimale passa attraverso la Croce, il seguire Cristo sulla strada che conduce al Calvario, al dono totale di sé. E’ un cammino in cui imparare ogni giorno ad uscire sempre più dal nostro egoismo e dalle nostre chiusure, per fare spazio a Dio che apre e trasforma il cuore. E san Paolo ricorda come l’annuncio della Croce risuoni a noi grazie alla predicazione della Parola, di cui l’Apostolo stesso è ambasciatore; un richiamo per noi affinché questo cammino quaresimale sia caratterizzato da un ascolto più attento e assiduo della Parola di Dio, luce che illumina i nostri passi. Nella pagina del Vangelo di Matteo, che appartiene al cosiddetto Discorso della montagna, Gesù fa riferimento a tre pratiche fondamentali previste dalla Legge mosaica: l’elemosina, la preghiera e il digiuno; sono anche indicazioni tradizionali nel cammino quaresimale per rispondere all’invito di «ritornare a Dio con tutto il cuore». Ma Gesù sottolinea come sia la qualità e la verità del rapporto con Dio ciò che qualifica l’autenticità di ogni gesto religioso. Per questo Egli denuncia l’ipocrisia religiosa, il comportamento che vuole apparire, gli atteggiamenti che cercano l’applauso e l’approvazione. Il vero discepolo non serve se stesso o il “pubblico”, ma il suo Signore, nella semplicità e nella generosità: «E il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,4.6.18). La nostra testimonianza allora sarà sempre più incisiva quanto meno cercheremo la nostra gloria e saremo consapevoli che la ricompensa del giusto è Dio stesso, l’essere uniti a Lui, quaggiù, nel cammino della fede, e, al termine della vita, nella pace e nella luce dell’incontro faccia a faccia con Lui per sempre (cfr 1 Cor 13,12). Cari fratelli e sorelle, iniziamo fiduciosi e gioiosi l’itinerario quaresimale. Risuoni forte in noi l’invito alla conversione, a «ritornare a Dio con tutto il cuore», accogliendo la sua grazia che ci fa uomini nuovi, con quella sorprendente novità che è partecipazione alla vita stessa di Gesù. Nessuno di noi, dunque, sia sordo a questo appello, che ci viene rivolto anche nell’austero rito, così semplice e insieme così suggestivo, dell’imposizione delle ceneri, che tra poco compiremo. Ci accompagni in questo tempo la Vergine Maria, Madre della Chiesa e modello di ogni autentico discepolo del Signore. Amen!”. La Chiesa di Cristo è sempre la stessa ieri, oggi e domani. La Chiesa non è degli uomini. È una realtà celeste sulla Terra fino alla fine dei tempi ovvero fino al ritorno di Gesù nella Gloria, a sugello dell’Alleanza tra Dio e gli uomini. Un patto eterno che potremmo anche umanamente “visualizzare” (Gesù non ha donato anelli!) nel famoso Anello del Pescatore: il sigillo papale, diverso per ogni Santo Padre, che esprime questo intimo legame soprannaturale tra il Cielo e la Terra. Ogni Papa ha la sua vocazione particolare ma la Chiesa appartiene a Gesù, il Figlio de Dio Vivente, vero Dio e vero Uomo, che nel carisma di Pietro svela il ministero petrino a chi è degno di riceverne l’Ufficio. Non esiste una Chiesa “conservatrice” o un Papa “conservatore” in opposizione a una versione “liberal” più compiacente. È palesemente assurdo. I media, i finti sacerdoti, i capi di stato e le multinazionali pro gay, pro divorzio, pro unioni di fatto e pro aborto contraccettivo (milioni di vittime innocenti ogni anno), che ignorano le sacre scritture, farebbero bene ad aggiornarsi. Gli esercizi spirituali del Santo Padre sono di esempio per tutti i fedeli. Nella prima delle 17 meditazioni previste, il cardinale Gianfranco Ravasi ha proposto un’immagine biblica per rappresentare il futuro della presenza di Benedetto XVI nella Chiesa, una presenza contemplativa, come quella di Mosè che sale sul monte a pregare per il popolo d’Israele che giù nella valle combatte contro Amalek:“Questa immagine rappresenta la funzione principale – sua – per la Chiesa, cioè l’intercessione, intercedere: noi rimarremo nella `valle´, quella valle dove c’è Amalek, dove c’è la polvere, dove ci sono le paure, i terrori anche, gli incubi, ma anche le speranza, dove lei è rimasto in questi otto anni con noi. D’ora in avanti, però, noi sapremo che, sul monte, c’è la sua intercessione per noi”. Toni biblici che nel Conclave illumineranno i Padri Cardinali per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice, e che ispirano già ora tutto il loro potenziale. Grazie Santità!
Nicola Facciolini