Un uomo di 41 anni con infezione da Hiv-1 in stadio avanzato è rimasto positivo al SARS-CoV-2 per 750 giorni, il periodo più lungo finora documentato. Il caso clinico, descritto sul The Lancet Microbe dagli studiosi dell’Università di Boston, attribuisce la persistenza del virus allo stato di immunodepressione del paziente.
Secondo lo studio, il 41enne ha contratto il Covid-19 nel maggio 2020, nel pieno del lockdown, senza poter accedere alle cure antiretrovirali per l’Hiv. Da marzo 2021 a luglio 2022 la bioinformatica Joseline Velasquez-Reyes e il suo team hanno prelevato e analizzato campioni virali prelevati dal paziente, monitorando l’evoluzione del virus nell’arco di oltre due anni.
L’analisi genetica ha rivelato un accumulo di mutazioni a un ritmo paragonabile a quello osservato nella trasmissione comunitaria. In particolare, sono state individuate numerose variazioni nella proteina Spike: dieci di queste mutazioni coincidono con posizioni analoghe a quelle caratteristiche della variante Omicron. Ciò dimostra che, all’interno di un singolo ospite, il coronavirus può dar luogo a modificazioni simili a quelle emergenti su scala globale.
I ricercatori sottolineano che la carica virale si è mantenuta stabile anche a fronte dei bassissimi livelli di cellule T helper nel paziente (35 per microlitro di sangue, contro i 500-1.500 tipici di un individuo sano). Non si tratta quindi di Long Covid, fenomeno post-positivo caratterizzato da strascichi come difficoltà di memoria o sintomi respiratori, bensì di una replicazione virale continua che ha causato sintomi respiratori persistenti.