Condannata la Germania: risarcimento agli eredi di un soldato italiano internato nel 1943

Il tribunale civile di Roma ha riconosciuto un risarcimento di 82.318 euro ai figli di Dino Pozzato, militare italiano catturato il 12 settembre 1943 in Albania dopo l’Armistizio e sottoposto a prolungata detenzione nei campi di concentramento nazisti. Appartenente al 12° reggimento fanteria, Pozzato venne impiegato in lavori forzati in un sottocampo di Mauthausen, quindi […]

Il tribunale civile di Roma ha riconosciuto un risarcimento di 82.318 euro ai figli di Dino Pozzato, militare italiano catturato il 12 settembre 1943 in Albania dopo l’Armistizio e sottoposto a prolungata detenzione nei campi di concentramento nazisti. Appartenente al 12° reggimento fanteria, Pozzato venne impiegato in lavori forzati in un sottocampo di Mauthausen, quindi trasferito allo Stalag XVII e infine a Holzhausen, fino al suo rimpatrio il 5 giugno 1945.

La giudice Assunta Canonaco ha fondato la decisione sul fatto che il Terzo Reich classificò i militari italiani come Imi (internati militari italiani, italienische militarinternierte), escludendoli dalle garanzie previste dalle Convenzioni di Ginevra e privandoli delle tutele riservate ai prigionieri di guerra. Per il tribunale, questa sottrazione di protezioni costituisce prova della condizione di vulnerabilità a cui furono sottoposti gli internati.

È stato inoltre accertato il mancato rispetto delle norme internazionali e l’imposizione di condizioni assimilabili a una sostanziale schiavitù. La sentenza richiama il riconoscimento istituzionale della condizione degli internati militari, sancito da una legge del 2025 che ha istituito per il 20 settembre una giornata dedicata e definisce “storicamente acquisita” la natura disumana di quei trattamenti, tanto da far parlare gli studiosi di “schiavi militari”.

Sulla base di questi elementi, il tribunale ha qualificato la vicenda come crimine di guerra, riconoscendo il danno non patrimoniale per le sofferenze fisiche e morali subite da Pozzato dall’arresto fino alla liberazione. Il militare, originario del Rodigino, non si riprese mai dalle conseguenze della prigionia e nel 1982 si tolse la vita.

I familiari sono stati assistiti dall’avvocato Fabio Anselmo. “È una vicenda drammatica che ha devastato una famiglia, come tante altre. Sono soddisfatto per questa sentenza – afferma il legale – in questo contesto storico e sociale è estremamente significativo, non solo sul piano giudiziario, che ci possano essere condanne che riconoscano un crimine di guerra”.

Nel diritto internazionale, trattamenti inumani, schiavitù e deportazioni rientrano tra le violazioni punite dalle Convenzioni di Ginevra e dallo Statuto della Corte penale internazionale (CPI). La Terza Convenzione di Ginevra del 1949, all’articolo 13, tutela la persona del detenuto e vieta qualsiasi forma di violenza; l’articolo 14 protegge l’onore e la dignità, mentre l’articolo 17 proibisce maltrattamenti e intimidazioni. Lo Statuto della CPI, all’articolo 8, configura come crimini di guerra gli atti crudeli e la riduzione in schiavitù commessi contro persone protette; l’articolo 7 include tra i crimini contro l’umanità la riduzione in schiavitù, la persecuzione e gli atti disumani diretti contro civili in un contesto di attacco esteso o sistematico. Queste norme costituiscono oggi il riferimento centrale per qualificare giuridicamente le violazioni dei diritti fondamentali durante i conflitti armati.