LA QUESTIONE ENERGETICA: COSA C’E’ DIETRO ALLA GENEROSITA’ SOCIALE E SPORTIVA DEGLI ENTI ELETTRICI?

L’indagine annuale sulla sostenibilità urbana di Legambiente, Sole 24 Ore e Ambiente Italia colloca Brindisi all’87° posto nella graduatoria sulla vivibilità ambientale delle città capoluogo di provincia. Brindisi diviene così il fanalino di coda delle città pugliesi con un calo di 18 posti rispetto alla graduatoria dell’anno precedente.Ma c’è di più e cioè che la […]

L’indagine annuale sulla sostenibilità urbana di Legambiente, Sole 24 Ore e Ambiente Italia colloca Brindisi all’87° posto nella graduatoria sulla vivibilità ambientale delle città capoluogo di provincia. Brindisi diviene così il fanalino di coda delle città pugliesi con un calo di 18 posti rispetto alla graduatoria dell’anno precedente.Ma c’è di più e cioè che la situazione di Brindisi è esposta al rischio di un drammatico aggravamento sia per la perdurante determinazione di realizzare il rigassificatore e sia per la scelta degli enti elettrici di non ridurre l’impiego del carbone.
In questo preoccupante quadro si è tornato in questi giorni a parlare di convenzioni tra gli Enti locali e le industrie energetiche: quelle del 2003 che, assunte in condizioni di discutibile legittimità, cancellano la convenzione del 1996 tutelando gli interessi delle società elettriche. Uno strumento, quello delle convenzioni, che nonostante le deludenti esperienze del passato, può, se bene utilizzato, apportare benefici all’economia locale vincolando le aziende a comportamenti che possano favorirla in maniera privilegiata.
Su questo argomento è intervenuta la Confederazione Nazionale dell’Artigianato e delle Piccole e medie Imprese (CNA) la quale in un recente comunicato lamentava che le commesse delle centrali sono appannaggio di aziende extra-provinciali, spesso con ribassi di prezzo notevoli. Quale rimedio a questa situazione la CNA riteneva necessario che si definissero senza ulteriori esitazione le convenzioni.
Va allora colta l’occasione fornita dalla riapertura della discussione su questo importante argomento per affrontare la questione energetica a Brindisi non solo, come abbiamo spesso fatto in questi anni, dal punto di vista ambientale, ma anche dal punto di vista economico e quindi cercando di comprendere quale sia il reale utile per le aziende e per la collettività: argomento questo non sempre messo nel dovuto rilievo.
Sulla base dei bilanci pubblicati dall’Enel apprendiamo, per esempio, che il gruppo nel suo complesso in anni recenti ha fatto registrare un utile netto annuo di 4 miliardi di euro. Ammettendo che i Megawatt prodotti abbiano lo stesso costo indipendentemente dal combustile impiegato (cosa opinabile essendo il carbone il combustibile meno costoso) la Centrale di Brindisi dovrebbe produrre per gli azionisti un utile di circa 150-200 milioni (naturalmente ci farebbe piacere essere corretti se le nostre stime dovessero essere sbagliate in difetto o in eccesso). Se è vero che l’Enel impiega a Brindisi (secondo quanto l’ente sostiene) 470 dipendenti e fornisce lavoro a 800 lavoratori dell’indotto, il reddito da lavoro dipendente dovrebbe aggirarsi sui i 30 e 40 milioni. Sulla base di quanto dice CNA, però, non è tutto reddito che va a Brindisi, anzi proprio questo è il nodo della lamentela.
Gli stessi conteggi si potrebbero fare per Edipower ed Enipower dove i numeri sono alquanto più piccoli. Questo reddito dovrebbe compensare e possibilmente superare quello che si sarebbe potuto produrre con quell’agricoltura, quel turismo e quella quota di trasporti navali che sono stati compressi a favore dell’industria energetica.
Inoltre, poiché Brindisi (con Carovigno, Torchiarolo e San Pietro) appartiene all’area a rischio di crisi ambientale anche in virtù della presenza dell’industria energetica, sarebbe utile trasformare il danno sanitario ed ambientale in danno economico. Se nei maschi del capoluogo, solo per fare un esempio, si registra una mortalità del 5% in più rispetto alla media regionale ciò vuol dire che delle 320 morti medie annue (dato riferito al 2001 e successivamente superato) 15-20 sarebbero da attribuire all’area di crisi. A queste vanno aggiunte le malattie che sono ovviamente più numerose delle morti ed i loro costi sociali (sanitari, assicurativi, lavoro perso ecc.), nonché i costi degli infortuni e delle patologie professionali. Poi ci sono gli inquinamenti delle falde con l’impossibilità di usare le acque, l’aumento della temperatura delle acque marine, la qualità del pescato e degli alimenti. Dati tutti questi la cui raccolta potrebbe essere meritoriamente curata dalla ASL e dall’Arpa, dagli economisti sanitari e dagli operatori economici del settore interessato.
Purtroppo è sgradevole trasformare uomini e donne in carne ed ossa in numeri ma occorre ribadire che al tavolo delle convenzioni non ci si potrà sedere senza tener conto degli errori del passato ed al solo fine di ottenere una corsia preferenziale per gli appalti alle imprese locali. Il fine, se mai, deve essere quello di ottenere compensazioni e di arginare i costi collettivi.
E non si potrà aprire la trattativa se gli enti elettrici non assumeranno preventivamente l’impegno a rispettare gli obiettivi fissati dall’Unione Europea per il 2020: – il 20% di riduzione di CO2 rispetto al 1990, da ottenere in primo luogo contestualmente alla riduzione del carbone combusto (tra – 25% e – 30%) ed un recupero significativo di efficienza (con rendimento da far crescere di almeno il 20%). Vanno allora opportunamente e compiutamente calcolati, i costi collettivi che si sopportano per fornire agli azionisti delle aziende energetiche centinaia di milioni di utili. Forse così si potrà anche capire che cosa c’è dietro ai costi collettivi e quanto pesa su di essi tanta generosità sociale e sportiva.

Francesco Marcio Serinelli

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