I grandi segni della Chiamata di Dio per la Chiesa.

In quanto battezzati, Dio ci chiama tutti all’autentica e vera felicità. L’amore, quello vero e non sentimentale, è volere il bene (non il male, nel vizio) del nostro prossimo. Bene, un giovane che deve fare se scopre la chiamata “speciale” di Dio? Oggi il cuore dei giovani, se non assediato da mille distrazioni, è tormentato […]

In quanto battezzati, Dio ci chiama tutti all’autentica e vera felicità. L’amore, quello vero e non sentimentale, è volere il bene (non il male, nel vizio) del nostro prossimo. Bene, un giovane che deve fare se scopre la chiamata “speciale” di Dio? Oggi il cuore dei giovani, se non assediato da mille distrazioni, è tormentato e diviso. Servire il Signore nella professione e nel matrimonio (magari con una ragazza religiosa, saggia, intelligente e carina) per la fondazione della “chiesa domestica” o seguire la strada che conduce al Sacerdozio ministeriale? La domanda ricorrente è: che cos’è la mia vocazione? Come arriva una vocazione sacerdotale o religiosa, una chiamata di Dio? In primis, bisogna andare alla “fonte” dell’Acqua Viva, della Vita stessa. Gesù di Nazareth, il Cristo. Insomma, lasciare la propria professione per dedicarsi totalmente a Dio ed al prossimo nel sacerdozio, non è un semplice esercizio di rinuncia alle comodità né la manifestazione di una necessità di ordine naturale. Ma non è neanche molto complicato. La “chiamata” di Dio è uguale per tutti? Può arrivare come un fulmine “a ciel sereno” nel modo simile a un innamoramento? Le chiamate di Dio “si sentono”, “si vedono”, “si ascoltano” direttamente o indirettamente magari attraverso persone? Che significa “fare il prete” in una Parrocchia? Che si diventa come don Matteo e don Camillo, magari per “comandare” una Parrocchia, assumere il ruolo di “detective” nella soluzione di casi complicati o, forse, di “capo” della società? Il sacerdozio è una professione o cosa? Il carattere particolare e straordinario della chiamata di Dio, diretta o indiretta che sia, indica chiaramente che non si diventa predi, frati, religiosi e religiose, per soddisfare ambizioni e traguardi personali, magari per protagonismo.

La chiamata è una precisa e chiara predisposizione al Sommo Bene. Il matrimonio tra un uomo e una donna, sia chiaro, come ci ricorda la Bibbia, è anch’essa una vocazione speciale se Dio la vuole per il nostro bene: in effetti, per certi aspetti, il matrimonio è “la prima” delle vocazioni a cui siamo chiamati fin da giovanissimi. E’ la fondamentale e naturale scelta che Dio ci pone nella vita per servire nella procreazione il genere umano. Sposarsi, per vivere la fede nella chiesa domestica, è un dovere altissimo e nobilissimo cui bisogna prepararsi con un cammino che la Chiesa Cattolica Romana prevede. Dunque, un percorso non meno “faticoso”. E per diventare sacerdote, ossia Servo di Dio nel mondo, che bisogna fare? Per raggiungere la meta, bisogna avere nel cuore la chiamata di Dio che avviene sempre in maniera misteriosa, unica, originale, speciale, magnifica e fulminante. Pensiamo alla grande chiamata del Patriarca Abramo. Si legge nella Sacra Bibbia: “Il Signore disse ad Abramo: «Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione” (Gen 12,1-2). Dio “parla” ad Abramo, ma non sappiamo in che modo: a voce, nel cuore, nella mente? E’ interessante che Dio possa esprimersi e parlare a ciascuno di noi in tante maniere, usando i linguaggi e i mezzi più graditi. Certo, tutti vorremmo che Dio si facesse sentire come nel sonno da Samuele, oppure con una voce possente che “tuona” direttamente dal cielo, come nel caso di san Paolo. Ma non dobbiamo tentare il Signore Nostro Dio. E’ Primo Comandamento inciso sulla roccia per Mosè e il Popolo Eletto. Altre volte, poi, e questo è il caso più comune, il Signore chiama in maniera silenziosa, creando un certo “trasporto” verso il sacerdozio o la vita consacrata. Accade nella preghiera intensa del cuore, magari durante un’Adorazione Eucaristica o una Messa, oggi poco seguite dai giovani. In questo caso la vocazione può farsi “sentire” in maniera straordinaria. Generalmente non avviene così. Un grande padre Domenicano francese, fra’ Sertillanges, diceva che “la vocazione è quello che uno è”. La vocazione nasce, cioè, da quello che uno è nelle sue doti di natura e di grazia; da quello che uno sente, se è fatto o tagliato per quella strada. Come quando si va in un negozio, si incontra un vestito fatto proprio sulla nostra misura e secondo il nostro gradimento, lo si acquista. Il Signore Gesù ci chiama tutti, in realtà gratuitamente. Anzi, ci sta chiamando tutti, ora, nella tragedia di ogni giorno, ma non vuole che si pensi al sacerdozio nel senso di “comando” e di “bel ruolo nella società”.

I media, il cinema e la tv, a volte esagerano pur volendo in buona fede testimoniare la bellezza della vita sacerdotale. A volte, poi, ne combinano di cotte e di crude, alterando proditoriamente la Storia e la verità storica. Il sacerdozio è qualcosa di straordinario, va fatto al massimo nel senso che il sacerdozio va pensato e vissuto così. Non è come la chiamata ad una professione. È la chiamata a stare con il Signore Gesù, a diventargli intimo, fratello, immerso nel Suo cuore, al punto che le persone, vedendo e dialogando il loro sacerdote e religioso, pur avendolo altre volte in altri tempi, possano dire quello che diceva del santo Curato d’Ars che aveva visto Dio che viveva in un uomo. Qual è, dunque, la realtà del sacerdozio? E’ solo una vita di rinunce? E’ la chiamata ad una vera paternità che assomiglia in modo particolare a quella di Dio, tutta spirituale e soprannaturale, e dalla quale ogni altra paternità prende nome. Si diventa in effetti Padri dell’umanità, di tutti. Certo non si diventa sacerdoti perché la gente pensa o vuole così di un giovane o di una giovane. Dio si può servire di tutti anche nel laicato. Il Servo di Dio Giovanni Paolo II, in “Dono e Mistero” scritto per il 50° del suo sacerdozio, dice:“In quel periodo della mia vita la vocazione sacerdotale non era ancora matura, anche se intorno a me non pochi erano del parere che dovessi entrare in seminario. E forse qualcuno avrà supposto che, se un giovane con così chiare inclinazioni religiose non entrava in seminario, era segno che in gioco v’erano altri amori o predilezioni” (p. 10). Poco più avanti Giovanni Paolo II ricorda che, scoppiata la seconda guerra mondiale, andò a lavorare come operaio in una cava di pietra. Scrive: “I responsabili della cava, che erano polacchi, cercavano di risparmiare a noi studenti i lavori più pesanti. A me, per esempio, assegnarono il compito di aiutante del cosiddetto brillatore: si chiamava Francisek Labus. Lo ricordo perché, qualche volta, si rivolgeva a me con parole di questo genere. “Karol, tu dovresti fare il prete, canterai bene, perché hai una bella voce e starai ben…”. Lo diceva con tutta semplicità, esprimendo così una convinzione abbastanza diffusa nella società circa la condizione del sacerdote. Le parole del vecchio operaio mi sono impresse nella memoria”(pp. 15-16). Al di là di alcuni convincimenti popolari, che certamente il futuro Papa non approvava, si faceva sentire attraverso un umile figlio del popolo la chiamata del Signore. Allora, un giovane che deve fare? “Lanciarsi” senza una chiamata diretta o aspettare un “segno” preciso e chiaro dal Sommo Bene? Anche in questo caso, non bisogna aspettare una chiamata diretta. Sarebbe come tentare Dio e costringerlo a manifestarsi attraverso vie determinate da noi. Ma non si può neanche lanciarsi fino a quando non si è certi che il Signore ha effettivamente “inviato” la Sua chiamata. Pregare e conservarsi retti, è la prima saggia decisione. Il Signore sa tutto di tutti ed attraverso vie del tutto impreviste, farà prima o poi sentire “sensim sine sensu” (sensibilmente, sebbene senza la percezione sensoriale) quanto ha sentito il giovane Isaia: “Poi io udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò e chi andrà per noi?». E io risposi: «Eccomi, manda me!» (Is 6,8). Se Isaia ha pregato così: «Eccomi, Signore, chiama me e manda me!», perché non può farlo ogni giovane cristiano? Che senta la chiamata, che senta anche l’ansia del Signore quando dice: «Chi manderò e chi andrà per noi?». Sicuramente la chiamata al sacerdozio non deve e non può essere una fuga dalla realtà, un ripiego, un tentativo, una prova, una momentanea “convivenza”. Ma è un lasciare qualcosa e qualcuno per andare dietro al Signore. Alcuni sono poi “scelti” da Gesù per diventare Domenicani. E’ una vocazione speciale, per così dire, più “diretta”. Consiste nell’avere la vocazione a consacrarsi tutto al Signore e nel seguirLo secondo un determinato cammino. La vocazione è simile all’innamoramento. Ma è un innamoramento che si prova per il Signore, per la Sua Vigna, la Sua causa. Al fondamento di ogni vocazione c’è l’amore per il Signore. I teologi ci dicono che questo innamoramento è frutto di un fuoco – di origine divina – che Dio stesso accende dentro il cuore dell’Uomo e per mezzo di questo fuoco lo attrae a Sé in maniera particolare. È lo stesso fuoco che il Signore ha acceso un giorno nel cuore degli Apostoli quando li ha chiamati a Sé perché stessero con Lui. Si è trattato di un fuoco così fresco, così dolce e così piacevole che essi subito, abbandonando tutto e tutti, decisero di stare con Lui. Per questo il primo segno di un’autentica vocazione è la gioia che un giovane prova quando vede se stesso in compagnia di Gesù e al suo seguito. Non si smette di essere uomini e donne. Anche se la vocazione naturale che ogni uomo e ogni donna prova per la loro unione nel matrimonio, a questo punto, viene come d’incanto superata da qualcosa che porta direttamente al senso ultimo del matrimonio: lo stare uniti al Signore senza distrazioni (1 Cor 7,35). Una Unione vera e definitiva a Gesù lo Sposo di ogni Uomo per essere santi nel corpo e nello spirito (1 Cor 7,34) al fine di esercitare una paternità ed una maternità nell’ordine della grazia e per la salvezza di una moltitudine di figli. Se questo va bene per qualsiasi consacrato, chi vuole essere Domenicano deve esaminare un’altra realtà prima di iniziare il suo percorso: se il Signore lo chiami ad essere come Lui, assetato di illuminare gli uomini e di portare nei loro cuori la grazia, che è l’inizio del Paradiso. Non si tratta di annunciare una verità o un concetto qualunque, ma di comunicare una Parola, anzi di comunicare una Persona, Gesù Cristo che purifica, libera, illumina e accende in chi l’ascolta lo stesso fuoco divino che c’è nel cuore di chi parla. San Domenico Guzmàn desiderava liberare gli uomini dai lacci del peccato e del maligno. Lo si udiva pregare con gemiti mentre diceva:“Dio mio, misericordia mia, che ne sarà dei peccatori?”. Nello stesso tempo era ansioso di portare il paradiso, la comunione con Dio e la comunione soprannaturale col prossimo, dentro il cuore di ogni uomo. Queste dunque sono le due premesse che si devono trovare, almeno in germe, in chi desidera fare un percorso per diventare Domenicano. L’itinerario della formazione iniziale mira a svilupparle e a farle divampare.
Secondo il Padre Lacordaire, questo è quello che chiedeva San Domenico al vescovo di Cracovia che gli domandava frati per evangelizzare la Polonia: “Datemi degli uomini e io ve li trasformerò in apostoli”. Due giovani risposero a questo appello e San Domenico in un anno accese in loro un fuoco così ardente per Gesù Cristo che li rese eloquenti. Ma il cinema e la cultura lo ignora, se non peggio.

La vita domenicana consiste poi in diversi elementi: cioè la vita comune, la professione dei voti, la celebrazione solenne della Liturgia delle ore, lo studio, le osservanze regolari (abito, silenzio, luoghi riservati ai religiosi). Ma tutti questi elementi, certamente importanti e ineliminabili, sono ancora nell’ordine dei mezzi. Tutto deve servire a che il Domenicano sia sempre perfettamente attrezzato in ordine al ministero per cui è stato chiamato. Le tappe dell’itinerario che un giovane affronta per diventare Domenicano sono le seguenti: discernimento della vocazione. Questo discernimento viene fatto attraverso colloqui con un Domenicano che si prenda a cuore la vocazione del giovane e anche con brevi esperienze di vita conventuale; il pre-noviziato, molto elastico nella sua durata e nella sua forma. Serve a verificare in concreto se uno sia adatto alla vita Domenicana. È come un “aperitivo”. Anche questo è indispensabile. I colloqui sono importanti e ugualmente necessari sono i brevi contatti con l’Ordine. Ma il pre-noviziato è ordinato a far capire al candidato e all’Ordine se concretamente, e non nelle velleità, c’è stoffa nel candidato; il noviziato, della durata di un anno, è ordinato a introdurre nella vita Domenicana, a capire come si risponde ad una vocazione divina, a dare testimonianza a se stessi e all’Ordine della propria attitudine a vivere nella via segnata da San Domenico. All’inizio del noviziato avviene la vestizione dell’abito domenicano. L’abito domenicano consiste in una tunica bianca, cinta ai fianchi da una cintura dalla quale pende il Santo Rosario. È interessante questo particolare: uno strumento di preghiera fa parte del vestito dei Domenicani e sta ad indicare che il Domenicano è anzitutto un uomo di preghiera. Sopra la tunica si stende lo scapolare di colore bianco, segno della materna protezione di Maria in vita e in morte, ed esso a suo volta, nella parte superiore, ha un cappuccio, ugualmente bianco. L’abito intero del Domenicano consta anche di una cappa o mantello nero, aperto sul dorso, che avvolge il vestito bianco e di un cappuccio ugualmente nero. Il noviziato termina con l’emissione dei voti di povertà, castità e obbedienza, chiamata anche professione religiosa. La professione definitiva (detta anche solenne) è sempre preceduta dalla professione temporanea, della durata di almeno tre anni (ma non più di sei). Nel tempo che segue il noviziato, detto anche studentato, i giovani domenicani si applicano principalmente allo studio delle discipline filosofiche e teologiche. Lo studio della filosofia è della durata di tre anni. Di tre anni è anche la durata degli studi di teologia.
Questo sessennio di studio è coronato dalla ordinazione sacerdotale, che viene seguita ancora da almeno due anni di studio che hanno lo scopo di dare al neo sacerdote un ulteriore approfondimento negli studi a seconda delle attitudini personali e delle necessità della Chiesa. In non pochi casi, questo biennio è seguito da un ulteriore biennio, soprattutto se il soggetto sarà destinato all’insegnamento delle discipline filosofiche e teologiche. Già nello studentato, il giovane domenicano viene introdotto gradualmente nell’apostolato, che diventa più intenso a partire dall’ordinazione sacerdotale. Pertanto, a parte il pre-noviziato, sono sette gli anni che precedono l’ordinazione sacerdotale. Ma gli anni di studio per il Domenicano sono di più, almeno altri due o quattro. A questo punto l’itinerario formativo iniziale si considera concluso. Quello che colpisce di più, forse a tutta prima, sono gli anni di studio.

Questi, sì, sono necessari, ma è ancor più necessario che il Domenicano si riempia sempre più di Dio, viva all’unisono i misteri di Cristo nella propria vita, e a somiglianza del suo padre San Domenico non faccia altro che parlare con Dio o di Dio. Perché il Domenicano è essenzialmente un apostolo. È dotto, sì, ma è dotto per essere un apostolo più agguerrito. Pier Giorgio Frassati, che era terziario domenicano (laico), scrivendo ad un amico, dice: “Sono contentissimo che tu voglia far parte della grande famiglia di San Domenico, dove come dice Dante, «ben s’impingua se non si vaneggia»”. Con quest’espressione Dante voleva dire che nell’ordine Domenicano si fanno grandi progressi nella via di Dio se si rimane in umiltà. Orbene, parafrasando questa bella affermazione del beato Pier Giorgio Frassati, auguriamo ai giovani (che bello se fossero i loro stessi Genitori) che incontrino un giorno chi dica loro:“Sarei contentissimo se anche tu volessi far parte della grande famiglia di San Domenico, dove come dice Dante, «ben s’impingua se non si vaneggia»”.

Ma per chi sceglie la via sacerdotale “ordinaria”, quanto si studia? Nell’ordinamento attuale per l’ordinazione sacerdotale è necessario percorrere il ciclo istituzionale completo dello studio della teologia, che comprende due anni di filosofia e teologia, tre anni di teologia e normalmente un ultimo anno di formazione e materie integrative, quindi 6 anni. Per uno che arriva col diploma delle scuole superiori o con uno studio universitario questo è il numero base.

Però chi viene da studi non umanistici normalmente deve fare un anno di corso preparatorio con alcune discipline base, come la filosofia, il latino, un po’ di greco. Ma non è finita. In molte diocesi esiste il seminario minore, in cui si fa il percorso delle scuola secondaria (“medie” e “superiori”), spesso in un istituto paritario annesso, e intanto si verifica la vocazione. Quindi un ragazzo può entrare in seminario in prima media e metterci: 3 + 5 + 6 = 14 anni. Non solo. Alcuni seminari, all’interno dei sei anni di teologia ne aggiungono uno di “tirocinio” in cui il giovane si sperimenta a servizio dei poveri, oppure in una parrocchia sotto la guida del parroco, interrompendo gli studi.
Poi il vescovo con i responsabili della formazione può decidere se un singolo seminarista possa fare un anno (o più o meno tempo) di pausa e ripensamento. Ovvero che un percorso universitario molto vicino a quello del seminario abbia già dato al candidato alcune conoscenze, e quindi riduca il percorso. Il seminario è la prima manifestazione della volontà di essere sacerdoti. La sua finalità è ben chiara e precisa: è un momento fondamentale di formazione del giovane alla vita sacerdotale. L’attività si alterna e si basa su 4 momenti importanti: la vita comunitaria, nelle sue diverse manifestazioni, dalla preghiera al servizio, alla verifica e confronto nella discussione; lo studio di teologia, che ha una durata di 6 anni; la spiritualità e infine il servizio che questi giovani compiono. Ma al di là di questi aspetti “tecnici” che caratterizzano la vita in seminario, è importante individuare quello che tale esperienza implica nella vita individuale, personale e spirituale, dei giovani che affrontano questo cammino certamente non facile. È una scelta con cui il giovane si mette in discussione, profondamente, rinunciando ad un atteggiamento di “non scelta” che spesso caratterizza i giovani di questa generazione.

Entrare in seminario significa affrontare un cammino di maturazione e preparazione continua, con l’obiettivo preciso di imparare a conoscere Dio e sé stessi, per poi andare incontro agli altri. Ed è proprio in questo che i seminaristi vedono l’attività tipica dell’uomo-sacerdote: imparare ad andare
incontro agli altri. Il momento della confessione è ad esempio un momento di ascolto dei problemi e delle angosce di persone che probabilmente non ha mai visto prima né vedrà più. Ma è un’attività particolare di relazione con il prossimo, e a questo appunto, il seminarista si deve preparare conoscendo Dio e se stesso. In questo il sacerdote si pone come l’uomo di Dio, ma si delinea anche quella che è la sua “solitudine”, in questa completa e totale disponibilità agli altri. È un amore grande e particolare il suo, non rivolto a una o poche persone, ma rivolto a tutti indistintamente. Non ha tempo suo, perché il suo tempo è di Dio e degli altri.

I giovani seminaristi, nel corso della loro formazione, si scontrano con la grandezza e la complessità dell’opera del sacerdote; e si interrogano continuamente, e si verificano per capire se saranno capaci di affrontare questo impegno. In questo senso si mettono in discussione quotidianamente con autenticità, nella consapevolezza di non essere degli eroi o giovani impegnati in qualcosa di particolare. Si sentono come tutti gli altri con la differenza che hanno fatto una scelta diversa.
Il seminario è dunque il momento della ricerca della conferma, analizzando quello che si lascia alle spalle e quello a cui si va incontro. Si rinuncia alla famiglia. Ma il termine “rinuncia”, secondo i seminaristi, è improprio. La vita seminariale è arricchente e formativa. Questa esperienza comunitaria, affrontata con entusiasmo dai seminaristi, non è comunque priva di attriti e conflitti, ma c’è tuttavia la volontà di risolverli e di ricercare un affiatamento e una giusta armonia, anche in previsione di un’attività sacerdotale futura che dovrà essere caratterizzata dalla collaborazione.
Questo è dunque il cammino che un giovane compie per diventare Servo di Dio e degli Uomini.

(Fonte: AA.VV) a cura di Nicola Facciolini

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