La Dolce Vita fa cinquant’anni a Pescara

A Milano, la sera della prima, al cinema Capitol, il 5 febbraio 1960, successe un parapiglia: l’elegante pubblico di invitati accompagnò il film con fischi, proteste, casino crescente, urla di “basta! schifo! vergogna!E all’uscita  Mastroianni venne apostrofato con:  “vigliacco, vagabondo, comunista”. Gli attacchi del quotidiano vaticano L’Osservatore Romano furono furibondi e i sostenitori gesuiti del film […]

A Milano, la sera della prima, al cinema Capitol, il 5 febbraio 1960, successe un parapiglia: l’elegante pubblico di invitati accompagnò il film con fischi, proteste, casino crescente, urla di “basta! schifo! vergogna!E all’uscita  Mastroianni venne apostrofato con:  “vigliacco, vagabondo, comunista”. Gli attacchi del quotidiano vaticano L’Osservatore Romano furono furibondi e i sostenitori gesuiti del film passarono guai seri. Ma poi il successo lm fu enorme, sorprendente: campione di incassi in tutta Europa, giudicato come un capolavoro in America e con  inserimento d’ufficio, nel vocabolario italiano, di termini come “paparazzi”, ossia fotografi in cerca di scandali  e “dolcevita”, per  un particolare tipo di  pullover. Dopo 50 anni “La Dolce Vita” resta uno dei maggiori film della storia del cinema, il lucido e lirico racconto di un’Italia in cui gli alleati americani affollano le vie della Capitale e Roma acquista un nuovo splendore: via Veneto di notte è tutto un concetrato di avventure, tra industriali facoltosi e intellettuali engagée, nobili decaduti e artisti eccentrici, assatanati paparazzi in cerca di vip e scollacciate signorine in cerca di fortuna. William Wyler canta questo (bel) mondo nel ’53 nel divertentissimo “Vacanze romane”, con Audry Hepburn a farsi scorrazzare in Vespa da un avvenente Gregory Peck.  Invece, Federico Fellini, intellettuale autoironico e pessimista, fotografa a suo modo vizi e virtù della galassia di via Veneto rappresentando un allegro minestrone che contiene l’abbondanza scandinava di Anita Ekberg e il fascino latino di Marcello Mastroianni, il clamore dei primi spogliarelli e i molleggiamenti di un giovanissimo Adriano Celentano fino ad arrivare a Nico, futura musa canora di Andy Warhol. Ne esce fuori quel monumento che vince la Palma d’oro a Cannes, un Oscar, un David di Donatello, tre Nastri d’argento e tutta la critica (ed il pubblico, infine) ad applaudire. E mentre a Torino è in corso, sino al 23 marzo al Museo del Cinema, la mostra “Gli anni della dolce vita” e la Lindau fa uscire un film di Antonio Costa dedicato al film (Federico Fellini e La Dolce Vita, 224 pp., 18 €); Pescara, la patria del soggettista e sceneggiatore Ennio Flaiano, proietta, al Cinema Teatro Massimo, la pellicola, per una proiezione per soli inviti.  Se è vero che un film vale un altro, è altrettanto certo che  Fellini va visto tutto. Se cominci da La dolce vita, ti viene voglia di tornare indietro, vedere I vitelloni, perché il personaggio di Marcello nella Dolce vita altri non è che il ragazzo che alla fine de I vitelloni prendeva il treno per Roma.  Ma ti viene voglia di vedere anche Le notti di Cabiria. La straordinaria sequenza del falso miracolo (una delle sequenze più moderne e attuali della Dolce vita), mostra con una forza visionaria ma anche con una esattezza implacabile come funziona il circo mediatico, allora come oggi. Ma Fellini sviluppa in questa sequenza temi che aveva già indagato in Le notti di Cabiria, nella gita della piccola prostituta (Giulietta Masina) al santuario del Divino amore.  La dolce vita ti dà spunti per vedere anche il Fellini successivo. Per esempio Roma (1972), in cui vediamo lo scrittore americano Gore Vidal che alla domanda “perché stai a Roma?” risponde più o meno che Roma è la città più adatta per vedere la fine del mondo, una battuta che suona come un commento, dieci anni dopo, alla Dolce vita. Il film, ancora, così mirabilmente scritto e sviluppato, ci riporta alla figura di Ennio Flaiano, la cui opera complessiva si configura come espressione letteraria tipicamente novecentesca per il suo eclettismo, per la predilezione per le forme brevi, per la costante tendenza a stravolgere le regole dei generi, passando costantemente dal teatro al romanzo, dall’elzeviro alla sceneggiatura cinematografica, dalla lirica all’epigramma satirico, dal calembour alla critica d’arte figurativa, dal racconto all’aforisma, dal pezzo di costume alla satira. L’eterogeneità delle forme in Flaiano non è solo un dato stilistico, è il segno preciso della volontà programmatica di uno scrittore che fece la scelta di stare fuori dal coro. La sua tendenza al ruolo di voce solista si vede sin dagli esordi – penso in particolare alla farsa “La guerra spiegata ai poveri”, insuperato manifesto di antimilitarismo, che è del ’46, e a “Tempo di uccidere”, romanzo visionario e simbolico scritto nel ’47 – nella sua distanza dalle poetiche letterarie dominanti in Italia alla metà del secolo, l’impegno neorealista e l’autonomia dell’arte pura. Flaiano sentì in modo ambivalente l’eclettismo del suo lavoro intellettuale ed espresse valutazioni contraddittorie particolarmente sulla sua attività di scrittore per il cinema, che fu considerevole e durò trent’anni. Dichiarò in più occasioni che il cinema lo aveva distolto dal lavoro letterario, risucchiandolo in un lavoro superficiale e poco gratificante, perché allo sceneggiatore andavano pochi riconoscimenti e il vero autore del film diventava il solo regista. Del cinema coglieva la precarietà, ne rifiutava l’aspetto commerciale, pur riconoscendo il suo grande potere di rappresentare in modo immediato i cambiamenti della società. In un’intervista di Rosselli, poco prima di morire, rivalutò però la sua esperienza nel cinema, nel quale vedeva una forma di comunicazione più immediata del libro, e fece un bilancio positivo della sua carriera cinematografica, anche se negli ultimi anni di vita abbandonò quasi completamente il lavoro di sceneggiatore, ritornando freneticamente a scrivere, a riordinare e a raccogliere ciò che aveva pubblicato su vari giornali, riprendendo progetti da tempo accantonati. Se è vero che Flaiano firmò più di ottanta film come sceneggiatore o soggettista, e pubblicò in vita solo sei libri, è pure vero che esiste un’osmosi tra i suoi libri e la scrittura cinematografica, ne sono esempio la sceneggiatura “Melampo” successivamnete trasformata in romanzo, o il personaggio tipicamente flaianeo dell’artista in crisi, presente sia nella sceneggiatura di “Otto e mezzo” che nella “Conversazione”. Per la sua attività di giornalista il discorso è diverso, perché esiste un continuo riutilizzo dei pezzi giornalistici o degli argomenti trattati negli articoli, che confluiscono nei suoi libri. All’interno dell’opera multiforme di Flaiano fu anzi proprio il giornalismo a costituire un punto fermo, l’unico mestiere che praticò quasi senza interruzione, anche perché, prima che il lavoro per il cinema gli consentisse di far fronte economicamente alla sua difficile situazione familiare, scrivere per i giornali rappresentò per lui l’unica fonte di guadagno.

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