Vichy è scesa, augurandoci buon viaggio

Aveva a lungo lavorato al ministero dei beni culturali e poi alla Biblioteca nazionale di Storia Moderna e Contemporanea di via Castani,  alla quale era legatissima. Lascia il marito Giancarlo, “l’angelo incazzoso che mi aiuta a vivere”, la figlia Alice e il nipote Ernesto “l’amato filosofo”, i suoi gatti che “senza saper leggere né scrivere […]

Aveva a lungo lavorato al ministero dei beni culturali e poi alla Biblioteca nazionale di Storia Moderna e Contemporanea di via Castani,  alla quale era legatissima. Lascia il marito Giancarlo, “l’angelo incazzoso che mi aiuta a vivere”, la figlia Alice e il nipote Ernesto “l’amato filosofo”, i suoi gatti che “senza saper leggere né scrivere hanno capito i miei libri”.E’ morta nella sua casa di Monteverde, a Roma, il 1° maggio, all’età di 74 anni, dopo una lunga battaglia contro una grave forma di sclerosi. Era nata a Venezia ed aveva esordito molto tardi, nel 2009, a 73 anni, con “L’ ultima estate” (Fazi), vincendo il Campiello Opera Prima ed entrando nella cinquina dello Strega. Venerdì 30 aprile era uscito il suo nuovo e secondo libro: “Scendo. Buon proseguimento” (da un celebre verso di Giorgio Caprioni): un addio epistolare costruito con un corpus di mail,  inviate a vari interlocutori (la figlia, gli amici, l’ editore). Cesarina Vichy, Titti per gli amici, era malata di Sla da sei anni, ma nei suoi due romanzi ha saputo intessere, con stile elegante e coltissimo, un inno alla vita. Grande amante degli aneddoti e delle storie, è riuscita a raccontare la sua malattia con la mano incantata di una vera, grande scrittrice. Nata a Venezia da una coppia “irregolare”, con un padre avvocato già sposato, cresciuta in una famiglia complicata e in una città sfregiata dalle bombe, se n’è andata a Roma in cerca di autonomia e di nuovi stimoli culturali negli anni ‘50, diventando responsabile di biblioteche importanti, e passando in piena autonomia attraverso tutti i sommovimenti di quegli anni, dal ‘68 al femminismo. Si è sposata, con un uomo che le è vicino da quarant’anni e la accudisce amorosamente (facendoci anche una figlia), ma di cui scrive, impietosamente: “Ora so cosa cercavo io. Un alibi. Un alibi che giustificasse il mio scarso successo, il mio negarmi alla creatività…” (e chissà dove finisce l’autobiografia). Cesarina Vighy ha anche scritto molto, ma non ha mai voluto pubblicare niente, nonostante le insistenze degli amici e dei familiari. Finché, quattro anni fa, si è presentata la malattia, sotto forma di una difficoltà ad articolare le parole, lei che con le parole aveva trattato per tutta la vita. Le insistenze dei suoi cari, a quel punto, si sono fatte più decise, e così Cesarina ha buttato giù un paio di capitoli e li ha spediti all’editore. “Ci siamo resi conto che si trattava di un lavoro strepitoso dicono ora alla Fazi – e l’abbiamo incoraggiata a continuare. A quel punto lei ha scritto i capitoli successivi tutti d’un fiato, come un fiume in piena”. Il suo primo romanzo è un misto di verità e ironia, racconto-saggio privo di pedanteria, colto senza essere saccente. Cita Yourcenar, immancabile, ma anche Bob Hope. Canzona la morte con l’ironia di Pretolini (“mi dispiace di morire / ma son contento / son contento di morire / ma mi dispiace”). Aveva ragione Manzoni (tu guarda…). Il senso della scrittura, come il senso della vita, forse sta davvero nell’ “ora estrema”, che libera dal dolore (amen), rende i ricordi materiale da narrazione, e ogni vita degna di essere vissuta e raccontata, magari solo per la poesia del nido di un merlo che si intravede nell’ultimo scorcio di finestra rimasto a portata di sguardo. C’è un’Italia che non si classifica, non vuole essere contata, vive in disparte. Vighy appartiene a questo gruppo. E’ un’Italia silenziosa, che ha amato tanto leggere (pratica ormai in disuso presso le nuove generazioni, che collegano la parola lettura solo al concetto dei titoli di coda di qualche show televisivo) e scrivere. La storia minore che racconta Vighy, la storia di una vita, di una famiglia, proprio perché è la storia che potrebbe essere di tutti, riscatta il silenzio di questa Italia. E poi è Vighy brava. La storia ha tempi diversi. C’è il racconto del passato, il diario del presente, l’immagine futura (ma non troppo) della propria morte. Vighy ha confidenza con tutti i ritmi e i tempi della narrazione. E’ una giostra, ma non ce ne accorgiamo: ci sono pagine che valgono 15 anni di vita, e altre che ne raccontano un istante. Circa il secondo ed ultimo libro, strutturato diversamente dal precedente, pare mantenere alcune di quelle caratteristiche che tra malattia, condizione di non sanità, male, dolore, corpo che cambia e mente, non si va in cerca di rassicurazioni e  men che meno benedizioni o ‘estreme unzioni’. Nella strenua difesa della propria identità di fronte al decadimento fisico, lo stile diventa un valore irrinunciabile, mantenuto intatto dalla prima all’ultima mail. Precisazioni al limite del maniacale, citazioni colte, modi di dire familiari e alcune poesie, che si alternano con naturalezza e ad emergere prepotente è un black humour che stupisce e insieme diverte per il carattere di elegante imprevedibilità. Donna colta e sensibile, snob ma umanissima, Cesarina, donna che ci insegna come la cultura e la scrittura possano aiutarci a vivere ed affrontare la morte. Resta il suo monito, la frase chiave di questo ultimo libro: ““In una condizione di libertà, la malatta mi ha dato materiale, momenti di gioia creativa in cui dimenticavo la realtà che mi aspettava, sempre più difficile, sempre più buia. Mi ha dato soprattutto maggior sensibilità di capire cose e persone“.

Carlo Di Stanislao

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