Santa Maria Paganica, spunti di storia per la ricostruzione

Prendo spunto da alcuni interrogativi posti di recente dal Vice Commissario della Protezione Civile per i Beni Culturali, Luciano Marchetti, circa la ricostruzione di prestigiosi edifici seriamente danneggiati dal terremoto dell’Aquila, in particolare dell’insigne chiesa di Santa Maria Paganica, rimasta in piedi solo per meno del 50%, per la quale si chiede alla città di […]

Prendo spunto da alcuni interrogativi posti di recente dal Vice Commissario della Protezione Civile per i Beni Culturali, Luciano Marchetti, circa la ricostruzione di prestigiosi edifici seriamente danneggiati dal terremoto dell’Aquila, in particolare dell’insigne chiesa di Santa Maria Paganica, rimasta in piedi solo per meno del 50%, per la quale si chiede alla città di decidere come completarla e ristrutturarla, in attesa che si concretizzi il promesso impegno degli Stati Uniti d’adottare il restauro del tempio. Credo non sia inutile offrire un contributo, richiamando all’attenzione dei tecnici la preliminare conoscenza della storia vissuta di questo, come di un qualsiasi altro monumento che si abbia intenzione di restaurare. Ben venga, intanto, per Santa Maria Paganica, la provvisoria promessa copertura «con resina e fibre che hanno il profilo delle travi in ferro, ma pesano un quarto». Ma poi a quale ricostruzione ispirarsi fra le tante che ha avuto dopo le molte distruzioni nel passato? Certamente è impensabile sognare di rivederla risorgere con un’analoga volta e cupola come prima di quel fatidico 6 aprile 2009. Una possibile risposta può sorgere ripercorrendo le principali fasi storiche della sua travagliata esistenza ante e post sisma dei secoli trascorsi, avvalendoci per lo più di inediti documenti d’Archivio della chiesa, che avemmo modo di consultare e riordinare alcuni anni fa. Ma tutto questo ha un senso solo se, contemporaneamente, si abbia la voglia di ripensare una politica di ricostruzione – ristrutturazione del tessuto urbano che, iniziando prioritariamente dal cuore del centro storico, privilegi anche le case che sono il naturale complemento dell’edificio rappresentativo di culto nel quartiere. Un quartiere che, nel nostro caso, almeno nella sua area nord orientale, per la facilità d’accesso e sistema viario aperto, ben si presta, senza ulteriori colpevoli ritardi, ad un’azione di rivitalizzazione e restauro.

L’edificazione della chiesa, essendo un capo quarto, deve collocarsi nei primi cinque anni di vita della città, quando in questa, come appare da un documento del 21 ottobre 1258 (datato anno I del re Manfredi, lo stesso che l’anno dopo distruggerà l’Aquila ribelle) si menziona il locale di Paganica, anche se bisogna attendere ventisette anni (doc.23 settembre 1285) perché si faccia esplicito riferimento ad un arciprete e Capitolo di canonici ecclesiae Sanctae Mariae de Paganica aquilensis. Nel 1304, 25 agosto, si fa menzione della prima fondazione di una cappella padronale, intitolata alla Madonna, richiesta, per testamento da Perugia, dal canonico aquilano e scrittore della Sede Apostolica, Sir Gualtiero Morelli. Quattro anni più tardi, sotto l’arcipretura di un certo Don Nicolò, la costruzione della chiesa, probabilmente a tre navate, può dirsi conclusa in tutti i particolari, compreso i meravigliosi portali, su uno dei quali, il principale, campeggia la data 1308. Nel 1315, con inizio il 13 dicembre e la durata di un mese, la città subisce il primo dei suoi disastrosi terremoti «che ruvinò molte chiese et edificii». (Cronaca del Beato Bernardino da Fossa). Non sappiamo nulla degli eventuali danni provocati alla nostra chiesa. Qualche anno dopo, nel terremoto del 1349, il disastro in città fu totale e, fra i tanti crolli, si specifica quello di Santa Maria Paganica, forse con danneggiamento anche del suo campanile a torre, per il cui completamento, nel 1365, intervenne un lascito testamentario di Giovanni Gaglioffi.

Nel 1411 si parla ancora di «riparazione della chiesa» con contributo degli stessi canonici, come anche nel 1416, quando si riunisce il Capitolo per deliberare la vendita di alcune terre in Bagno, i cui utili serviranno per «fabbricare e riparare la chiesa». L’anno successivo, sempre per la ricostruzione, si reperiscono fondi, vendendo alcuni terreni in Fossa, con il beneplacito del vescovo aquilano Giacomo Donadei. È questo il periodo in cui, sotto la longeva arcipretura di Francesco Nanni Fattennanti (1416-1470 circa) la chiesa risente di un grande fervore culturale ed edilizio: la bella fattura di codici liturgici miniati per mano di un certo Marini di Alanno (1416), la Croce a stile d’argento di Nicola da Guardagrele (1447), costata 390 ducati e la ricostruzione della monumentale torre campanaria nel 1417, per opera dei mastri Fante di Roio e Cola di Rocca di Cambio, per la non indifferente spesa di 251 ducati d’oro veneziani, inoltre l’edificazione di una sacrestia sulla fiancata (navatella) sinistra della chiesa (in cornu Evangeli), con donazioni iniziate allo scopo nel 1418, che condurranno al completamento della stessa soltanto nel 1451. Con la costruzione della sacrestia è da credere che ormai, se non altro per motivo di simmetria, anche la navatella di destra come l’altra, entrambi presumibilmente già aperte con scansione di pilastri nella chiesa ante 1349, ora, in pieno secolo XV, vengano utilizzate come vani lateralmente chiusi, adibiti ad altari o cappelle padronali.

Del successivo terremoto del 27 novembre 1461 si hanno notizie di rovine di varie chiese, fra le quali, in parte, Santa Maria Paganica, con crollo di una cappella e porzione del tetto e, probabilmente, con una qualche incrinatura anche della facciata, sulla quale, più tardi, sotto l’arcipretura di Don Antonio Francesco Cappa, negli anni 1545-1548, si mettono in opera pesanti interventi di consolidamento, per opera di un certo Mastro Bartolomeo, che si presta a smontare e rimontare le pietre del prospetto e rinforzarlo con due pilastri, riparando anche due cappelle (altari) addossate alla parete interna. Ecco alcune colorite espressioni del contratto: «In primo detto Mastro Bartolomeo se obliga gettar detta fronte per ducati vinti cinque de carlini (…) item promette recomponere detta fronte et remenar tutte le prete de la fronte devanti et cornice come stano al presente (…) et promette recomponere la porta e occhio (rosone) per pieno come lo restante de la fronte a prezo de carlini vinti la canda quadra (4,40 m²) con lo muro in esso facciata de grossezza come al presente si trova (…). Item promette fare doi pilastri da capo a pede la fronte (…). Item che le cappelle che sono al presente in detta fronte le debbia remettere drento del muro de la fronte secondo meglio parese… ». I lavori, che dovettero in parte interessare anche il consolidamento della volta a capriata, iniziarono nel giugno del 1545, con tanto di sacro auspicio e preghiera dell’arciprete Antonio Francesco all’inizio delle sue dettagliate note di spesa per la fabbrica della Chiesa: « Idio sia che la vediamo rihedificata con pace laude de Dio salute de vivi et refrigerio ale anime trapassate amen ». La triennale ristrutturazione venne a costare 380 ducati.

Nel 1557, la metà superiore della torre campanaria, probabilmente già danneggiata da un terremoto del 21 maggio dello stesso anno, attestato da Basilio di Collebrincioni, fu abbattuta dagli Spagnoli perché non si potesse da lì rispondere ad un eventuale fuoco delle artiglierie del Castello. Negli anni successivi, si registrano buone notizie per la messa in opera di alcune costruzioni e ornamenti fuori e dentro la chiesa: nel 1568, come riferisce l’Antinori, si esegue «la scala cordonata avanti il frontespizio e la porta maggiore» e nel 1580 si porta a compimento il monumentale altare maggiore di legno dorato in oro zecchino, realizzato a spese dell’arciprete Giovanni Francesco Carli, demolito, secondo il Mariani, intorno agli anni Venti del XIX secolo «in occasione di rimodernarsi la Chiesa come al presente si vede». Altri cambiamenti riguardano la facciata, la cui aggiunta a grezza cuspide sopra l’originario prospetto a coronamento orizzontale ( ben evidenziato nel cinquecentesco gonfalone aquilano del Cardone), risale al tardo Settecento. Le notizie di continue riparazioni e ricostruzioni si avvicendano con ritmo serrato per tutto il secolo XVII, a partire dal 25 aprile 1610, quando un Don Pietro Paolo «lassa pro edificio et reparatione di essa Ecclesia la casa dove esso testatore abita».

Il 28 aprile 1646, secondo il testimone oculare Padre Filippo da Secinaro, cappuccino, un notevole terremoto, con uno sciame di 166 scosse in tre mesi, terrorizzò ancora una volta L’Aquila, per cui «tutti abbandonarono le loro case e si ritirarono nelli giardini ». Anche se si afferma che non vi fu un «notabile danno» per gli edifici cittadini, è da credere che la stabilità della nostra chiesa rimanesse abbastanza compromessa. Per questo motivo si spiegano alcune donazioni «per la fabbrica di questa Chiesa» come quella dell’ottava parte di un capitale di regi fiscali di mille ducati sopra l’università di Antrodoco, eseguita per legato testamentario da Marzia Colantoni, il 24 dicembre 1653. È questo un periodo di grande fermento sociale con conseguente affollamento del quartiere anche da parte di artigiani ed artisti, soprattutto milanesi, che vi scelgono la residenza, fra i quali i pittori Bedeschini e il noto scrittore di storia patria aquilana Salvatore Massonio. Di pari passo è il fervore religioso: secondo lo status animarum 1662, la parrocchia di S.Maria conta 864 fedeli, serviti da un arciprete e 7 canonici, con 19 cappellani di residenza, di cui 15 sacerdoti e 4 chierici. I non obbligati alla residenza sono 38, di cui 15 sacerdoti e 23 chierici. Nel 1665 gli altari della Chiesa, che normalmente sono detti anche cappelle, in quanto collegati a uno o più benefici, semplici o di residenza, sono incredibilmente 22, con annessi 48 benefici di cappellania, di cui 12 solo nell’altare maggiore, dedicato all’Assunta.

Circa l’accennata probabile compromissione della stabilità della chiesa nel post sima 1646, abbiamo un verbale delle risoluzioni capitolari del 3 agosto 1668, in cui l’arciprete Don Giovanni Pietro Bruno, vista «la necessità grande che tiene la Chiesa sì per il corpo d’essa, minacciando rovina in più parti, come anche il bisogno di suppellettili » propone «per sovvenimento delle suddette necessità» di rivolgere una supplica al vescovo De Angelis, perché conceda in perpetuo al Capitolo il beneficio semplice della Cappellania di S. Maria delle Grazie in S. Massimo. La supplica, datata 23 luglio 1669, ribadisce «come la detta Chiesa minaccia rovina in molte parti et ha grandissimo bisogno di risarcimento nel corpo». Il 3 agosto dello stesso anno, due artigiani milanesi, i “fabrilignarii” Cristoforo Chino, di 57 anni e Carlo Maragna di trent’anni, testimoniano con precisione di dettagli la situazione dei danni, offrendoci un inedito spaccato della chiesa, a cui sarebbe opportuno far riferimento oggi nel progetto di una moderna ricostruzione: un’aula con copertura a capriata, che s’innalza dall’altezza dell’attuale grande cornicione e si conclude a T nell’innesto dei due bracci del transetto, scandita da 25 “cavalli” nella navata e 10 nel transetto. In più ci vengono date anche le misure della chiesa, 26,5 x 8,5 canne ( pari a 56 x 18 m).

Le riparazioni sono urgenti, in quanto «nella Croce a capo di detta Chiesa vi sono cavalli diece, quali cavalli per non haver trascenda, seu riparo, nella muraglia nella parte di fuora, si sono infracidati (…) mostrando segno di ruina; e tanto detto tetto quanto il tetto dell’habitatione, della sacrestia e torre, tra pinci tavole legnami chiodi e ferri, e fattura hanno bisogno per loro mantenimento d’annui cento e più ducati». Inoltre, si fa presente il pericolo rappresentato nel campanile dal peso delle campane, la maggiore delle quali ha una notevole stazza di «sette migliara» di libbre, cioè di 22,4 quintali. Il 10 agosto, sempre del 1669, alla testimonianza dei falegnami segue quella, ben più drammatica dei «magistri muratores» milanesi, Battista Chino, di 30 anni e di Antonio Madalena di 32 anni, che da qualche anno sono al servizio della chiesa. «Io come mastro muratore (…) so benissimo» – afferma sotto giuramento il Chino – « et ho visto et riconosciuto che l’edificio di detta Chiesa nelle muraglie si ritrova in alcune parti d’essa in evidente pericolo di rovinare, come la tribuna principale dietro l’altare maggiore minaccia ruvina per l’apertura che è nella sua lamia, l’arco maggiore per l’apertura minaccia anco ruvina, et anco le due braccia della Croce; l’arco della Cappella a mano destra dell’Altare maggiore ha fatto apertura in quattro parti, e quello della Cappella a man sinistra ha medesimamente fatto apertura da due parti, et hanno bisogno di chiavi per qualche tempo; la volta della Sacrestia et l’abitatione sopra di essa Chiesa minaccia anco ruvina da ambedue le cantonate per l’apertura che si vede, et dove necessita di due chiavi per qualche tempo, acciò non vadino totalmente a terra, e poi è necessario fabricare di nuovo dette cantonate; dipiù dietro la tribuna due cordoni già si vedono cadenti, per essersi staccati dal massiccio, et un altro già è caduto, e similmente nel braccio della Croce a man dritta certi cantoni, il tutto si trova in evidente pericolo di rovinare».

Per questo ultimo danno si esprime con maggior precisione il Madalena: «la cantonata contigua del braccio della Chiesa a man destra ha necessità anco attualmente di riparo perché già è cominciata a cadere la muraglia, oltre che il corpo della istessa Chiesa e trave d’essa hanno pur bisogno di qualche ristoro». Da alcuni particolari di queste testimonianze si può dedurre qualcosa in più sulla forma della Chiesa: forse, come residuo strutturale delle tre navate due-trecentesche, vi sono tre absidi, altrimenti non si spiega la dizione dei muratori “tribuna principale” dietro l’altare maggiore. Tuttavia, le tre absidi possono ben coesistere con chiesa ad un’unica navata. Pochi anni più tardi, secondo quanto riferisce il Colapietra, il vescovo de la Zerda, nella visita pastorale del 31 gennaio 1685, forse perchè i lavori non sono mai iniziati, oppure sono ancora in atto, è visibilmente scandalizzato, perché, entrando in chiesa si trova di fronte – a suo dire – non ad una chiesa, ma quasi ad una «spelunca», dove solo l’altare maggiore è decentemente ornato. Non sappiamo se e quanto si riuscisse a riparare e ricostruire, nel corso dell’ultimo trentennio del secolo, prima dell’altro terremoto del 2 febbraio 1703, avvenuto sotto l’arcipretura di Pietro Costanzi. Un sisma che notoriamente, secondo le fonti ufficiali esterne al Capitolo della Collegiata, non avrebbe creato seri danni né alla chiesa né al suo quartiere, tanto che in essa, in ringraziamento alla Vergine «che preservò illeso il quartiero di S. Maria di Paganica dalle ruine del terremoto», invalse la devozione, ancora viva nel 1726, di continuare i festeggiamenti della Purificazione per altri due giorni consecutivi. Eppure a breve distanza dal terremoto, la chiesa aveva chiesto, quasi per una corsia privilegiata, sussidi al governo che, nel Collaterale del 18 maggio del 1703 le vengono negati, rilevando che la stessa non era stata danneggiata più delle altre della città.

Di ripiego, facendo di necessità virtù, come risulta da un verbale del 4 dicembre 1717, l’arciprete Marcello Carli e i canonici del Capitolo, per coprire le spese «per l’urgente fabbrica della tribuna e Coro diruto da detti terremoti» (non solo, dunque, da quello del 1703), si vedono costretti a donare per un decennio «l’entrata pecuniaria di massa comune, che dovrebbe dividersi fra i partecipanti». L’urgenza della fabbrica era stata stigmatizzata l’anno precedente, come appare da un atto del 9 settembre 1716 del notaio Francesco Antonio Meloncelli, in cui ci s’impegna a mettere in opera un radicale, mai tentato prima, intervento di ristrutturazione della chiesa, per mano, ancora una volta, di artigiani milanesi, i mastri Domenico e Antonio Jacometti, mastro Cicchino e mastro Giovanni Battista del Pozzo. Questi «in solidum si sono obligati di fabbricare tutto il giro della Croce, e Coro di detta Chiesa, con alzare li muri sino al tetto secondo il disegno, e fare le volte di detto Coro, e delli due Cappelloni, come anche fare il giro della Cuppola in altezza tale, che si possa coprire con il tetto matto, per il prezzo di carlini sette e mezzo la canna, cioè li muri stesi, gli Archivolde, ed altri riporti di Fabbrica, che si comprendono nel disegno, et a carlini otto solo il cornicione principale, da misurarsi il medesimo ad uso di questa città dell’Aquila, e nel modo e stile che si sono misurati gli altri di detta Città; et incontrandosi una muraglia vecchia vicino alla sacrestia di detta Chiesa ( si tratta della vecchia sacrestia del sec.XV di cui sopra), dove dovrà incontrarsi il muro d’un fianco del Cappellone debiano quella allacciare, et unirla alla nuova muraglia, con pagarli alli detti mastri solo la nuova alla ragione di carlini sette e mezzo, e l’istesso debbia intendersi per l’altra fabbrica (la sacrestia attuale), che forzosamente si dovrà fare vicino la Torre». Interessanti sono le clausole del contratto che prevedono tappe annuali e stagionali dei lavori, con obbligo di montare e smontare gli “aristieri” (impalcature) ed altre attrezzature, a spese della stessa impresa, come pure che i mastri si mantenessero sempre a disposizione, quando all’occorrenza fossero chiamati dal Capitolo, altrimenti se ne sceglieranno altri, i cui lavori, però, saranno a carico del suddetto mastro Domenico, che evidentemente è il responsabile della “ditta”. Una specie di illuminato subappalto ante litteram alla rovescia, molto più trasparente e favorevole al cliente di quello che, a ribasso di prezzi, si esercita ai nostri giorni. Infine, ma non se n’è conservato il nome, è significativo la menzione di un “Archidetto” a sovrintendere i lavori.

Seconda parte

Nel 1722, trascorsi sei anni dalla stesura del contratto ed inizio lavori, il vescovo Tagliatela si rende conto dei danni, definiti non lievi, che aveva subito la chiesa e, allo stesso tempo, constata con soddisfazione i progressi fatti nella ricostruzione, grazie al pingue reddito della Collegiata. Ma i lavori per una completa ristrutturazione e per la fabbrica di una nuova sacrestia (l’attuale a contatto del transetto di destra) si trascinano ancora fino agli anni Sessanta del secolo, per cui si ricercano ancora proventi dall’unione di due semplici benefici, il già menzionato di Santa Maria delle Grazie in Cattedrale e l’altro dei Santi Giacomo e Bartolomeo in S. Maria Paganica. Nella richiesta del maggio 1740 e aprile 1746 al vescovo e poi alla Sacra Congregazione del Concilio, per il nulla osta, o piuttosto per la conferma del privilegio già ratificato nel 1669, la causale è che si ritrova «la Chiesa col terremoto seguito nel 1703 (ma abbiamo visto che v’erano danni pregressi) parte caduta, e parte notabilmente patita nel tetto» ed inoltre era necessario «riparare alla necessità della medesima, e signanter del Coro, per la cui mancanza si necessita officiare in Sacrestia». Scorrendo il Libro d’introito ed esiti (1747-1773) dell’Archivio, si avvertono nei minimi particolari i ritmi degli impegni nella lunga e laboriosa ricostruzione-ampliamento della chiesa. Riferiamo al riguardo alcune significative annotazioni sui lavori in esecuzione. «Primo agosto 1749, mezza giornata di Mastro a raccomodare il tetto della Chiesa…; 19 novembre 1749, canne 14 trave servite per la trascienna sopra la porta della Chiesa a mezzogiorno e per coprire il pilastro sotto la Torre». Si noti qui un’evidente spia dei pilastri dell’antica struttura della Chiesa, che andrebbero riscoperti nella futura ricostruzione, insieme ad alcune porzioni di pareti, che celano sicuramente lacerti di antichi affreschi. Si ricorda, al riguardo, che esistono notizie di affreschi del 1340 per una cappella padronale e di tutta la chiesa, per altra cappella nel 1363 e altri ancora del secolo XV, in particolare per la cappella di Iacopo di Notar Nanni, che per contratto del 31 maggio 1493, viene affrescata dal noto artista Sebastiano di Cola da Casentino.

Ma torniamo alle notizie della ricostruzione: « 20 novembre 1749, coppi nº 1.000 posti in vari luoghi del tetto e muro del Coro in vari tempi…; 11 marzo 1750, mattoni 12.500 consegnati al Procuratore (della Chiesa), coppi 1.000 consegnati al medesimo , coppi 200 posti nel tetto della Chiesa; primo giugno 1750, porto di pietre e cordone dalla sagrestia nuova (in costruzione) a piedi le scale della Chiesa per fare un’aggiunta alla cordonata, e salicata nella strada avanti le scale della Chiesa»…; «11 maggio 1751, giornate due al tetto della Chiesa, e ricoprire la Fabbrica nuova…; 20 gennaio 1754, accomodo del camino della camera del Sagrestano dietro il Coretto; mattoni 300 di Fabbrica serviti per la medesima ». Per solo acquisto di materiali nella sola annata 1 novembre 1755-31 ottobre 1756, risulta una spesa di circa 650 ducati. Nell’anno successivo 1756-1757, per acquisto materiali e lavori vari, fra i quali quelli al tetto, di canne 165 e palmi 3 (circa 730 m²), per mano del Mastro Saverio Ghezzi (lombardo), per “arrasare” i muri, chiudere l’arco grande, per gli speroni e canaloni della torre, per il conto delle vetrate, fra le quali è quella grande composta di 230 vetri e, infine, per ripulire la Chiesa, levare gli ultimi cavalli del cornicione e «per salme 100 di creta per servizio dell’incocciata dell’Arco dell’Altare Maggiore», la spesa totale è di 1.925 ducati. L’introito della Collegiata nello stesso anno è di 1.954 ducati. È interessante, nell’ambito del progetto di ricostruzione, una riunione capitolare dei Canonici del 6 aprile 1757, presieduta dall’arciprete Orazio Cerulli, dove ci si chiede di decidere «dove sia più di vantaggio ed utile il dar principio, se nella Croce, oppure nel Corpo di essa Chiesa». La risposta, dopo la consultazione e attenta «perizia fatta da Mastro Raimondo Rainaldi, Mastro Pietro Longhi e Mastro Angelo Veronica (presumibilmente lombardi)» e la votazione «per bussola segreta (…) restò risoluto che si dovesse dar principio al Corpo della Chiesa».

Nelle note di spese 1757-1758 v’è anche quella per l’accomodo della torre, per mano del summenzionato Mastro Saverio Ghezzi «in occasione che dovette sonare la campana per la morte del Papa» (Benedetto XIV, 3 maggio 1758). Per l’anno successivo, volendo curiosare fra il materiale del cantiere-chiesa, notiamo 23.200 mattoni grandi, costati 83,54 ducati, «1.800 quatri da matonare» il pavimento, del valore di 4,59 ducati e 1.000 tegole di 5 ducati. Nel 1761, per compera di 28.160 mattoni di varie dimensioni, si spendono 93,38 ducati. Dal 3 giugno al 6 ottobre 1762, fervono i complessi lavori per la costruzione della volta a botte a incannucciata, che venne a costare, fra mano d’opera e materiali, ben 513,69 ducati, 140 dei quali fu necessario spendere per costruire gli archi di sostegno in legno (con base all’altezza del cornicione), con l’impiego di 240 giornate lavorative di mastri muratori e falegnami e 96 di manovali. La necessità di queste strutture in legno, affidate a cottimo per 35 ducati al mastro Angelo Migeca, fu avvertita in corso d’opera, in sostituzione dei più economici, ma troppo pesanti, primi tre archi iniziali a mattoni: «si principiano a far l’archi di legno, essendone fatti tre di mattoni che rendevano troppo peso per consulta dei Mastri e Periti, alli muri di detta Chiesa, onde si principiano a lavorare gli archi di tavole». Il provvedimento fu più che giusto e provvidenziale, come si saprà qualche mese più tardi: « e detto lavoro si seguita da Mastri Muratori, come da Mastri Falegnami e garzoni sino alli 6 di ottobre dell’anno sudetto (1762) per essere venuto il Terremoto».

Un sisma di lieve entità che non dovette provocare danni, forse meno forte di un altro (se pure non è lo stesso) che si segnala l’anno successivo fuori città, come si accenna nei libri contabili: «spese fatte nella fornace di Pile per accomodo della medesima nel terremoto del 1763» e ancora: «spese per accomodare il tetto della Fornaca rovinato da detto terremoto». Qualche curiosità di spesa per la «volta a canne»: l’impiego di 70.200 canne costate 28,80 ducati, varie decine ( decina = Kg 3,56) di gesso per un valore di 42 ducati, 24,60 ducati di arena comune e bianca, 40 ducati di calce, comprata da «Martinelli e dai calcaroli della Rocca di S.Stefano», e, interessante, la provvista di 272 tomoli di «arena negra, comprata a Napoli», evidentemente derivata da pietra pomice vulcanica, molto leggera e quindi adatta per non creare troppo peso sulla volta. Si nota ancora, «per servizio della volta», l’impiego di 88 canne di travi, acquistate da mastro Francesco Giovannone e 43 da Filippo Micharelli, inotre «legni numero14 di palmi 25 l’uno per armare detta volta e catene numero 22; chiodi (“mantuani”) comprati al mercante Calore, come da sua nota e ricevuta, ducati 67,51». E poi vi è il paziente quanto costoso lavoro degli stuccatori, con previa cottura del gesso, «fatto cuocere nella Chiesa da un garzone a grana 5 per cotta, in tutto cotte 32». Gli artigiani che stuccano la volta sono, ancora una volta, evidentemente della “Padania”, si direbbe oggi, i quali si fanno pagare bene: «A’ Stuccatori per stuccare tutta la volta di detta Chiesa da Bossi e compagni (sic), data a cottimo, ducati cento» Infine « Per colore dato a tutti quadri della volta…». Segue lacuna.

Terminato il grosso lavoro della volta, si ha tempo, nell’anno 1764-1765, per occuparsi di accessori e dettagli. Si acquistano da Mastro Simone Fiore per 16 ducati «quattro acquasantiere di marmo di S. Silvestro»; si accomodano i “soatti” (sostegni?) della campana grande e delle altre tre, chiamate Squillone, Squilla e Cococcetta; si fa «la vetrata finta alla finestra strachiusa verso la Torre (…) e l’altre cinque vetrate dopo fatta e stuccata la volta, fatte venire dal Signor Don Carlo Rustici da Venezia casce due vetri e piombo e rame filato come da sua nota: ducati 51,96». Le vetrate vengono eseguite, una volta tanto, da artigiani locali, Mastro Nicola Jenca e Bernardo di Montereale. Segue una noticina sulle cappelle laterali: « per ricoprire tutti i vani di dette Cappelle», da cui si deduce che fino a questo momento erano comunicanti. Nell’anno 1766-1767 nuovi lavori, come appare dal «Conto della Fabbrica della nuova Sacrestia e aggiunta fatta nella medesima del nuovo muro, come di porzione di fabbrica della Croce di detta Chiesa, principiata a 25 aprile» 1766. Soltanto per i materiali, calce, arena e pietre si spendono 232 ducati. Sono state necessarie 181,6 giornate lavorative di mastri, a 40 grane l’una e 486,3 giornate di manovali, a 20 grana, per un totale di 170 ducati. Per il disegno della sagrestia e coro, costato 5 ducati, si fa riferimento a un certo Giovanni Francesco Lombardi. La «manifattura del tetto» per il prezzo di 18 ducati è dei mastri Saverio Ghezzi e Francesco Saverio. Nei tre anni successivi si registrano solo piccoli interventi di rifinitura finché, dal 20 agosto 1771 ad ottobre del 1772, non intervengono altre «spese per la volta della nuova Sagrestia e stanza del Sagrestano». Tra le voci più significative è la menzione di Don Luigi Rivera che regala cento canne per la volta, che si vanno ad aggiungere alle mille comprate dalla Chiesa. Si registrano accomodi alla porta del nuovo passaggio alla torre campanaria, alla porta del cornicione e al vano che conduce al tetto della sacrestia nuova. Per quest’ultima si richiedono interventi più impegnativi: occorre «buttare a terra la volta vecchia» e «buttare a terra il muro divisivo» e «fare la nuova volta di canna». Il tutto per 74,46 ducati. Sullo scorcio del secolo XVIII si avverte una certa pesantezza e crisi economica nel portare avanti gli ultimi lavori di ristrutturazione.

Nel 1797, in data 2 gennaio, essendo arciprete Don Vincenzo Girardi, dal momento che la chiesa si trova impegnata in altre spese, come la costruzione di un granaio, si decide di concedere al «Signor Abbate Don Gaspare Dragonetti, Patrizio Aquilano» e per lui, in perpetuo, alla sua famiglia, la cappella dov’era la vecchia sagrestia, dirimpetto a quella di S. Giovanni Battista, l’attuale dedicata a S. Antonio Abate. Da parte sua Don Gaspare s’impegna «di ornare con stucchi la medesima Cappella a proprie spese». Il 24 febbraio gli si concede anche, ad uso di sacrestia, «il sito che resta tra i due muri, uno che riguarda la Cappella contigua della famiglia Benedetti e l’altro quello della suddetta Cappella» Dragonetti. I lavori di ristrutturazione sembrano non finire mai, per una ormai quasi esausta chiesa, di tale importanza e dimensioni. Lo riconosce con ammirazione, un decennio più tardi, un giudice di pace, di cui non s’è conservato il nome: « S. Maria di Paganica è una delle quattro Insigni Collegiate, e Parrocchiali Chiese di questa Città, che ha il primo luogo dopo la Chiesa Catedrale di S. Massimo: detta chiesa, di grande estenzione nel suo disegno e ossatura, non è stata mai compita e perfezionata per la scarsezza delle rendite, che la medesima tiene» (L’Aquila 29 luglio 1809, Lettera del giudice di Pace al Signor Intendente della Seconda Provincia [dell’Abruzzo] Ultra ). Le rendite, come abbiamo visto, c’erano state, ma ora non potevano bastare più, per concludere un’impresa così radicale di ricostruzione. Infatti nel Capitolo del 14 febbraio 1813 si prega il vescovo Francesco Gregorio Gualtieri «di dilazionare il concorso dell’Arcipretura di nostra Chiesa e così restaurare l’edificio onerato di debiti e terze censuali e poter ancora ultimare il pavimento del Coro». E poi c’era da rifinire la cupola, le cui ultime note di spese risalgono all’anno 1827-1828. Ciononostante, nel 1898, sotto l’arcipretura di Don Nicola Selli, si è riusciti, con grandi sacrifici, a costruire anche « una nuova casa in un casaleno a sinistra del coro della Chiesa», per il prezzo di 2.370 ducati.

Gli ultimi eventi in tempi recenti: la chiesa fu adibita per buona parte a dormitorio da soldati della prima guerra mondiale, per cui, in risposta a una domanda di questionario del 1921, in vista della visita pastorale, l’arciprete Don Giacomo di Fabio, si vede costretto a rispondere con molta amarezza: « Non vi è l’organo, manomesso nel tempo della permanenza dei soldati nella chiesa». Da pochi lacunosi appunti sulla storia recente della chiesa, vergati su alcuni fogli protocollo intorno al 1919, si apprendono anche le riparazioni per i danni provocati dal terremoto del 1915: la Chiesa sarebbe stata «recentemente restaurata per i danni cagionatele dal terremoto del 1915, col concorso per una metà del Governo e per l’atra metà dell’Edificio. Le riparazioni dei danni del terremoto consistettero in rafforzamenti dei muri e riparazioni al tetto». Infine, e probabilmente anche per quest’ultime riparazioni con pesanti rinforzi in cemento, nel sisma del 6 aprile 2009 si facilita il crollo totale, in due riprese, della volta della Chiesa.

Per concludere, ci chiediamo: al di là degli schemi ideologici, che dividono, e degli stessi stanziamenti finanziari, che da soli non bastano, quanta forza fede e coscienza civica ci rimane ancora oggi, sull’esempio del passato, per ricostruire, al più presto e nel migliore dei modi, non solo questa chiesa, ma anche le altre, insieme alle circostanti case del centro storico dei quarti, nei quali esse sono un insostituibile simbolo aggregante?

Fulvio Giustizia
storico-archeologo

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