Salute mentale nelle aziende italiane, arriva il test

Una volta quello dei colletti bianchi era considerato un lavoro privilegiato e sicuro. Da qualche anno è finita sotto osservazione anche la loro attività. Il motivo? Anche il lavoro intellettuale, non meno di quello manuale, a lungo andare, può compromettere la salute del lavoratore. Effettuare mansioni ripetitive, lavorare in turni notturni o a una intensità […]

Una volta quello dei colletti bianchi era considerato un lavoro privilegiato e sicuro. Da qualche anno è finita sotto osservazione anche la loro attività. Il motivo? Anche il lavoro intellettuale, non meno di quello manuale, a lungo andare, può compromettere la salute del lavoratore. Effettuare mansioni ripetitive, lavorare in turni notturni o a una intensità molto elevata, avere più o meno autonomia nello svolgimento delle proprie funzioni, lavorare più di quaranta ore alla settimana: tutto ciò può avere conseguenze soprattutto sulla salute mentale. Lo testimonia il fatto che il 30% dei lavoratori europei (secondo i dati dell’European Working Conditions Survey, 2005) dichiara di riportare problemi legati alle condizioni di lavoro, come stress, ansia, mancanza di sonno, irritabilità. Una percentuale che sale al 35% se si guarda a Grecia, Svezia e Italia. Un dato allarmante che forse nel nostro Paese presto potrebbe ridimensionarsi anche grazie all’entrata in vigore il 1° agosto dell’obbligo – previsto dal Testo Unico 81 del 2008 – di verifica del rischio di stress da lavoro, che impone alle aziende di intervenire per ridurne le cause.

Perché oggi le condizioni di salute sul luogo di lavoro hanno assunto un ruolo rilevante? «C’è un crescente consenso tra i paesi membri della Comunità europea nei confronti di questo argomento», spiega il professor Lucifora, autore insieme a Elena Cottini dell’indagine Mental Health and working conditions in European countries. «Tuttavia, se da sempre è chiaro quali siano i danni fisici causati dall’esposizione a fumi, a rischi, a rumore – rispetto ai quali nei paesi industrializzati sono stati fatti molti passi avanti -, meno semplice è individuare le patologie mentali legate a condizioni disagiate sul posto di lavoro. Forse perché l’evidenza medica in questo ambito non è ancora accertata in maniera definitiva o perché le direttive europee restano generiche».

Eppure il problema non è da sottovalutare. «Condizioni particolarmente disagevoli possano portare a situazioni estreme, come alienazione o suicidio – sottolinea Lucifora -. Un rischio elevato nei paesi scandinavi che rappresenta un’eccezione nel quadro dei Paesi in cui che è forte l’incidenza di problemi mentali sul lavoro. Questo perché la persona è sottoposta a molta pressione per via delle alte performance richieste. Anche se non va dimenticato che altre componenti esterne possono incidere. Tra queste, per esempio l’esposizione alla luce, come dimostra una nutrita letteratura epidemiologica». Ciò indica che le condizioni di salute sul posto di lavoro non sono indipendenti dalle condizioni ambientali. «La nostra indagine, nell’analizzare le condizioni di salute sul posto lavoro, include tutta una serie di fattori di contesto che vanno dall’età alla composizione familiare, dalla professione al settore di appartenenza fino a comprendere il livello di salute che ogni singolo lavoratore riporta. È emerso che aumenta di oltre il 25% la probabilità che un individuo, a parità di tutte queste condizioni, possa avere problemi di salute mentale». Da questo punto di vista l’obbligo della valutazione dello stress lavoro-correlato potrebbe avere una funzione preventiva. «Lo “stress test” previsto può essere utilissimo se si riuscirà a indicare un modo adatto per effettuarlo. Più che un sistema sanzionatorio, credo sia necessario agire in positivo, enfatizzando i miglioramenti che si potranno ottenere a lungo termine». Ma potrebbe rivelarsi utile anche come strumento di contrattazione per i lavoratori: «A maggiore stress dovrà corrispondere un maggiore salario», suggerisce Lucifora.

Un’ultima curiosità. Tra gli aspetti di rischiosità nell’ambiente di lavoro c’è anche il fumo passivo. Basti pensare che nell’Europa a 25 ogni anno è la prima causa di morte per oltre 79.000 adulti, di questi il 9% muore per esposizione al fumo passivo sui luoghi di lavoro. Una componente di rischio che alcuni Stati, come Irlanda, Italia e Svezia, stanno cercando di ridurre con l’introduzione tra il 2004 e il 2005 del divieto di fumo nei locali pubblici. Restrizioni la cui adozione sembra stia dando risultati positivi non solo sul fronte della salute, ma anche della produttività. Dallo studio The effect of comprehensive smoking bans in European workplaces, sempre condotto da Claudio Lucifora con Federica Origo, è emerso che in Irlanda la percentuale degli heavy smorkers, ossia quelli che fumano in media 20 sigarette al giorno, è passata dal 39% registrato nel 2002 (prima dell’entrata in vigore della legge) al 37% del 2006, mentre in Italia nello stesso periodo è scesa dal 27% al 19%.

Infine l’assenteismo per malattia: quello legato in particolare ai tradizionali malanni invernali, diminuisce del 2-3%, mentre in Italia scende al 4%. C’è, però, un unintended effect, una ricaduta negativa: è aumentata del 5% la possibilità che i fumatori siano facilmente irritabili o possano soffrire di stress.

Studi e Ricerche, Milano
Università Cattolica

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