”La figlia di Jorio/Fabula” debutta in Abruzzo

Grande successo domenica scorsa per la prima a Roma de “La figlia di Jorio/Fabula”, da Gabriele D’Annunzio, che nella suggestiva Villa Pamphili colma di pubblico e di addetti lavori, tra i tanti Gabriele Lavia, Daniele Pecci, Edoardo Siravo, ha confermato ancora una volta la qualità e l’estro di questa nuova produzione del Teatro Stabile d’Abruzzo […]

Grande successo domenica scorsa per la prima a Roma de “La figlia di Jorio/Fabula”, da Gabriele D’Annunzio, che nella suggestiva Villa Pamphili colma di pubblico e di addetti lavori, tra i tanti Gabriele Lavia, Daniele Pecci, Edoardo Siravo, ha confermato ancora una volta la qualità e l’estro di questa nuova produzione del Teatro Stabile d’Abruzzo e Drammateatro per la regia di Claudio Di Scanno. La figlia di Iorio/Fabula da Gabriele D’Annunzio, drammaturgia e regia Claudio Di Scanno, con Susanna Costaglione, Federica Di Martino, Raffaello Lombardi, Serena Mattace Raso, Paola Cerimele, Marina Di Virgilio, Michele Di Conso, Anna Pieramico, Valentina Caiano e Gianluca Marcellusi è uno degli allestimenti che prende vita nell’ambito di Progetto Abruzzo la nuova attività che il TSA conduce in collaborazione con le quattro amministrazioni provinciali. Lo spettacolo sarà il 3 e 4 agosto, alle ore 21, 30, nella splendida Villa Maria Immacolata, di Giulianova,Teramo. “Dopo Fedra del 2009 – ci racconta il regista Claudio Di Scanno- continuo ad occuparmi di Gabriele D’Annunzio attraverso una riscrittura de La figlia di Iorio, il suo capolavoro teatrale scaturito tra l’altro dal bisogno di rompere col dramma borghese, dalla necessità di liberarsi del concetto di verosimiglianza, per ritrovare l’arcaico, l’esemplare, il sogno, ciò che si pone fuori da ogni legge di tempo e di luogo. Una sorta di passato assoluto dove far rivivere le eterne verità dell’animo umano, le pulsioni di un mondo ideale. Protagonista ed eroe del testo non è un uomo ma una donna, in qualche modo un mito modernizzato, evoluto, che si pone come base del contrasto femminile/maschile, a generare il vero nucleo energetico della drammaturgia (come drama ergos).  I personaggi, i loro stessi nomi ci proiettano fin da subito in una dimensione arcaica, che però non riconduce ad una dimensione storica, bensì ad una sorta di ambito favolistico, o meglio fabulistico, vale a dire magico, senza tempo, finanche allegorico, finanche grottesco. Una eterna sostanza umana dove ci è consentito di rintracciare una fissità dei personaggi, una loro immutabilità, personalità prive di sviluppo che disegnano tipi, tipi di una tragedia dell’arte, tutti con una loro psicologia rudimentale, espressivi di caratteri e moti dell’animo umano. A dominare l’accadimento un forte senso di fatalità. Non un Dio a sovrastare il destino degli uomini ma il Fato, tutto ciò che sta fuori del Tempo, ciò che è sempre stato e che si ripete fatalmente appunto. A dominare una cornice del senso di tragedia che pervade la scena, in cui il divino e l’umano si incontrano nel rito, sintesi di Cielo e Terra, generando una densa, cruenta, estenuante fabula drammatica, una battaglia dell’anima, una battaglia nell’anima. Una Psicomachia! Una Fabula psicomachica, sullo sfondo di una religiosità arcaica ed essenziale, tra valori e simboli tradizionali, come la Casa, la Festa, la Montagna e la Grotta,… Elemento perturbante, l’amore tra i due giovani, Aligi e Mila, mina l’unità della comunità, una comunità arcaica dove non contano le singole individualità ma i legami di sangue e la loro conservazione. Di conseguenza le gerarchie e i codici di comportamento che difendono il gruppo e la comunità dalla trasgressione dei “ribelli”, da chi intende affermare la propria autonomia individuale, la propria diversità. Da qui l’espulsione dal corpo sociale giacchè il “diverso”, il ribelle, può agire come un virus capace di aggredire e disgregare, infettare i legami di sangue e quindi la loro conservazione. Così, a tutela del corpo sociale, della sua conservazione-coesione, va a collocarsi il “rito cruento”, il sacrificio della vittima designata, il sacrificio del “diverso”, perché il sacrificio ricompatta il corpo sociale, evitandone la disgregazione”.

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