Nella Chiesa bruci il fuoco missionario di San Domenico Guzman

Domenica 8 agosto 2010 ricorre l’annuale festa religiosa di san Domenico Guzman, fondatore dell’Ordine dei Frati Predicatori, stella mirabile di santità e virtù insieme a san Francesco d’Assisi come ci ricorda il sommo poeta Dante Alighieri nella sua Divina Commedia. Siamo alla vigilia dell’ottavo centenario dalla fondazione dell’Ordine che i Domenicani festeggeranno negli Anni del […]

Domenica 8 agosto 2010 ricorre l’annuale festa religiosa di san Domenico Guzman, fondatore dell’Ordine dei Frati Predicatori, stella mirabile di santità e virtù insieme a san Francesco d’Assisi come ci ricorda il sommo poeta Dante Alighieri nella sua Divina Commedia. Siamo alla vigilia dell’ottavo centenario dalla fondazione dell’Ordine che i Domenicani festeggeranno negli Anni del Signore 2016, 2021, 2034 e 2037. Bologna, patria del Diritto con la sua Università animata per secoli dalla sapienza dei Domenicani (che i cittadini di Teramo non hanno saputo e/o voluto preservare!), accoglie da ottocento anni le spoglie mortali del Santo Patrono Domenico. Papa Benedetto XVI nella sua catechesi del 3 febbraio 2010, all’udienza generale tenuta nell’Aula Paolo VI in Vaticano, ha definito san Domenico virgulto sempreverde per l’annuncio della Verità del Vangelo a tutte le genti. Non esiste documento e memoria storica di una sola Università prestigiosa che in Europa e nel mondo non abbia annoverato, in tutti questi secoli, tra i suoi docenti di Diritto (e delle altre “scienze”) un Frate Predicatore. San Domenico è un vero esempio per tutti i giovani che amano la Giustizia e la ricerca della Verità nella Fede e nella Ragione. “Questo grande santo – ha detto il Papa – ci rammenta che nel cuore della Chiesa deve sempre bruciare un fuoco missionario, il quale spinge incessantemente a portare il primo annuncio del Vangelo e, dove necessario, ad una nuova evangelizzazione: è Cristo, infatti, il bene più prezioso che gli uomini e le donne di ogni tempo e di ogni luogo hanno il diritto di conoscere e di amare! Ed è consolante vedere come anche nella Chiesa di oggi sono tanti – pastori e fedeli laici, Membri di antichi ordini religiosi e di nuovi movimenti ecclesiali – che con gioia spendono la loro vita per questo ideale supremo: annunciare e testimoniare il Vangelo!”. Il Papa ha ricordato quando San Domenico fu eletto canonico del capitolo della Cattedrale nella sua diocesi di origine, Osma. “Anche se questa nomina – ha detto il Pontefice – poteva rappresentare per lui qualche motivo di prestigio nella Chiesa e nella società, egli non la interpretò come un privilegio personale, né come l’inizio di una brillante carriera ecclesiastica, ma come un servizio da rendere con dedizione e umiltà. Non è forse una tentazione quella della carriera, del potere, una tentazione da cui non sono immuni neppure coloro che hanno un ruolo di animazione e di governo nella Chiesa? Lo ricordavo qualche mese fa, durante la consacrazione di alcuni Vescovi: Non cerchiamo potere, prestigio, stima per noi stessi. Sappiamo come le cose nella società civile, e, non di rado nella Chiesa, soffrono per il fatto che molti di coloro ai quali è stata conferita una responsabilità, lavorano per se stessi e non per la comunità”(Omelia. Cappella Papale per l’Ordinazione episcopale di cinque Ecc.mi Presuli, 12 Settembre 2009). San Domenico, il fondatore dell’Ordine dei Frati Domenicani, brillò per sapienza, verità, integrità, purezza e giustizia. “Il suo successore nella guida dell’Ordine, il beato Giordano di Sassonia – spiega il Santo Padre – offre un ritratto completo di san Domenico nel testo di una famosa preghiera:“Infiammato dello zelo di Dio e di ardore soprannaturale, per la tua carità senza confini e il fervore dello spirito veemente ti sei consacrato tutt’intero col voto della povertà perpetua all’osservanza apostolica e alla predicazione evangelica”. E’ proprio questo tratto fondamentale della testimonianza di Domenico che viene sottolineato: parlava sempre con Dio e di Dio. Nella vita dei santi, l’amore per il Signore e per il prossimo, la ricerca della gloria di Dio e della salvezza delle anime camminano sempre insieme”.

Domenico nacque in Spagna, a Caleruega, intorno all’Anno Domini 1170 da una nobile famiglia della Vecchia Castiglia. Sostenuto da uno zio sacerdote, si formò in una celebre scuola di Palencia. Si distinse subito per l’interesse nello studio della Sacra Scrittura e per l’amore verso i poveri, al punto da vendere i libri che ai suoi tempi costituivano un bene di grande valore, per soccorrere, con il ricavato, le vittime di una carestia. Ordinato sacerdote, fu eletto canonico del capitolo della Cattedrale nella sua diocesi di origine, Osma. “Il Vescovo di Osma, che si chiamava Diego, un vero e zelante pastore – ricorda il Papa – notò ben presto le qualità spirituali di Domenico, e volle avvalersi della sua collaborazione. Insieme si recarono nell’Europa del Nord, per compiere missioni diplomatiche affidate loro dal re di Castiglia. Viaggiando, Domenico si rese conto di due enormi sfide per la Chiesa del suo tempo: l’esistenza di popoli non ancora evangelizzati, ai confini settentrionali del continente europeo, e la lacerazione religiosa che indeboliva la vita cristiana nel Sud della Francia, dove l’azione di alcuni gruppi eretici creava disturbo e l’allontanamento dalla verità della fede. L’azione missionaria verso chi non conosce la luce del Vangelo e l’opera di rievangelizzazione delle comunità cristiane divennero così le mète apostoliche che Domenico si propose di perseguire. Fu il Papa, presso il quale il Vescovo Diego e Domenico si recarono per chiedere consiglio, che domandò a quest’ultimo di dedicarsi alla predicazione agli Albigesi, un gruppo eretico che sosteneva una concezione dualistica della realtà, cioè con due principi creatori ugualmente potenti, il Bene e il Male. Questo gruppo, di conseguenza, disprezzava la materia come proveniente dal principio del male, rifiutando anche il matrimonio, fino a negare l’incarnazione di Cristo, i sacramenti nei quali il Signore ci “tocca” tramite la materia, e la risurrezione dei corpi. Gli Albigesi stimavano la vita povera e austera – in questo senso erano anche esemplari – e criticavano la ricchezza del Clero di quel tempo. Domenico accettò con entusiasmo questa missione, che realizzò proprio con l’esempio della sua esistenza povera e austera, con la predicazione del Vangelo e con dibattiti pubblici. A questa missione di predicare la Buona Novella egli dedicò il resto della sua vita. I suoi figli avrebbero realizzato anche gli altri sogni di san Domenico: la missione ad gentes, cioè a coloro che ancora non conoscevano Gesù, e la missione a coloro che vivevano nelle città, soprattutto quelle universitarie, dove le nuove tendenze intellettuali erano una sfida per la fede dei colti”. A Domenico di Guzman si associarono poi altri uomini, attratti dalla stessa aspirazione. “In tal modo, progressivamente, dalla prima fondazione di Tolosa, ebbe origine l’Ordine dei Predicatori. Domenico, infatti, in piena obbedienza alle direttive dei Papi del suo tempo, Innocenzo III e Onorio III, adottò l’antica Regola di sant’Agostino, adattandola alle esigenze di vita apostolica, che portavano lui e i suoi compagni a predicare spostandosi da un posto all’altro, ma tornando, poi, ai propri conventi, luoghi di studio, preghiera e vita comunitaria. In particolar modo, Domenico volle dare rilievo a due valori ritenuti indispensabili per il successo della missione evangelizzatrice: la vita comunitaria nella povertà e lo studio”. Domenico e i Frati Predicatori si presentavano come mendicanti, cioè senza vaste proprietà di terreni da amministrare. “Questo elemento li rendeva più disponibili allo studio e alla predicazione itinerante e costituiva una testimonianza concreta per la gente. Il governo interno dei conventi e delle provincie domenicane si strutturò sul sistema di capitoli, che eleggevano i propri Superiori, confermati poi dai Superiori maggiori; un’organizzazione, quindi, che stimolava la vita fraterna e la responsabilità di tutti i membri della comunità, esigendo forti convinzioni personali. La scelta di questo sistema nasceva proprio dal fatto che i Domenicani, come predicatori della verità di Dio, dovevano essere coerenti con ciò che annunciavano. La verità studiata e condivisa nella carità con i fratelli è il fondamento più profondo della gioia. Il beato Giordano di Sassonia dice di san Domenico: “Egli accoglieva ogni uomo nel grande seno della carità e, poiché amava tutti, tutti lo amavano. Si era fatto una legge personale di rallegrarsi con le persone felici e di piangere con coloro che piangevano” (Libellus de principiis Ordinis Praedicatorum autore Iordano de Saxonia, ed. H.C. Scheeben, [Monumenta Historica Sancti Patris Nostri Dominici, Romae, 1935])”.
Inoltre, Domenico, con un gesto coraggioso, volle che i suoi seguaci acquisissero una solida formazione teologica, e non esitò a inviarli nelle Università del tempo, anche se non pochi ecclesiastici guardavano con diffidenza queste istituzioni culturali”. Le Costituzioni dell’Ordine dei Predicatori danno molta importanza allo studio come preparazione all’apostolato. “Domenico volle che i suoi Frati vi si dedicassero senza risparmio, con diligenza e pietà; uno studio fondato sull’anima di ogni sapere teologico, cioè sulla Sacra Scrittura, e rispettoso delle domande poste dalla ragione. Lo sviluppo della cultura impone a coloro che svolgono il ministero della Parola, ai vari livelli, di essere ben preparati. Esorto dunque tutti, pastori e laici, a coltivare questa “dimensione culturale” della fede, affinché la bellezza della verità cristiana possa essere meglio compresa e la fede possa essere veramente nutrita, rafforzata e anche difesa. In quest’Anno Sacerdotale, invito i seminaristi e i sacerdoti a stimare il valore spirituale dello studio. La qualità del ministero sacerdotale dipende anche dalla generosità con cui ci si applica allo studio delle verità rivelate”. Come ci ricorda il Santo Padre “Domenico, che volle fondare un Ordine religioso di predicatori-teologi, ci rammenta che la teologia ha una dimensione spirituale e pastorale, che arricchisce l’animo e la vita. I sacerdoti, i consacrati e anche tutti i fedeli possono trovare una profonda “gioia interiore” nel contemplare la bellezza della verità che viene da Dio, verità sempre attuale e sempre viva. Il motto dei Frati Predicatori – contemplata aliis tradere – ci aiuta a scoprire, poi, un anelito pastorale nello studio contemplativo di tale verità, per l’esigenza di comunicare agli altri il frutto della propria contemplazione. Quando Domenico morì nel 1221 a Bologna, la città che lo ha dichiarato patrono, la sua opera aveva già avuto grande successo. L’Ordine dei Predicatori, con l’appoggio della Santa Sede, si era diffuso in molti Paesi dell’Europa a beneficio della Chiesa intera. Domenico fu canonizzato nel 1234, ed è lui stesso che, con la sua santità, ci indica due mezzi indispensabili affinché l’azione apostolica sia incisiva. Anzitutto, la devozione mariana, che egli coltivò con tenerezza e che lasciò come eredità preziosa ai suoi figli spirituali, i quali nella storia della Chiesa hanno avuto il grande merito di diffondere la preghiera del santo Rosario, così cara al popolo cristiano e così ricca di valori evangelici, una vera scuola di fede e di pietà. In secondo luogo, Domenico, che si prese cura di alcuni monasteri femminili in Francia e a Roma, credette fino in fondo al valore della preghiera di intercessione per il successo del lavoro apostolico. Solo in Paradiso comprenderemo quanto la preghiera delle claustrali accompagni efficacemente l’azione apostolica! A ciascuna di esse rivolgo il mio pensiero grato e affettuoso.
La vita di Domenico di Guzman sproni noi tutti ad essere ferventi nella preghiera, coraggiosi a vivere la fede, profondamente innamorati di Gesù Cristo. Per sua intercessione, chiediamo a Dio di arricchire sempre la Chiesa di autentici predicatori del Vangelo”. Nel volume “Domenico, la grazia della parola” di Padre G. Bedouelle O.P., che consigliamo vivamente, scopriamo la preghiera evangelica di san Domenico, le sue orazioni notturne, l’ardore e l’intensità con cui ha fatto sua la preghiera della Chiesa. A immagine di Gesù Cristo sono le fondamenta della Famiglia religiosa domenicana. La preghiera rispondeva al desiderio che Domenico aveva di vivere pienamente la liturgia della Chiesa che è ben più di un rituale e di un linguaggio, poiché Parola ricevuta da Gesù.

San Domenico con la Predicazione che è Parola data, annunciando il Vangelo, non ha fatto altro che manifestare il legame vivo, vitale e visibile tra Parola ricevuta e Parola data, un legame allentato e disperso che bisognava incarnare in una maniera di vivere significativa, con la vita di Domenico e dei suoi frati mendicanti, con la preghiera personale e comunitaria la cui intensità colpisce tutti coloro che gli sono vicini. Preghiera incessante di Domenico che ha vissuto alla lettera il precetto paolino della “preghiera senza intermissione”, come si legge nella Lettera agli Efesini 6,18:“Vivete nella preghiera e nelle suppliche, pregate in ogni tempo nello spirito; vigilate incessantemente e intercedete per tutti i santi”. Lo testimoniano i suoi frati al processo di Bologna. La preghiera mormorata nel segreto della notte si fa predicazione di Domenico. Una vita di preghiera rappresentata e raffigurata in graziose miniature del XIII secolo nell’opuscolo medievale:“Nove modi di pregare di Domenico”, appendice alla “Vita di san Domenico” composta dal domenicano Thierry d’Apoldo. Il testo mette in rapporto i movimenti del corpo con l’espressione della preghiera, illustrando i modi di pregare con brani della Scrittura che Domenico conosceva a memoria. Il più delle volte Domenico frammischia gesti e parole dispiegando lo splendore molteplice della preghiera cristiana, pregando per tutti i peccatori, per la conversione e la protezione dei giovani frati che inviava nel mondo a predicare il Vangelo alle anime. Con il suo esempio ancor più che con le sue parole, Domenico insegnava ai suoi frati questo modo di pregare. “Quando si vuol pregare più intimamente, si deve scegliere un atteggiamento in virtù del quale si può amare Dio maggiormente, sia che si resti seduti o in piedi, prostati a terra o inginocchiati” (Sentenze, san Stefano da Muret, 104,2). Tutta la persona si esprime nella preghiera. Non si tratta di tecniche o metodi per giungere all’unione con il divino, bensì il riflesso profondo dei movimenti dello spirito.

La tradizione domenicana sottolinea la potenza dinamica della “grazia della predicazione”, riferendosi alle figure che nel Vangelo ne sono le portatrici privilegiate: per questo venera il Precursore, Giovanni Battista, il primo Predicatore; e i primi frati riconoscono in Maria Maddalena l’ “apostola degli apostoli” e l’ “ambasciatrice degli ambasciatori”, per aver annunciato la Buona Novella della Resurrezione di Gesù ai discepoli.

Domenico medita sul ruolo pasquale della “portatrice di profumi”, che durante la vita pubblica di Gesù si era prostrata ai piedi del Maestro. Ma è soprattutto la Vergine Maria, la “Regina dei Predicatori”, a essere invocata in tutta la Chiesa. Ed è a Maria la “Vergine di misericordia”, mediatrice attenta, che Domenico affida il suo Ordine di predicazione “per la salvezza del genere umano”, insieme a san Francesco. La Vergine non può abbandonare quell’Ordine che ha ottenuto di far nascere: di persona lo assiste, lo protegge e ne cura i più piccoli particolari, “inventandone” anche l’abito di luce e di ombra (cf. “Fioretti domenicani” e “Vite dei frati” di Gerardo di Frachet).

Maria prega con i Domenicani soprattutto al momento della processione solenne della Salve Regina che chiude la giornata dopo Compieta e durante l’agonia dei frati. Domenico prescrive ai frati di recitare le “Ore della Vergine Maria” prima dell’Ufficio canonicale. Maria si fa così presente in tutta la vita dei frati e le litanie della Vergine (devozione attinta nel XVI sec. dalle fraternite laiche del Rosario) esprimono chiaramente il patrocinio familiare che l’Ordine di san Domenico intende ricevere da Maria, Vergine della misericordia, Madre dal manto che protegge. Domenico e i primi frati recitano in ginocchio l’Ave Maria. Fin dal secolo XI si faceva uso solo della salutazione angelica, ossia delle parole dette dall’Angelo dell’Annunciazione (Luca 1,28). Solo nel secolo seguente si aggiunge l’esclamazione di Elisabetta nella Visitazione (Luca 1,42). Giordano di Sassonia recitava l’uno dopo l’altro il Magnificat e quattro salmi, le cui iniziali componevano insieme la parola Maria. Alla fine di ciascuna preghiera biblica recitava l’Ave Maria facendo una genuflessione, come si vede fare dall’angelo nelle antiche rappresentazioni dell’Annunciazione (Vitae Fratum, III, 23). Dal 1266 i testi dei capitoli generali prescrivevano ai frati conversi di aggiungere la salutazione angelica a ciascuno dei Pater, che per loro sostituivano l’Ufficio corale.

Si utilizzano le corone, chiamate allora “paternostri”, per contare debitamente il numero delle parole alle quali si era tenuti, servendosi di uno strumento di devozione che la maggior parte delle grandi religioni già conosceva. Per assimilazione ai 150 salmi di Davide, si prescrivevano tre cinquantine di Pater. Nel XIII secolo si va sviluppando il “Salterio di Maria”, composto di 150 Ave Maria. Diffusa era una cordicella a nodi sulla quale i frati contavano le Ave Maria recitate a migliaia, un abbozzo del nostro rosario attuale. Ci si atteneva al numero aureo delle tre cinquantine: all’inizio del XV secolo si arriva a enumerare i Misteri della vita della Madre di Dio, orientando la preghiera allo spirito della devozione dei giorni nostri. Vi si incorporano le 15 gioie di Maria e i 7 dolori della Vergine, predetti da Simeone (Luca 2,35). Il rosario si diffonde nel popolo grazie al domenicano bretone, il beato Alario della Rupe (1428-1475) che propaga la devozione al Salterio della Vergine nel nord della Francia e nelle Friande, organizzando ovunque Confraternite del Rosario per “essere liberati dalla morte subitanea e dai malvagi assalti del nemico infernale” (A. Wilmart). Il beato Alario della Rupe sembra attribuire l’invenzione del rosario al patriarca del suo Ordine, san Domenico. Tuttavia, testimonianze imprecise, racconti leggendari abbondano, si intersecano e si contraddicono nelle varie rappresentazioni che si possono trovare a migliaia nelle chiese della Riforma cattolica, nelle cappelle curate dalle confraternite del rosario. Fonte di queste leggende è il “Rosarium”, un lungo poema mariano composto da un domenicano verso la metà del XIV secolo. L’assenza totale di testi non permette di attribuire al fondatore dei Predicatori l’invenzione della pia pratica mariana, geniale nella sua semplicità. Ma nessuno può negare il rapporto speciale, nel corso dei secoli, tra il rosario e i Domenicani. A Giacomo Sprenger (1436-1496) è da attribuire la ripartizione in misteri gaudiosi, dolorosi e gloriosi, facendo del rosario una vera preghiera della Chiesa. Papa Pio V, domenicano austero e pio, attribuì alla preghiera del rosario la vittoria di Lepanto (1571) che fermò l’avanzata dei turchi mussulmani in Europa. Il Senato di Venezia riconobbe e fece iscrivere la vittoria a “Maria del rosario” celebrata come “Nostra Signora della Vittoria”. La liturgia domenicana ha incorporato la promessa del fondatore, pregandolo di realizzarla, con un responsorio che data a una ventina d’anni dopo la morte di Domenico: “Quale meravigliosa speranza hai dato a coloro che ti piangevano nell’ora della morte: tu hai promesso di venire in aiuto dei tuoi frati: compi dunque la promessa…”. Domenico è stato “araldo della salvezza quando scese la sera del mondo”, come afferma un inno di celebrazione della festa nel 1232. Domenico è “la stella della sera che si illumina quando il mondo già declina verso la fine; è il precursore del secondo Avvento del Signore e il testimone dell’imminenza della venuta del Giudice Sovrano”. La preghiera di Domenico è la vittoria contro la morte, è il sollievo nel trapasso, è la garanzia della “grazia della predicazione”. Domenico lasciò ai frati quanto possedeva: “abbiate la carità, conservate l’umiltà, praticate la povertà volontaria”. Umiltà, sobrietà, disprezzo delle cose del mondo. Il “testamento di Domenico”, come quello di Francesco, ha svolto un ruolo non piccolo anche nella polemica sulla povertà comune nell’Ordine, nei secoli XV e XVI. Gli storici hanno rinunciato a vedervi un vero “testamento” ma le prescrizioni ivi contenute corrispondevano e si identificavano alla vita e ai desideri di san Domenico.

In realtà, l’eredità di Domenico è la sua opera, i suoi frati, le sue suore, i suoi laici. E per continuarla Giordano di Sassonia ne era l’esecutore testamentario. L’intelligenza e il discernimento spirituale di Domenico gli avevano fatto presentire in Giordano di Sassonia, maestro in lettere e filosofia, uno di quegli esseri che, per natura e per grazia, congiungono santità di vita, profondità di dottrina spirituale, efficacia di comando e non comuni doti di tatto, sensibilità tanto viva quanto dominata. Animatore di giovani studenti, nella sua immensa attività di predicazione, di fondazione di comunità, di legislazione dell’Ordine, non meno che nei suoi innumerevoli viaggi (l’ultimo, in mare, gli costa la vita lungo le coste siriane, nel febbraio 1237) Giordano non solo continua l’opera di Domenico ma si appoggia incessantemente sul padre Domenico “già arrivato presso il Signore per essere il nostro avvocato. Sì, sì, buon maestro, sì, così sia, io ti supplico, illustre guida, padre sostentatore!”. Nella Chiesa Cattolica la paternità è legata al ministero, al Vangelo. “Io, mediante il Vangelo, vi ho generati in Gesù Cristo” (1 Corinti 4,15; Galati 4,19; Efesini 3,15). Non esiste “una” scuola domenicana di spiritualità: sono molti i grandi spirituali domenicani che hanno rispecchiato il modo di essere, di vivere e di pregare di Domenico. E non esiste neppure “un” metodo domenicano di orazione. L’irradiamento di Domenico si opera soprattutto su tutti coloro che, in un modo o nell’altro, richiamandosi a lui, vogliono “predicare”. Frati, suore e laici domenicani, in una specie di microcosmo del popolo di Dio, si rifanno alla fecondità del loro e nostro Padre Domenico, e la manifestano. In realtà, la grazia di Domenico si estende ben al di là del suo Ordine. L’esempio più prestigioso è quello di santa Teresa d’Avila.

La Santa il 30 settembre 1574 fece visita alla “grotta” di san Domenico, nel convento dei Predicatori di Segovia, dove la tradizione riferisce che il Padre dei Predicatori era venuto a pregare. Nella cappella della Santa Croce ebbe per due volte la visione di Domenico. La prima volta le promise di “favorirla e aiutarla senza tregua nella riforma del Carmelo e dei carmelitani”. Nella seconda il Signore le apparve con Domenico e le disse, mostrandogli il santo:“Rallegrati col mio amico”. “Totalmente domenicana di cuore”, Teresa ebbe il sostegno di non pochi figli di san Domenico. Non bisogna stancarsi di ripetere che il fascino di Domenico è quello del Vangelo, della sua Grazia, della sua Parola. Domenico non ci ha lasciato nessuno scritto. Ma tutta la sua vita come è stata raccolta, il suo insegnamento come è stato trasmesso e la speranza che lui stesso ha promesso, pronunciano questa Parola di grazia, capace di toccare i cuori di tutti. Certamente certa “cultura” letteraria e cinematografica di sinistra made in Europe, non è stata affatto generosa con l’Ordine Domenicano in questi anni. Per non parlare del cinema italiano. Sono state confezionate pellicole scandalose sulla falsa riga di romanzi altrettanto ingiuriosi niente affatto fedeli alla verità storica di fatti e persone. Si è romanzato fin troppo bene, alterando fatti e circostanze per puro spettacolo e compiacente odio alla Chiesa, senza però avere il pudore di inventare anche i nomi dei personaggi protagonisti. E’ giunta l’ora di fare giustizia con grandi produzioni “commerciali e culturali” per far conoscere a tutti la figura vera di san Domenico e dei suoi santi frati predicatori, autentici Apostoli della Verità del Vangelo tra i popoli della Terra.

Nicola Facciolini

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