Israele e Palestina: prove di dialogo diretto

Chi conosce quei luoghi, sa bene che le cose in quella terra non restano mai immodificaei e che, anzi, esse si trasformano con una notevole ed a volte imprevista rapidità. Basti vedere i cambiamenti nel tempo della carta geografica di Israele e dei Territori Palestinesi e, in particolare, la variazione del numero e dell’estensione degli […]

Chi conosce quei luoghi, sa bene che le cose in quella terra non restano mai immodificaei e che, anzi, esse si trasformano con una notevole ed a volte imprevista rapidità. Basti vedere i cambiamenti nel tempo della carta geografica di Israele e dei Territori Palestinesi e, in particolare, la variazione del numero e dell’estensione degli insediamenti israeliani negli ultimi anni. Scomparsi dalla striscia di Gaza, sono aumentati a dismisura nell’area di Gerusalemme ed in Cisgiordania. Ne spuntano di nuovi con una tale velocità che le mappe più recenti in circolazione non ne contemplano alcuni la cui costruzione è già terminata o è in via di ultimazione. Come annunciato ad inizio di agosto dal premier Benjamin Netanyahu, domani dovrebbero riprendere i negoziati diretti fra  Israele e l’Autorità nazionale palestinese, favoriti non solo da USA e Russia, ma anche dal presidente egiziano Hosni Mubarak e dal monarca giordano Abdallah. Resta ferma la richiesta  del capo-negoziatore palestinese Saeb Erekat, che ingiunge come condizione preliminare per la riapertura dei la fine alle attività edilizie nelle colonie, mentre molti esponenti del Governo d’Israele, dichiarano che sottostaranno ad alcuna condizione preliminare.  Negoziati  indiretti fra Anp e Israele, condotti, con la mediazione statunitense  erano ripresi il 9 maggio scorso, diretti ad affrontare e risolvere tutte le questioni relative allo status finale dello Stato palestinese:  dalla demarcazione delle frontiere,  fino alle garanzie di sicurezza per Israele. La missione è stata contrassegnata dal motto “Time for Responsibilities”, parole mutuate da quelle pronunziate dal Presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama che al Cairo il 4 giugno scorso ha detto: “Per giungere alla pace in Medio Oriente, è ora che israeliani e palestinesi – e noi tutti con loro – ci assumiamo le nostre responsabilità”. L’unico effetto che ha avuto finora Obama, premio Nobel per le buone intenzioni, è stato il consiglio ricevuto da Netanyahu e Lieberman di occuparsi più di Afghanistan ed Iraq e meno di Israele, le cui ruspe in questo primo anno di presidenza Obama abbiamo visto continuare ad abbattere case di palestinesi e le cui gru non hanno mai cessato di mettere un mattone sull’altro per costruire nuovi insediamenti.  Lo scorso 5 agosto, dal carcere in cui è detenuto dal 2002, il leader di al-Fatah in Cisgiordania, Marwan Barghouthi, condannato a 5 ergastoli, ha attaccato la politica di Abu Mazen e la decisione di riprendere i colloqui con lo stato ebraico. “I colloqui con Israele, diretti o indiretti vanno contro gli interessi dei palestinesi. Israele usa i colloqui come copertura per proseguire nella sua politica degli insegnamenti e dell’embargo”. Al-Barghouthi ha trasmesso le sue dichiarazioni tramite un avvocato al giornale arabo al-Sharq al-Awsat, e ha aggiunto: “L’unica condizione per riprendere il processo di pace è che Israele si ritiri subito entro i confini del 1967”. Due grandi esperti della questione, David Horowitz e Jacob Laksin, scrivono oggi sul National Review, che va comunque ricordato, nonostante gli errori commessi, fino al recente attacco alla “freedom flottilla”,  turca del giugno scorso (vedi video su: www.youtube.com%2Fwatch%3Fv%3DdLrX7fznVgI&ei=TuBoTI2OJtKOOIehzLkF&usg=AFQjCNGTXB_tOyfkatFLcO-Jb03JDDpVHg&sig2=7zIW9T_9oDpQV1CCQLeOrw) , che Israele è la nazione al mondo con il maggior numero di minacce attive. Geograficamente piccolo, Israele è circondato da teocrazie che rifiutano la sua esistenza come una “nakba” – una catastrofe – e ne reclamano la distruzione. Per realizzare questa perversa ambizione, gli islamici anti-israeliani hanno mobilitato tre forze armate missilistiche, pienamente devote alla causa di cancellare Israele dalla faccia della terra. La prima e più aggressive tra loro è stanziata a Gaza; si tratta di Hamas, un partito religioso e fanatico ufficialmente impegnato nella missione di distruggere Israele e uccidere i suoi ebrei. Hamas è una creazione della Fratellanza musulmana, l’ispiratrice di al-Qaeda e della jihad globale, il cui motto ufficiale recita: “La morte al servizio di Allah è la nostra più grande aspirazione”. A Gaza, Hamas ha creato uno stato terrorista e un culto nazionale della morte che culmina nell’elogio del martirio, il cui scopo è dichiarato apertamente in un proclama indirizzato direttamente ai “nostri figli”: “Gli ebrei – fratelli delle scimmie, assassini del profeta, succhiatori di sangue, guerrafondai – vi stanno uccidendo, vi privano della vita dopo avervi preso la vostra terra e le vostre case. Solo l’Islam può spezzare gli ebrei e distruggere il loro sogno”. Dato che la passione che muove i militanti di Hamas è l’odio verso gli ebrei, non è stata una sorpresa la risposta da loro data nel 2005 al ritiro unilaterale di Israele da Gaza. Lungi dal salutarlo come un gesto di pace, Hamas l’ha interpretato come una resa ai suoi attacchi terroristici, e come un’opportunità per intensificarli. Nei giorni e nei mesi seguiti al ritiro, Hamas ha lanciato 6.500 attacchi missilistici non provocati su città e scuole israeliane, prima che Israele decidesse di rispondere. Al confine orientale di Israele c’è la West Bank, terra delle brigate dei martiri di al-Aqsa, del Fronte di liberazione palestinese e di altri gruppi terroristici, armati e protetti dai cosiddetti “moderati” dell’Autorità palestinese. Come Hamas, l’Autorità palestinese rifiuta ufficialmente l’esistenza di Israele e il diritto dei suoi ebrei all’autodeterminazione. Come Hamas, l’Autorità palestinese insegna ai bambini che frequentano le sue scuole ad odiare gli ebrei e ad ambire ad ammazzarli, compiendo il martirio. Per riuscire in questo intento genocida, tutti gli scolari palestinesi studiano mappe geografiche della regione che riportano i luoghi da dove gli israeliani sono stati cancellati. Al nord di Israele, in Libano, c’è Hezbollah, il “Partito di Dio”, che sta ammassando decine di migliaia di missili iraniani in vista della guerra di annientamento che ha promesso di scatenare un giorno contro lo stato ebraico. Creata dalla Guardia repubblicana irachena e rifornita dalla dittatura siriana (ufficialmente) “fascista”, Hezbollah è il più grande esercito terrorista del mondo. Come Hamas, ha reso espliciti il suo odio verso Israele e i suoi piani nei suoi confronti (“finiremo il lavoro iniziato da Hitler”). Il suo fanatico leader, Hassan Nasrallah, guida migliaia di fedeli in cantiche che recitano “Morte a Israele! Morte all’America!”. Tra le sue frasi: “Se gli ebrei si riuniscono tutti in Israele, ci risparmieranno la fatica di andarli a cercare in giro per il mondo”. Sotto lo sguardo complice dei “peacekeepers” dell’Onu, Hamas continua ad ammassare missili il cui unico scopo è la cancellazione di Israele. Nel maggio del 2006, Nasrallah proclamò: “Oggi tutta Israele è alla nostra portata. Porti, basi militari, fabbriche: tutto è entro il nostro raggio”. Ma è lo sponsor di Hezbollah, lo stato totalitario – e presto nucleare – dell’Iran, il più minaccioso pericolo per l’esistenza di Israele. I suoi dittatori dalle mani lorde di sangue hanno inseguito la distruzione di Israele sin dal 1979, quando l’Iran divenne una repubblica islamica e il suo governante teocratico, l’Ayatollah Khomeini, identificò Israele e l’America come “il piccolo Satana” e “il grande Satana”. Il suo ex presidente Akbar Hashemi Rafsanjani ha pubblicamente annunciato il suo sostegno a una guerra nucleare contro la stato ebraico, in base al ragionamento secondo cui, essendo l’Iran settanta volte l’estensione di Israele, potrebbe sopportare un duello nucleare con quel paese, che ne uscirebbe invece distrutto. L’attuale leader iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, si è anche lui espresso nell’auspicio che America e Israele siano “spazzati via dalla carta geografica”, senza che ciò provocasse alcun dissenso nei 56 stati che compongono la Conferenza islamica. I dilettanti di semantica insistono nel dire che le parole di Ahmadinejad sono state mal tradotte, e che quel che egli voleva effettivamente dire era che America e Israele devono essere “cancellati dalle pagine della storia”. Si tratta di una distinzione irrilevante. Che altro vorrebbe dire quella frase, se non che America e Israele non debbano continuare a esistere? Nel frattempo, l’Iran continua nella costruzione di missili nucleari a lungo raggio che non possono essere usati che per uno scopo, e nessun serio sforzo di contrastare una tale ambizione è stato fatto dalla comunità internazionale o dagli Stati Uniti. In effetti, dove sta la comunità internazionale di fronte a questa sfrontata preparazione di un secondo Olocausto? Sin dalla creazione dello stato di Israele, nel 1948, gli stati arabi hanno condotto tre guerre d’aggressione convenzionali, non provocate, contro di esso, insieme con una ininterrotta guerra terroristica iniziata nel 1949. Eppure, tra il 1948 e il 2004, ci sono state 322 risoluzioni dell’Assemblea generale dell’Onu che hanno condannato la vittima, Israele; nessuna che abbia condannato uno stato arabo. Le Nazioni Unite sono oggi dominate dalla Conferenza islamica, un gruppo fondato nel 1969 nel corso di un incontro indetto in risposta – come si legge sul suo sito web – “del rogo criminale della moschea di al-Aqsa nella Gerusalemme occupata”. In altri termini, in risposta a quei criminali di ebrei. La Conferenza islamica emette regolarmente risoluzioni unilaterali di condanna ad Israele, in particolare dei suoi sforzi di combattere il terrorismo palestinese e di stroncare il traffico di armi attraverso Gaza. Il più conosciuto attacco delle Nazioni Unite a Israele è il Goldstone Report, commissionato dal Consiglio dei diritti umani dell’Onu nel settembre del 2009, in cui Israele viene condannata per la sua tardiva reazione agli attacchi missilistici non provocati di Hamas.

Carlo Di Stanislao

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