(Marchio)nne di fabbrica

Almeno a parole tutto è molto semplice secondo l’illuminato (per Obama e Marcegaglia ed anche per la triplice; ma non per la Fiom) Marchionne, che nel suo intervento al meeting di Rimini ci dice che il guaio dell’Italia è la paura di cambiare. Il grande manager senza macchia e senza paura, con nascita abruzzese e […]

Almeno a parole tutto è molto semplice secondo l’illuminato (per Obama e Marcegaglia ed anche per la triplice; ma non per la Fiom) Marchionne, che nel suo intervento al meeting di Rimini ci dice che il guaio dell’Italia è la paura di cambiare. Il grande manager senza macchia e senza paura, con nascita abruzzese e residenza svizzera, afferma che la crisi ha reso evidente la debolezza della struttura industriale italiana e, alla fine, sono i lavoratori a pagarne indebitamente le conseguenze. Strana posizione davvero, dopo gli insulti agli stessi, definiti, durante Pomigliano, Termini Imeresi e Melfi, assenteisti e lavativi. E dopo un passaggio “pro domo sua” (in cui si autocelebra per l’accordo Chrysler che offre oggi alla FIAT una posizione di leadership in America latina), si dice ancora di essere disposto a non sbattere la porta in faccia a nessuno (aveva usato espressioni diverse al vertice di Torino convocato da Ciamparino), ma invece di avere “grandissimo rispetto per il Presidente della Repubblica come persona e per il suo ruolo istituzionale” e di accattare “da lui l’invito a cercare di trovare una soluzione” alla vicenda dei tre operai di Melfi. Come dire: “trovala tu una soluzione che contenti la Fiom ma non crei un precedente per la mia politica duramente ferma su posizioni da era protoindustrale”. Per il numero uno del Lingotto l’imprenditore, in generale, “merita se non stima, almeno rispetto”, poiché “la responsabilità associata ai suoi compiti e’ enorme”. Si lamenta dei “rischi che si assume, degli impegni che prende, degli sforzi che compie per aprire la strada, ad uno sviluppo internazionale dell’azienda e all’impatto che le sue scelte possono avere sulla società. Cosa dire allora degli stipendi di chi si assume il rischio di educare la nuova classe dirigente, nelle scuole dell’obbligo e all’università o di quelli dei medici ospedalieri che ogni volta rischiano senza rete di sicurezza, nel tentativo di salvare i pazienti loro affidati? E come giustifica il fatto, che anche considerando il diverso carico di rischio, lui prende 400 volte più di un suo operaio e, soprattutto, questo se sbaglia deve andare a casa, mentre il manager che facesse operazioni sballate al massimo raddoppierebbe il suo premio? Bene ha fatto Emanuele De Nicola, segretario regionale della Fiom Basilicata, che ha caldo ha commentato: “Marchionne deve capire che gli operai non sono automobili e che il progresso non può avanzare a discapito delle loro condizioni lavorative”. La competizione deve esserci ed anzi è necessaria, ma solo tra i prodotti e non tra i lavoratori. Quanto poi alle lamentele (espresse sino a ieri) sui lavoratori, va precisato che, dati alla mano, lo stabilimento di Melfi è tra i più produttivi d’Europa ed ha festeggiato, quest’anno, i 5 milioni di auto prodotte, senza però dividenti per chi era alla catena di montaggio. Non ci meraviglia l’apprezzamento di Capezzone, che dice: “’ davvero auspicabile che la politica italiana abbia la lungimiranza di sostenere Sergio Marchionne, che si sta dimostrando un coraggioso innovatore”. Ciò che ci meraviglia, invece, sono i partiti detti di sinistra e le forze sindacali, che lo apprezzano o tacciono. Non è bello sentire che da Rimini Marchionne ringrazia Bonanni ed Angeletti, né che, ad horas, nessun commento critico sia venuto dai progressisti. Sempre a Rimini Marchionne ha anche detto che occorre abbandonare la visione che vede una lotta fra capitale e lavoro e fra padroni e operai. Bene: cominci lui rispettando lo statuto dei lavoratori e quanto stabilito dal tribunale del lavoro. Il 26 marzo, con l’approvazione di Montezemolo, all’assemblea dei soci Fiat, aveva detto che sulla casa torinese “si è concentrato un tiro al bersaglio non tanto dai giornali, ma da esponenti politici, sindacali e anche imprenditoriali, tutte critiche che “non tengono per niente conto dei grandi risultati ottenuti dall’azienda negli ultimi anni” . Ma quali critiche e tiri al bersaglio se sono tutti, o quasi, d’accordo con lui e, a parte la Fiom, è il vecchio Napolitano a dire, al solito, qualcosa di sinistra? Se è vero che vorrebbe non tanto gli elogi (come è accaduto nel caso di Obama), ma “equilibrio e giustizia”, cominci ad applicare lui questi metri. Il 1° agosto a Detroit, mentre veniva accolto come un salvatore della patria, al punto che anche l’inquilino della Casa Bianca lo ha ringraziato pubblicamente e lo ha apostrofato come autore di “un gran lavoro“, Marchionne non ha dimenticato di lanciare la “solita” frecciatina all’Italia, commentando le difficoltà che la sua azienda sta attraversando con queste precise parole: “In Italia Fiat ha responsabilità che vanno al di là di una casa automobilistica. E il ruolo che il governo americano ha giocato qui è molto diverso da quello giocato in Italia“. Bene. Secondo lui, allora, è colpa di governo e lavoratori se le cose vanno male e per farle andare meglio, occorrono ancora prestiti e sgravi fiscali, con in più operai trasformati in autentici schiavi. La verità su ciò che crede (schermata dalle dichiarazioni contraddittorie rese, in varie circostanze), l’ha contenuta in un passaggio cruciale proprio a Detroit, nel giorno della sua beatificazione. Per lui la strada dell’industria automobilistica passa per tagli, ristrutturazioni e chiusure di stabilimenti. Soprattutto in Europa dove “il settore automobilistico resta virtualmente l’unico settore a non aver ancora razionalizzato la produzione. L’Europa lo scorso anno ha utilizzato il 75% della propria capacità, una quota che potrebbe scendere al 65% quest’anno. Semplicemente perché i produttori europei non chiudono le fabbriche“.Un discorso improntato a principi di efficienza e liberismo, in cui ha citato anche Karl Marx, ma che ha riempito di incongruenze. Come si chiedeva Panorama già da allora, è giusto dare delle “bambinaie” ai governi europei, anche dopo che sono stati chiesti e concessi generosissimi incentivi per stimolare il mercato automobilistico?  E pur capendo la necessità di lodare il nuovo “socio di fatto” di Chrysler, ovvero il governo americano, prima di ricorrere al Chapter 11 e alle ristrutturazioni inevitabili, non bisognerebbe ricordare la quantità enorme di soldi dei contribuenti pompati nelle casse di GM e Chrysler per evitarne il fallimento, secondo principi opposti a quelli di liberismo rispettoso a cui lui dice di richiamarsi?

Carlo Di Stanislao

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