Tutti a “squola”

La più parte delle classi ha riaperto i battenti e il ministro dell’istruzione Mariastella Gelmini, risponde ai cronisti che le chiedono un commento sulle proteste dei precari, non ultima quella di ieri allo Stretto di Messina, affermando: “Non ricordo un anno scolastico che non sia stato accompagnato da una serie di polemiche e proteste”. L’anno […]

La più parte delle classi ha riaperto i battenti e il ministro dell’istruzione Mariastella Gelmini, risponde ai cronisti che le chiedono un commento sulle proteste dei precari, non ultima quella di ieri allo Stretto di Messina, affermando: “Non ricordo un anno scolastico che non sia stato accompagnato da una serie di polemiche e proteste”. L’anno scolastico, ha assicurato il ministro, partirà regolarmente. “Proprio ieri – ha spiegato – abbiamo effettuato un controllo con gli uffici scolastici regionali e riteniamo che l’anno scolastico possa essere avviato in maniera regolare. Tutte le immissioni in ruolo sono state fatte così come le supplenze sono state assegnate. Per quanto riguarda i precari sono stati siglati gli accordi con le Regioni. Il lavoro oneroso che si compie tra fine agosto e i primi di settembre è stato completato nel migliore dei modi”. Il governo, ha proseguito la ministra di ferro, ha predisposto questa riforma, ma “la vera sfida deve essere raccolta innanzitutto dagli insegnanti, perché a loro tocca l’onore di applicarla e di collaborare per rendere la scuola davvero un’istituzione per eccellenze”. Intanto, come segnala oggi Il Sole 24 Ore, la protesta continua ed anzi, monta. La Rete degli studenti ha organizzato una protesta folcloristica: i manifestanti, davanti alle scuole, indossano caschetti gialli da lavoro, “per proteggersi la testa – dicono – dalle macerie che la Gelmini e Tremonti hanno causato”. Tito Ruso, dell’Uds, Unione degli studenti, ha invece indetto una “mobilitazione nazionale dei ragazzi per venerdì 8 ottobre contro la politica scolastica del governo”. Per il segretario Pdci, Oliviero Diliberto, “Quella della Gelmini è una classica controriforma che fa della scuola italiana la caricatura di quella che s’è andata costruendo fin dal dopoguerra”. Per Bersani, la Gelmini ha prodotto il più massiccio licenziamento pubblico dal dopoguerra. E primo giorno di lezione è “agitato” anche al liceo classico Tito Livio di Padova (che annovera tra i suoi diplomati anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano): una volante della Polizia è intervenuta questa mattina a causa di un fitto lancio di uova di cui sono stati oggetto alcuni studenti delle prime classi dell’istituto. Mentre è già super lavoro per il preside Francesco La Teana, a Milano: doveva occuparsi di un istituto superiore, ma si è trovato preside anche di un polo che comprende una scuola materna, una elementare e due medie. Il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, a cui la sinistra nuova e riformista guarda con speranza (come a Ciamparino e Renzi),  ha definito il primo giorno di scuola come ”il giorno più brutto dal dopoguerra”. Pronta la controreplica di Francesco Pasquali, consigliere regionale del Lazio del Pdl, il quale dice: “’Il presidente della Provincia di Roma, anziché rilasciare dichiarazioni funeree,  dovrebbe prendere atto che i lavoratori della scuola non sono stati lasciati soli né dal Governo nè dalla Regione. Come ha ben ricordato il ministro Gelmini oggi gli studenti delle scuole superiori disporranno di una scuola che fornirà maggiori strumenti per affrontare il difficile mondo del lavoro”. Rosario Lavornia su Italia H24 it, scrive che la simbolica protesta sulle due sponde dello stretto è servita a lanciare un messaggio chiaro al governo e a Berlusconi che più che di un ponte sullo stretto, l’Italia avrebbe bisogno di un ponte tra la Scuola ed i precari che oramai hanno raggiunto una cifra astronomica. Intanto Maria Stella Gelmini risponde da lontano ai precari, stanca di essere fischiata e contestata. “Per risolvere il problema dei 220 mila precari l’unica soluzione è il numero programmato che sarà introdotto da quest’anno. Nell’arco di 8 anni, grazie ai pensionamenti, circa 21 mila l’anno e grazie anche alle nuove immissioni in ruolo, sarà possibile entro il 2018 dare risposta a tutti i precari che abbiamo ereditato dalle passate legislature. Saranno 150 mila le immissioni in ruolo, mentre per le restanti 70 mila persone si tratterà di contratti a tempo determinato”. Ma, si chiedono in molti, se si usassero per tempi più brevi e certezze più alla portata i soldi per un ponte faraonico ed unitile che Berlusconi vuole a sua futura memoria? Va tuttavia detto, come già si segnalava nel 2008 da parte di acuti ed attenti educatori, che la riforma Gelmini – giusta o sbagliata – nasce dalla lettura di una realtà che parla chiaro: negli ultimi 10 anni gli alunni sono diminuiti e la spesa pubblica per l’istruzione è cresciuta invece di oltre 10 miliardi. Il 97% di questa spesa è assorbito dagli stipendi. La nostra spesa per studente è la più alta d’Europa, mentre il rapporto studenti-docenti è il più basso d’Europa. Ci sono atenei che hanno un debito da far paura, di cui nessuno spesso è chiamato a rispondere. Ci sono insegnanti sottopagati. Ricercatori che devono andarsene o accontentarsi di uno stipendio da fame. Ci sono baroni che stipendi ne hanno tre o quattro. Ci sono vecchi preziosi insegnanti e insegnanti vecchi, ancorati al potere che solo la cattedra dà. Ci sono vecchi splendidi edifici ed edifici vecchi. Strutture desuete in cui non c’è l’ombra di un computer: in fatto di tecnologie didattiche siamo gli ultimi in Europa. Ci sono scuole create per ricevere contributi e altre che formano generazioni e che sono presidio sociale di aree difficili.  Da qui nasce la protesta contro la chiusura delle scuole o – a un altro livello – dei corsi che non funzionano. Lingua, scienza e matematica sono le materie in cui andiamo peggio. Asini. Più che troppo, spendiamo male. Più che poco, studiamo male. C’è chi non studia proprio: neanche il 50% degli iscritti si laurea.  L’emergenza è anche etica: i figli di oggi non possono essere rimproverati, ma solo accarezzati e promossi.  Tutto questo è vero, ma è anche vero che la riforma non risolve alcuni problemi di base e strutturali: classi sovraffollate, cattedre vuote e senza nomina di supplenti, edifici non a norma e stipendi da fame. Ma cerchiamo di capire il problema fra chi vuole una riforma calata dall’alto e fatta di tagli ed imposta dall’alto. Per capire le difficoltà che il cambiamento pone alla scuola e il difficile rapporto che la scuola ha con il cambiamento, bisogna prima di tutto domandarsi quali sono i compiti che la società assegna alla scuola. La società assegna alla scuola due compiti. Il primo compito e’ trasmettere il sapere e la cultura del passato alle nuove generazioni. Diversamente dagli altri animali che ereditano i loro comportamenti belli e fatti per via genetica o li acquisiscono tramite l’esperienza e l’apprendimento individuale, gli esseri umani imparano dagli altri quasi tutto quello che sanno e che sanno fare. I piccoli imparano dai grandi comportamenti, conoscenze e valori, e in questo modo il sapere e la cultura vengono trasmessi e mantenuti nel succedersi delle generazioni. Nelle società semplici non e’ necessaria nessuna istituzione specifica che si occupi della trasmissione del sapere. Sono sufficienti i genitori, i maestri artigiani, qualunque altro individuo con cui si interagisce nella vita di tutti i giorni. Nelle società più complesse la trasmissione del sapere e della cultura e’ affidata a un’istituzione apposita, la scuola.  La trasmissione culturale ha delle somiglianze con la trasmissione per via genetica, quella che passa attraverso il DNA. In entrambi i casi vi e’ “discendenza con modificazione” (“descent with modification”), come diceva Darwin. La “discendenza” significa il mantenimento del passato, il suo riprodursi in altri individui dopo che gli individui precedenti sono scomparsi. Biologicamente, i figli hanno gli stessi geni dei genitori. Culturalmente, la nuova generazione eredita il sapere e la cultura della generazione precedente. La “modificazione” e’ dovuta a due fattori. Il primo e’ che la “discendenza” e’ selettiva. Non tutto viene ugualmente riprodotto. Biologicamente, non tutti gli individui si riproducono o hanno lo stesso numero di figli, per cui alcuni corredi genetici individuali si riproducono più di altri. Culturalmente, non tutti i modi di comportarsi, o le idee, o i prodotti tecnologici della generazione precedente vengono trasmessi alla generazione successiva. L’altro fattore che produce la “modificazione” sono i cambiamenti che ogni generazione apporta a ciò che viene trasmesso, in modo che vi sia evoluzione, e non pura conservazione e stasi. Nel caso della trasmissione per via genetica, il cambiamento sono le mutazioni genetiche che modificano il DNA e la ricombinazione genetica sessuale, cioè il ricombinarsi di parti del DNA della madre e di parti del DNA del padre nel DNA del figlio o della figlia, per cui i figli somigliano ma non sono identici ai loro genitori. Nel caso della trasmissione culturale, il cambiamento e’ l’invenzione di nuove conoscenze, di nuovi modi di comportarsi e di nuovi prodotti del comportamento, per cui ogni generazione consegna alla generazione successiva una cultura simile ma non identica a quella che ha avuto in eredità dalla generazione precedente.  Nell’organizzazione della società la scuola ha soprattutto il compito della “discendenza” culturale, cioè della trasmissione e conservazione del passato. Il compito della “modificazione”, cioè del cambiamento e dell’introduzione di novità nella società e nella cultura, e’ affidato alla ricerca scientifica, artistica, organizzativa, e alla creatività in ogni campo delle attività umane, inclusa ovviamente anche l’attività di insegnare e di imparare. Il fatto che alla scuola spetti il compito della “discendenza”, cioè della conservazione e trasmissione del passato, va tenuto ben presente se vogliamo capire quale può essere il rapporto della scuola con il cambiamento. Ma la scuola ha anche un secondo compito, oltre a quello di trasmettere il sapere e la cultura. Il secondo compito della scuola e’ preparare i giovani alla società in cui vivranno, in modo che essi siano prima di tutto in grado di capire quella società e poi di contribuire al suo cambiamento. Le società umane non sono tutte uguali, sono diverse a seconda dei tempi e dei luoghi, e soprattutto cambiano nel tempo. Perciò le diverse società richiedono conoscenze, comportamenti e valori diversi nelle persone che debbono vivere in esse. Quello che ci si aspetta dalla scuola è che dia ai giovani le conoscenze, le abilità e anche i valori appropriati alla società in cui vivranno da adulti. Se questi sono i due compiti fondamentali che la società assegna alla scuola, trasmettere il sapere e attrezzare i giovani alla società in cui vivranno da adulti, la domanda è: Che rapporto c’è tra i due compiti? I due compiti si possono armonizzare tra di loro in modo che la scuola li possa adempiere entrambi senza incontrare particolari problemi? Se il cambiamento nella società e nella cultura e’ lento, la scuola può svolgere entrambi i compiti in modo armonico e senza troppi problemi. Questo e’ quello che e’ successo fino ad oggi. E’ vero che la società cambia sempre, e quindi cambiano la cultura, i comportamenti, le conoscenze, i valori trasmessi per apprendimento dagli altri, ma se il cambiamento non è veloce la scuola può trasmettere la cultura della generazione precedente con i limitati aggiustamenti intervenuti nel frattempo, e nello stesso tempo preparare i ragazzi alla società in cui vivranno da adulti. La società in cui gli studenti vivranno da adulti sarà un pò diversa da quella attuale o da quella di qualche anno o decennio addietro, ma non di molto. Perciò la scuola può trasmettere la cultura del passato sapendo che nel frattempo adempie anche al suo secondo compito, preparare i giovani a vivere nella società in cui sono destinati a vivere. Le cose si complicano se il cambiamento sociale e culturale è rapido. Se diventa veramente veloce, i due compiti della scuola entrano in contrasto tra loro. La scuola trasmette la cultura del passato (per definizione quello che si trasmette e’ il passato) ma, facendo questo, finisce per non preparare i giovani a vivere nella società in cui vivranno da adulti. La società in cui i giovani vivranno da adulti sarà diversa dalla società di adesso e, ancora di più, da quella del passato, anche recente, e richiederà comportamenti, conoscenze e valori diversi da quelli della cultura del passato. Ora basta dare uno sguardo rapido alla storia complessiva delle società umane per rendersi conto che esse sono caratterizzate da un’accelerazione continua del cambiamento. Se andiamo molto indietro nel tempo, all’inizio della storia umana, scopriamo che il cambiamento culturale era estremamente lento e quello che veniva trasmesso da una generazione alla successiva era praticamente identica a quello che ogni generazione aveva ricevuto in eredità dalla generazione precedente. Poi il cambiamento ha cominciato a diventare più veloce e sono diventati sempre più brevi i periodi di tempo necessari per vedere le cose cambiare. L’accelerazione è continuata fino ad oggi. Oggi il cambiamento è diventato così rapido che facciamo fatica a tenergli dietro e ad adattarci ad esso. Oggi la realtà sembra a molti meno comprensibile che in passato, e il futuro meno prevedibile, più estraneo, meno governabile che in passato. Una delle cause principali e’ il cambiamento troppo veloce. Il cambiamento troppo veloce rende la realtà poco comprensibile perché comprendere la realtà significa interpretarla in base agli schemi che abbiamo appreso. Ma gli schemi appresi da giovani, o magari soltanto qualche anno prima, diventano inoperativi e inappropriati per il fatto che la realtà che dovevano servire a interpretare nel frattempo è cambiata. Non disponendo di schemi interpretativi appropriati, e’ inevitabile che la realtà ci sembri poco comprensibile, poco prevedibile, poco controllabile. E la scarsa comprensibilità della realtà produce malessere – almeno fino a quando non ci abitueremo a vivere senza provare malessere in una realtà poco comprensibile, se e’ questo quello che ci succederà in futuro. Quindi il problema numero uno della scuola, il primo problema “vero”, è il cambiamento. Per uscire dal conflitto in cui la società oggi la precipita, la scuola dovrebbe essere pronta a cambiare e a cambiare profondamente, riesaminando alla radice i suoi compiti e i modi di adempierli. Invece la scuola è la sola istituzione della società che non cambia e che anzi ha una particolare resistenza a cambiare. Per un’istituzione sociale che, per assolvere ai suoi compiti, deve guardare al futuro, questo è chiaramente il problema. La scuola così come la conosciamo è prima di tutto un edificio, le aule, le classi di alunni, le lezioni, gli insegnanti, i libri, i compiti, le interrogazioni, gli esami. Tutta questa struttura è messa in questione dalle nuove tecnologie. Le nuove tecnologie non possono essere “aggiunte” alla scuola perché, se entrano dentro la scuola, esse hanno la tendenza a fare “esplodere” la struttura fisica e organizzativa della scuola. La capacità delle nuove tecnologie di realizzare un apprendimento flessibile contrasta con la rigidità fisica e organizzativa della scuola, una rigidità che aveva un senso quando le uniche tecnologie disponibili erano la comunicazione faccia a faccia tra esseri umani, i libri, la lavagna e il gesso, e poco altro. Le caratteristiche del computer, cioè del “cuore” delle nuove tecnologie, le sue enormi capacità di conservare informazioni, di elaborarle velocemente, di tradurle da una modalità comunicativa all’altra, di trasformarle, di comunicarle da un punto dello spazio all’altro, e soprattutto la sua capacità di stabilire un’interazione tra essere umano e artefatto tecnologico assolutamente impensabile prima del computer – capacità oggi amplificate praticamente all’infinito dalla rete di Internet che cresce in ogni istante – rendono questa rigidità obsoleta. Se c’è accesso al computer questo significa letteralmente che chiunque (quali che siano le sue caratteristiche e la sua età) può imparare su qualunque argomento (che faccia parte di un curriculum stabilito di formazione o no), in qualunque luogo (dove sia disponibile un computer o qualcosa di collegato a un computer), in qualunque momento della giornata, e soprattutto seguendo qualunque modalità di apprendimento: lezione registrata e ascoltata, pagina del libro letta, navigazione solitaria in un ipertesto multimediale, cioè in una rete di nuclei di informazione seguendo un percorso scelto da chi apprende, apprendimento usando Internet come deposito sempre in crescita di ogni tipo di informazione, apprendimento collaborativo interagendo da vicino o a distanza con altri studenti o con tutor e esperti, apprendimento attraverso il linguaggio, le immagini e i suoni, apprendimento ottenuto manipolando come in un laboratorio sperimentale modelli simulati dei fenomeni su cui si vuole apprendere. Ma per fare questo ci vogliono famiglie meno prone alla tutela a priori dei figli ed insegnanti più garantiti e meglio motivati.  “In bocca al lupo a tutti! La scuola rappresenta il cantiere dove si costruisce il futuro di una Paese”, ha detto oggi l’ex ministro e disc jockey Luca Zaia ai ragazzi del suo Veneto ed aggiunto: “questo sarà, come sempre un anno di duro lavoro per tutti, ma sono certo che, alla fine, tutti i protagonisti ne usciranno consapevoli di aver fatto qualcosa di importante: i ragazzi per aver fatto un passo avanti nel loro cammino di formazione ai saperi e alla vita; gli insegnanti per aver trasmesso il meglio delle loro competenze e della loro professione; il corpo non docente per aver contribuito giorno dopo giorno affinché tutto vada per il meglio”.  Pensate a quale ironia si cela dietro queste parole che, lette al netto dell’enfasi politica, suonano come: non è un anno nuovo, solo un pochino più complicato e, pertanto, arrangiatevi. Ma Zaia è anche un raffinato conoscitore del sofisma ed aggiunge: “tutti dobbiamo riflettere sul fatto che per la scuola questo sarà un anno di svolta e di verifica delle riforme che sono state recentemente introdotte dal Governo. Sono certo che ognuno darà il suo costruttivo contributo – e che alla fine avremo elementi importanti per capire se la strada intrapresa è quella giusta”. Come dire: se poi le cose non vanno vedremo di cambiarle, ma, per carità, che non venga fuori che è colpa di questo governo.

Carlo Di Stanislao

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