Una guerra mai finita

E’ di almeno 29 morti e  111 feriti il bilancio dell’esplosione di due autobombe avvenute ieri a Baghdad, di cui ha riferito alle agenzie di stampa il ministero dell’Interno iracheno. Gli attentati sono avvenuti all’incrocio di Aden, nel nord della capitale e nel quartiere residenziale di Mansur, a ovest, davanti agli uffici della compagnia di […]

E’ di almeno 29 morti e  111 feriti il bilancio dell’esplosione di due autobombe avvenute ieri a Baghdad, di cui ha riferito alle agenzie di stampa il ministero dell’Interno iracheno. Gli attentati sono avvenuti all’incrocio di Aden, nel nord della capitale e nel quartiere residenziale di Mansur, a ovest, davanti agli uffici della compagnia di telefonia mobile Asiacell e a un ristorante di kebab. Secondo i simpatizzanti di Al-Qaeda, che scrivono sui forum jihadisti in Internet, è chiara la firma del gruppo terrorista dietro le stragi. Dopo il ritiro delle truppe la Casa Bianca ostenta ottimismo per la tenuta delle istituzioni di Baghdad, ma invece l’arcivescovo di Kirkuk, mons. Louis Sako, lancia  l’allarme sul pericolo di una guerra civile e di nuove profonde fratture nella società irachena. La situazione in Iraq è tutt’altro che normalizzata e, come ha affermato il deputato democratico ed ex candidato alla presidenza John Kerry, ma guerra in Iraq non è finita ed ora anche gli USA debbono “raccogliere i cocci” e superare le divisioni che attraversano il Paese. Quattro giorni fa, è stata pubblicata una pesante denuncia di Amnesty International secondo cui gli Stati Uniti hanno consegnato diverse migliaia di prigionieri iracheni alle forze di sicurezza di Baghdad, malgrado ci siano prove documentate di loro abusi sui reclusi. Come ha scritto il Secolo XIX, si stima che 30.000 persone siano state trattenute senza processo in Iraq e che 10.000 di queste siano state trasferite dalla custodia Usa nell’ultimo anno e mezzo. “Questo rapporto è infondato e inaccurato. Noi rispettiamo la legge ed osserviamo le norme sui diritti umani”, ha invece affermato il viceministro della Giustizia iracheno Busho Ibrahim. “Accogliamo chiunque per vedere le nostre prigioni e constatare come sono trattati i reclusi”, ha detto Ibrahim, aggiungendo che tutti i prigionieri sono detenuti in base a validi provvedimenti giudiziari.  Invece Amnesty sostiene che diversi prigionieri siano deceduti, probabilmente in seguito a torture o altri trattamenti brutali da parte di chi li interrogava o delle guardie. Malcolm Smart, direttore del programma per il Medio Oriente e Nord Africa di Amnesty International, ha dichiarato: “Le forze di sicurezza irachene sono state responsabili di sistematiche violazioni dei diritti umani dei detenuti,violazioni che hanno potuto commettere impunemente” ed aggiunto che gli USA si stanno comportando come Ponzio Pilato.  In questo contesto, Amnesty ha lanciato una cyberaction (vedi: http://www.es.amnesty.org/actua/)  con l’obiettivo di ottenere il sostegno sociale ed esigere che le autorità irachene pongano fine alle torture e altri maltrattamenti effettuati sul proprio territorio e per garantire l’accesso a un processo equo. L’organizzazione per i diritti umani ricorda il caso di Riyadh Mohammad Saleh al Uqaibi,  54 anni, sposato con figli, che morì in carcere il 12 o il 13 febbraio 2010 a seguito di una emorragia interna causata dai colpi che gli erano stati inferti durante l’interrogatorio: così brutali, da fratturargli le costole e ferirlo mortalmente al fegato. Stessa sorte era toccata ad un ex membro delle Forze Speciali irachene che era stato arrestato alla fine di settembre 2009 e tenuto in un centro di detenzione nella Green Zone di Baghdad, altamente fortificata, prima di trasferirlo in una prigione segreta nell’ ex aeroporto di Muthanna. Il suo corpo venne consegnato alla famiglia alcune settimane più tardi. Il certificato di morte, indicava come causa del decesso un “attacco cardiaco”. In Iraq la tortura viene usata abitualmente per estorcere “confessioni”. Spesso, queste dichiarazioni sono state preparate in anticipo dai responsabili degli interrogatori di detenuti che li costringono a firmare ad occhi bendati e senza leggere il contenuto. In molti casi, inclusi quelli in cui gli addebiti possono rappresentare una condanna a morte – la firma su queste confessioni è l’ unica prova presentata contro i detenuti quando vengono processati. Secondo il rapporto, centinaia di detenuti sono stati condannati a morte e alcuni sono stati giustiziati dopo essere stati condannati sulla base di “confessioni” che essi sostenevano essere false perché ottenute sotto tortura o altri metodi coercitivi.

Carlo Di Stanislao

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