In pensione a 70 anni (lasciando i giovani in attesa) e realtà sulla spesa sanitaria

Il diritto alla pensione viene riconosciuto  quando i requisiti contributivi e assicurativi risultano pienamente soddisfatti nella rispettiva gestione. Bisogno inoltre distinguere l’età massima lavorativa dall’età pensionabile,  poiché spesso esse non coincidono. L’età massima lavorativa è l’età massima di ammissione al lavoro: per gli uomini e per le donne coincide generalmente a 65 anni di età, […]

Il diritto alla pensione viene riconosciuto  quando i requisiti contributivi e assicurativi risultano pienamente soddisfatti nella rispettiva gestione. Bisogno inoltre distinguere l’età massima lavorativa dall’età pensionabile,  poiché spesso esse non coincidono. L’età massima lavorativa è l’età massima di ammissione al lavoro: per gli uomini e per le donne coincide generalmente a 65 anni di età, va tenuto presente che nel pubblico impiego a domanda il lavoratore può rimanere al lavoro per un periodo  massimo di due anni oltre i limiti di età. ( art. 16 del DLgs 503/92). Con il DL 112/08 la permanenze in servizio di 2 anni oltre i limiti di età previsti dall’ordinamento non è più un diritto ma è una concessione da parte della Amministrazione. Per i Fondi Speciali , vedi Specialistica Ambulatoriale, l’età pensionabile è stabilità a 65 anni con possibilità di proseguire sino all’età concessa dalla convezione, ovvero 70 anni. Dopo il via libera del Senato anche la Camera ha approvato in via definitiva il Ddl Lavoro nel quale è inserita la norma che consente ai medici di andare in pensione a 70 anni. Al provvedimento, come nelle attese, non sono mancate le critiche dai sindacati medici. «La legge» – sostiene il Segretario Nazionale dell’Anaao Assomed, Costantino Troise – «penalizza i diritti sociali e il lavoro precario, riducendo la possibilità per gli operatori sanitari di assistere familiari disabili e di accedere a un regime di part-time. Anzi, la stretta sul part-time, avviata con la legge 133/2008, si arricchisce ora della possibilità da parte delle Amministrazioni di revocare i contratti già stipulati, colpendo i medici donna che costituiscono quasi il 60% dell’universo professionale, già provate da una pesante organizzazione del lavoro che le penalizza nella sfera privata e professionale. Ulteriore aspetto negativo è la possibilità di collocamento a riposo dei medici al maturare dei 40 anni di servizio effettivo fino all’età di 70 anni a invarianza del numero dei dirigenti. Il che significa bloccare le aspettative di carriera e non permettere nuove assunzioni per ogni medico che opterà di rimanere in servizio». Sulla stessa lunghezza d’onda anche Cgil Medici che attraverso il suo responsabile Massimo Cozza sottolinea come «l’approvazione definitiva del Ddl Lavoro con la possibilità della pensione a 70 anni per i medici rappresenta un’altra picconata contro migliaia di precari che vedono allontanarsi ancora di più la stabilizzazione». A sua volta Gianfranco Rivellini, responsabile nazionale della dirigenza medica dello Smi, ha così commentato: «Una legge che per quanto riguarda la sanità produrrà gravi problemi all’organizzazione dei servizi sanitari, ai medici e, infine, anche ai cittadini che usufruiscono del Ssn. Già in altre occasioni abbiamo chiesto che si modificasse il testo su alcuni punti che consideriamo inaccettabili: pensioni, part time, precariato». Infine il presidente di Aaroi Emac, Vincenzo Carpino, sottolinea come «il provvedimento rendendo indisponibili i posti dei medici che restano in servizio fino a 70 anni, favorisce il blocco del ricambio generazionale della dirigenza medica e di conseguenza un inesorabile aumento del precariato». Stando alle ultime statistiche, negli ultimi sei anni, i medici con più di 55 anni sono raddoppiati e l’età media degli uomini in corsia si è ulteriormente alzata di tre anni (da 47 a 50). Di fronte a un quadro del genere si era prima mosso il ministro Renato Brunetta che nel giugno 2008 aveva dato il via alla cosiddetta “rottamazione”: per la pensione avrebbero contato i 40 anni di contribuzione, comprensivi di lavoro effettivo, servizio militare e riscatto della laurea. Una seconda disposizione, a marzo 2009, aveva trasformato il criterio per l’età pensionabile nei 40 anni di attività, abbandonando il calcolo dei contributi. Ma la norma è rimasta in vigore solamente 138 giorni perché ad agosto una nuova riforma delle regole ha rovesciato il sistema: primari salvati dalla risoluzione unilaterale del contratto di lavoro, ritorno del principio dell’anzianità contributiva e possibilità di ricorso ai prepensionamenti solo per tre anni, 2009, 2010 e 2011. Adesso, invece, dopo l’approvazione alla Camera del ddl 1167, si è di fatto consentito di rimanere in servizio fino a 70 anni alla stragrande maggioranza dei dirigenti medici – calcolando l’inizio dell’attività lavorativa non prima dei 30 anni ai quali vanno aggiunti i 40 di lavoro – a partire dai direttori di struttura complessa e dai responsabili di struttura semplice. Migliaia di precari vedranno allontanarsi la possibilità di lavoro stabile e a decine di migliaia di dirigenti professionali verrà preclusa la possibilità di carriera. L’unica nota positiva è il superamento della rottamazione arbitraria da parte delle aziende nei confronti di tutti i dirigenti medici che raggiungono i 40 anni di contributi compresi i riscatti. E’ singolare che per uscire dalla morsa della rottamazione – infausto provvedimento voluto fortemente dal Ministro Brunetta – si debba arrivare a consentire a tutti i medici il pensionamento a 70 anni. Sarebbe bastato, per far ciò, che, nel passaggio alla Camera, si fosse eliminato, sic et simpliciter,  la sola rottamazione. Tutto questo contemporaneamente alla pubblicazione dei dati di una ricerca molto approfondita, condotta da Intesa San Paolo ed intitolata: “Il mondo della salute tra governance federale e fabbisogni infrastrutturali”,  in base ai quali, molte dei dati diramati dal governo sono da rivedere. Ad esempio, secondo lo studio, il peso della spesa sanitaria si avvicinerebbe a quello della spesa pensionistica e si aggira sul 14% del Pil. Quanto alla dinamica e la composizione della spesa, essa non differisce molto da quanto avviene in altri paesi industrializzati, mentre il livello della spesa risulta inferiore. Nel 2008, infatti, la spesa sanitaria complessiva e’ stata pari al 9% del Pil, contro l’11% di Francia e Germania e il 16% degli Stati Uniti. Nel 2009 in Italia si sono spesi 2.886 dollari per abitante, contro una media Ocse di 3.148. Quanto alla scomposizione della spesa sanitaria, l’Italia si trova invece in linea con la situazione internazionale: nel 2009 l’incidenza della spesa pubblica e’ stata pari al 77,3%, contro il 77,8% della Francia e il 76,8% della Germania. Secondo gli autori dello studio sarà fondamentale la razionalizzazione dei sistemi sanitari nazionali, perche’ si pone per la sanita’ un problema analogo a quello riscontrato in campo pensionistico oltre 15 anni fa, ovvero il disegno e lo sviluppo di un sistema di finanziamento multipilastro’, con ‘programmi di risparmio e investimento di lungo termine ad hoc, con i cui frutti coprire le spese future, ma, per ora, dire che in Italia si spende più che altrove è diramare e sostenere qualcosa di non vero.

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