Due belle commedie al cinema

Due belle commedie circolano in questi giorni nelle sale cinematografiche: “Tamara Drewe” (inopinatamente tradotto in italiano “Tradimenti all’inglese”)   e “La versione di Barney”, dall’omonimo romano-cult dello scrittore canadese Mordecai Richler, pubblicato nel lontano 1989. Due commedie in agrodolce, sofisticate e ben costruite, con attori eccellenti e scelte registiche di buona qualità ed efficacia. Nel secondo, […]

Due belle commedie circolano in questi giorni nelle sale cinematografiche: “Tamara Drewe” (inopinatamente tradotto in italiano “Tradimenti all’inglese”)   e “La versione di Barney”, dall’omonimo romano-cult dello scrittore canadese Mordecai Richler, pubblicato nel lontano 1989. Due commedie in agrodolce, sofisticate e ben costruite, con attori eccellenti e scelte registiche di buona qualità ed efficacia. Nel secondo, la ragione per cui Barney decide di raccontare la sua storia – la sua versione – è che il suo peggior nemico ha appena pubblicato un libro rivelazione che svela i capitoli più compromettenti del suo passato: le tante e spesso oscure ragioni dietro al suo successo; i tre matrimoni, tutti e tre finiti; e il mistero tuttora irrisolto della scomparsa del migliore amico, Boogie, un presunto omicidio del quale Barney rimane il primo sospettato. Dato che la memoria alle volte lo abbandona, e poiché ha la sfortunata abitudine di ubriacarsi in momenti cruciali, Barney ci porta in un percorso instabile nei meandri della memoria, non solo per raccontare la sua vita agli altri, ma anche per ricordarla a se stesso. Diretto da Richard J. Lewis e con  Paul Giamatti,  Dustin Hoffman e Minnie Driver, il film, che ricorda le cose migliori di Cronenberg, ha un taglio televisivo, che smussa un poco le asperità di un romanzo che rappresenta uno schiaffo nel nome del politicamente scorretto, senza tuttavia far perdere al racconto la sua forza non convenzionale e senza concedere troppo alle regole di trasposizione hollywoodiana, con lo schema eventi traumatici-love story-rottura-epilogo, abbastanza rovesciato ed inaspettato.  Su “The Hollywood Reporter”, Michael Rechtshaffen osserva come il film di Lewis è “molto divertente”, probabilmente “la miglior trasposizione cinematografica di un’opera di Richler da molti anni a questa parte”. Lodi, anche per Paul Giamatti, forte di “un’ostinata vulnerabilità, indispensabile per servire al meglio l’intensità del film”. Su “Screen Daily”, Lee Marshall – che ha ravvisato alcune analogie strutturali tra “Barney’s Version” e “Benjamin Button” – plaude invece alla scelta degli sceneggiatori “di soffermarsi in particolare sulla grande passione di Barney per Miriam”. È questo amore, insieme alla “magistrale” interpretazione di Giamatti (capace di personificare al meglio “il declino di un personaggio che fa i conti con l’Alzheimer”), a rendere il film emozionante, al di là di alcuni piccoli difetti. Il Barney Panofsky amato dai lettori era un tipaccio dalla lingua affilatissima, un torrente in piena di scorrettezze, un eversivo, un eccentrico, uno sfacciato, un randagio. Il suo pensiero sciagurato e arrogante, il suo dolersi di tanto genio sprecato in porcherie televisive di bassa lega, le sue ossessioni persecutorie, le sue sparate iraconde, la sua febbrile corsa verso l’amore irretivano e trascinavano dove non si ha il coraggio di avventurarsi da soli, dove si ride fino alle lacrime, ci si addolora fino a piegarsi, ci si ubriaca di vita.  Quel Barney se n’è andato insieme a Mordecai Richler qualche anno fa, ma l’idea di farlo rivivere sul grande schermo non è mai stata sepolta e per dieci anni è stata inseguita con testardaggine. L’ostacolo più evidente veniva proprio dal testo, dalla logorrea anarchica e disordinata del suo protagonista, dalla difficoltà di tradurre quella foga in un film che non tradisse la potenza della follia. Lo stesso Richler aveva aperto le danze finché la malattia non lo ha fermato, dopo di lui altri tre sceneggiatori si sono avventurati nelle ortiche: eppure niente. Infine è arrivato Michael Konyves e ha riordinato le cose sintetizzandole in un registro che filtra gli abomini di Barney, smorza gli sproloqui e si concentra sulla sua anima canaglia per amore, rispettando l’organizzazione del racconto nella linea dei tre matrimoni di Barney, e scansando il confronto diretto con il Super-Io che dominava la pagina scritta attraverso l’elegante rinuncia alla voce fuori campo. Il motore sullo schermo volge al sentimentale, che era infondo anche l’essenza di Barney se non l’avesse lordata di smargiassate. La sceneggiatura trova così equilibrio in una versione soft della “Versione” e sfugge al ritmo sincopato e svagato dell’originale per rifugiarsi in una scorrevolezza limpida e inquadrata in ottimi dialoghi, e sostenuta da un cast che punta soprattutto su due cavalli di razza come Paul Giamatti (che a Venezia avrebbe meritato la Coppa Volpi) e Dustin Hoffman nei panni bellissimi del padre. Quanto al film di di Stephen Frears, esso si allontana dalla Queen reale e dalla Chéri di Colette per correre via dalla pazza folla, citazione non casuale del romanzo di Thomas Hardy cui fischieranno non poco le orecchie. Inizio folgorante presso un agriturismo inglese per intellettuali, spalmando ironia su scrittori falliti e golosi e indovinando il contrasto tra un certo snobismo e la presunta sana vita di campagna dai sapori genuini. L’eroina è Tamara Drewe, disinibita ragazza scribacchina che torna al paesello con un naso rifatto che la rende una dark lady in grado di sedurre il famoso giallista adorato dalle signore e disponibile marito di Beth, cuoca e dea ex machina con le occhiaie, padrona della pensione e vittima d’un ennesimo adulterio di cui la gente mormora. Tratto dalle omonime strisce a fumetti di Posy Simmonds pubblicate sul Guardian e poi raccolte in una graphic novel (a loro volta basate, come detto,  sul romanzo di Thomas Hardy “Via dalla pazza folla”), il film è ambientato in una piccola cittadina di campagna inglese, dove fa ritorno una bella ragazza un tempo brutto anatroccolo locale. Con sé porterà lo scompiglio, coinvolgendo un vecchio amore, la celebrità locale (uno scrittore proprietario di una sorta di pensione per scrittori), il batterista di una band indie rock e altri personaggi; e a contribuire allo scompiglio, due adolescenti annoiate e innamorate del batterista che ne combineranno di tutti i colori. Si tratta di un commedia romantica, degli equivoci, farsesca, a tratti quasi nera, che da un lato omaggia il wit tutto inglese del romanzo di Hardy e dall’altro ben rispecchia lo stile e lo spirito della forma fumetto. Bravissima la giovane protagonista, Gemma Arteton, un delizioso bocconcino che si è concesso la “licenza” di adescare James Bond in Quantum of Solace, si è coalizzato con sua altezza Jake Gyllenhaal ne Prince of Persia: Le sabbie del tempo, ha guidato il figlio di Zeus, Sam Worthington, nello Scontro fra Titani ed ora mette  a soqquadro un intero e tipico villaggio inglese. Quanto a Stephen Frears, eclettico,  cinico e dissacrante regista inglese, usa con intelligenza la macchina da presa, come fosse una lente d’ingrandimento attraverso la quale osservare la società multietnica della sua nazione, fotografandone amori interrazziali, ipocrisia di chi non accetta l’omosessualità, o ancora i pregi e difetti della monarchia. Il successo arriva dopo una lunga gavetta, nel 1985, con My Beautiful Laundrette, poi in America gira Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos, con un cast eccezionale, con Michelle Pfeiffer, John Malkovich e Glenn Close.  Nel 2009, dopo il film tv Skip Tracer, si dedica al progetto e alla realizzazione di Chéri, dramma in costume, ambientato nella Parigi cortigiana di inizio Novecento. Per la parte della protagonista sceglie nuovamente Michelle Pfeiffer, perfetta nel ruolo di una donna non più così giovane ma intraprendente e affascinante come il personaggio letterario di Colette, da il film cui è tratto.  In questo suo ultimo film, usando le tavole originali come un vero e proprio storyboard e i personaggi di carta come modello per la scelta degli attori, Frears, aiutato da Moira Buffini (alla sceneggiatura), si cimenta, con risultati brillanti,  nell’operazione di aggiungere realismo senza perdere di humor. La quotidianità dell’assurdo e le piccole malignità che assicurano l’umana sopravvivenza, insieme allo smantellamento del mito della genuinità e della pietà rurale, sono i registri azzeccati su cui si muove questa commedia mezza rosa e mezza nera, che ha nel cuore un ricordo inconfessato (e irraggiungibile) di Shakespeare a colazione, nel motore una marcia in più di tutta l’ultima produzione di Woody Allen e un debito innegabile verso un cast in formissima.

Carlo Di Stanislao

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