Dodici rinvii e una condanna per Stefano (ed una speranza per gli altri)

Il rinvio a giudizio è arrivato per tre agenti della polizia penitenziaria e per nove persone tra medici e infermieri dell’ospedale Sandro Pertini. Il gup Rosalba Liso ha inoltre attenuto la condanna con rito abbreviato per il funzionario del Dap, Claudio Marchiandi, direttore dell’ufficio detenuti e del trattamento del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, condannato a […]

Il rinvio a giudizio è arrivato per tre agenti della polizia penitenziaria e per nove persone tra medici e infermieri dell’ospedale Sandro Pertini. Il gup Rosalba Liso ha inoltre attenuto la condanna con rito abbreviato per il funzionario del Dap, Claudio Marchiandi, direttore dell’ufficio detenuti e del trattamento del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, condannato a due anni. Queste le decisioni arrivate a conclusione dell’udienza preliminare del processo per la morte di Stefano Cucchi,  avvenuta il 22 ottobre 2009 all’ospedale Pertini di Roma, sei giorni dopo l’arresto per droga. Il prossimo 24 marzo davanti alla corte d’Assise di Roma avrà inizio il processo, per i dodici indagati. I tre poliziotti mandati oggi a processo sono accusati di lesioni e abuso di autorità, mentre sei medici e tre infermieri devono rispondere, a vario titolo, dei reati di favoreggiamento, abbandono di persona incapace, abuso d’ufficio e falso ideologico. Inizialmente le guardie carcerarie erano state accusate di omicidio preterintenzionale e i medici di omicidio colposo, che prevede una pena fino a 5 anni di reclusione. Secondo le conclusioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale, rese note lo scorso 17 marzo, Cucchi sarebbe morto, a 31 anni, per disidratazione ma anche per responsabilità dei medici dell’ospedale dove era ricoverato, che non si sarebbero resi conto della gravità della sua situazione. Questo caso e il recente suicidio della’egiziano 66enne, impiccatosi nel carcere di Sulmona, fanno comprendere quanto grave sia la situazione penitenziaria nel nostro Paese. Seppure si registri  una leggera flessione, resta molto alto il numero dei detenuti in Italia. Nelle oltre 200 carceri italiane il 18 gennaio 2011 le persone detenute erano 67.976: 42.997 gli italiani e 24.979 gli stranieri, 28.927 gli imputati e 37.219 i condannati, 1.745, infine, gli internati. Proprio il sovraffollamento carcerario e le criticità del sistema sono stati al centro di due importanti appuntamenti che si sono svolti il 20 e 21  gennaio scorsi a Milano a cura della maggiore associazione di polizia penitenziaria. E il 18 maggio,  il Capo dello Stato Giorgio Napolitano, era  tornato  a richiamare Governo e Parlamento sulla necessità di far fronte all’emergenza carceri, in un messaggio in occasione dell’annuale festa della polizia penitenziaria. In quella occasione il capo del Dap, Ionta, alle prese con un elevato numero di suicidi di detenuti (30 lo scorso anno e già tre nel primo mese del 2011) e con sempre più frequenti aggressioni ai danni degli agenti, aveva richiamato  l’attenzione sull’ emergenza penitenziaria” in quanto “questione di primaria importanza”. Oltre a nuove carceri servono “organici adeguati” di poliziotti penitenziari, specificatamente selezionati e formati alla bisogna. E altrettanto reclamano i sindacati, in attesa dell’assunzione dei duemila agenti già da tempo promessi dal governo. Tornando al caso Cucchi, la sorella Stefania, dopo l’udienza preliminare, ha dichiarato che “il gup la pensa come noi e cioè che Stefano è stato ammazzato di botte”. Ha parlato anche il padre del ragazzo morto, Giovanni Cucchi, che ha detto: “Non c’è motivo di rallegrarsi. Oggi, comunque, è stato messo un primo tassello per arrivare alla verità. Speriamo che quanto accaduto”, ha aggiunto, “possa servire per migliorare il sistema giudiziario del nostro Paese. Vogliamo dire grazie a coloro che ci sono stati vicini: il Comune e la Provincia di Roma, il presidente Fini, i parlamentari del Comitato per Stefano. Ma riteniamo grave che tante istituzioni siano rimaste mute, come l’Ordine dei Medici”. E di casi analoghi e che non hanno risposta ve ne sono diversi, ancora aperti in tutta Italia. Come quello del diciannovenne Carmelo Castro che, secondo la madre Graziella Lavenia, è stato ucciso in carcere con modalità analoghe a Stefano Cucchi e che, dal 18 scorso, è supportata dalla associazione Antigone, per fare luce sulla tragica fine del figlio, ad un anno e mezzo dall’accaduto. Carmelo,  il 28marzo 2009,  fu trovato morto suicida per impiccagione nella sua cella del carcere di piazza Lanza,  a Catania, a quattro giorni dall’arresto. La madre non ha dubbi, suoi figlio non si sarebbe mai suicidato. “Non sapeva neanche allacciarsi le scarpe, figuriamoci fare un nodo ad un lenzuolo”, ha spiegato la donna che non riesce a darsi pace per quanto successo. Ora Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, ha presentato alla procura della repubblica di Catania un esposto per riaprire il caso, archiviato lo scorso luglio dal giudice per le indagini preliminari. Occorre ricordare, noi figli della cultura greca, il grande insegnamento che ci viene da quella civiltà, contenuto e riassunto nell’Antigone di Sofocle e cioè la superiorità delle leggi non scritte su quelle scritte, in base alla quale un detenuto, chiunque sia, non perde mai i suoi diritti fondamentali. In Norvegia la punizione di un carcerato consiste nell’essere in carcere e non nel perdere i suoi diritti di cittadino. Così dovrebbe essere in tutti i paesi specialmente se democratici del mondo. L’idea, secondo il ministro della giustizia norvegese Knut Storberget, è che per ridurre la criminalità non basta chiudere a chiave i criminali in una stanza, ma bisogna educarli e aiutarli con i fatti a reintegrarsi nella società. In Norvegia anche le carceri di massima sicurezza sono molto attente alla qualità della vita dei loro detenuti e si propongono di ricreare un ambiente quanto meno alienante possibile, che riproduca villaggi, comunità e il senso della quotidianità in famiglia. Il modello sembra funzionare: dati alla mano, nei successivi due anni dalla liberazione solo il 20% si dimostra recidivo, contro una percentuale vicina al 60% negli Stati Uniti. Considerato, poi,  che la nostra Carta Costituzionale, all’art. 27 recita che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, verificato che oggi la spesa carceraria annua nel nostro Paese supera i 2 miliardi di euro e dimostrato (non solo in Norvegia) che gli investimenti nella rieducazione dei carcerati producono esternalità positive, valutabili anche in un risparmio monetario sul lungo periodo, varrebbe la pena impegnarsi a rivedere l’intero sistema giudiziario, più che servirsi di “escamotage” inutili e potenzialmente dannosi come l’ultimo indulto o non affrontare affatto il problema e promettere solo di farlo,  come nell’orientamento di questo governo. In molte carceri italiane, a denunciare il degrado, la mancanza di igiene, di cure e di tutele sono gli stessi agenti di polizia penitenziaria, il personale Osa e gli infermieri. I detenuti/pazienti si feriscono, si tagliano di continuo e il personale di polizia penitenziaria, più di una volta, è intervenuto per salvare la vita di un recluso che tentava il suicidio. E questo stato di cose reso cronico ed irrisolvibile dall’inerzia della politica, che o copre o fa indulti e non opera per risolvere questa “infamia di Stato”, che grave sul cuore di tutti gli italiani. Peccato che ci siano ancora delle disposizioni borboniche, a livello nazionale, che vietano le visite in carcere ai giornalisti, altrimenti il panorama attuale apparirebbe ancora più drammatico e raccapricciante. Solo 25 carceri su 206,  ospitano un numero di detenuti pari o inferiore alla capienza regolamentare e, secondo i dati emersi durante il XVIII Congresso di Magistratura democratica, oltre il 43% dei detenuti sono in stato di custodia cautelare, cioè non hanno subito una condanna definitiva. E tra di loro la maggioranza è costituita da persone appartenenti a ‘categorie socialmente più svantaggiate, come tossicodipendenti e stranieri. In generale comunque la popolazione carceraria, segnala il gruppo, ‘è in larghissima parte costituita da persone in condizioni di minorità sociale: stranieri, tossicodipendenti, alcol – dipendenti, persone con ridotto grado di scolarità, disoccupati. E molte persone detenute, non solo negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, hanno problematiche di natura psichiatrica che richiederebbero assistenza. In carcere si entra sempre più facilmente: nel 1991 gli ingressi erano stati 75mila, nel 2000 81mila e, oggi sono a quota 88mila. Molti si risolvono in detenzioni brevissime: negli ultimi anni tra le 15 e le 20mila persone sono entrate in carcere per restarvi solo due giorni. Questo come risultato e frutto ‘di un paio di decenni di politiche di sicurezza, in cui il dato costante è rappresentato dall’elaborazione di nuove figure di reato, utili a rispondere a vere o presunte emergenze, dall’introduzione di ipotesi di custodia cautelare obbligatoria, dall’innalzamento delle pene per reati di non particolare allarme sociale; ma anche del feroce inasprimento del regime penitenziario scelto dal legislatore per l’esecuzione delle pene nei confronti degli stranieri condannati e per l’esecuzione penale nei confronti delle persone recidive e di una legislazione che enfatizza ed esaspera le diseguaglianze. Il sistema penale è oggi il paradigma di molti dei problemi che affliggono la giustizia: un diritto penale sempre più diseguale; un processo penale sempre più irrazionale in cui, troppo spesso, la garanzia diventa strumento di difesa dal processo e non arnese di difesa nel processo. E, ancora, la pena legittimamente inflitta nel corso di un giusto processo non può trasformarsi in una pena eseguita in modi illegittimi in un carcere ingiusto. Occorre riuscire a recuperare una dimensione giusta per l’esecuzione penale, in modo tale da riavvicinare la situazione delle carceri e le condizioni di vita dei detenuti al lungimirante precetto costituzionale. Bisognerebbe, pertanto, che politici e amministratori, si muovessero per far si che, nelle carceri italiane, l’unico contenuto affittivo della pena sia rappresentato dal muro di cinta che separa i detenuti dall’esterno. Non da altro.

Carlo Di Stanislao

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