Undicesimo Giorno della Memoria della Shoa

“I lumi della storia non sono in grado di risolvere tutto”(Levinas). Il 27 gennaio 2011 si celebra in Italia come in tanti altri Paesi del mondo, il Giorno della Memoria per non dimenticare la Shoah. Un evento che assume quest’anno un significato molto particolare alla luce dei 150 anni dell’Unità d’Italia e della scomparsa di […]

“I lumi della storia non sono in grado di risolvere tutto”(Levinas). Il 27 gennaio 2011 si celebra in Italia come in tanti altri Paesi del mondo, il Giorno della Memoria per non dimenticare la Shoah. Un evento che assume quest’anno un significato molto particolare alla luce dei 150 anni dell’Unità d’Italia e della scomparsa di Tullia Zevi, testimone della Shoah e giornalista, già Presidente delle Comunità Ebraiche d’Italia. Con la legge n. 211 del 20 luglio 2000, la Repubblica italiana ha riconosciuto il 27 gennaio come Giorno della Memoria per ricordare la data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz da parte dell’esercito sovietico (1945) e commemorare la Shoah, le leggi razziali, la deportazione, la prigionia e la morte di oltre sei milioni di Ebrei vittime innocenti. Nonché tutti coloro che, pur in campi e schieramenti diversi, si opposero al progetto di sterminio nazi-fascista, salvando altre vite e proteggendo i perseguitati anche a rischio della propria vita. Punti focali di una ricorrenza annuale oggi celebrata dalle Nazioni Unite e da più di due dozzine di Stati. Purtroppo l’antisemitismo non è finito sessantasei anni fa, perché Israele è sempre in pericolo come Popolo e come Stato. Per gli Ebrei, l’Olocausto è una tragedia unica e senza precedenti. Pensate, nel lager tutti i bambini inferiori ai 14 anni, e tutti i vecchi, venivano mandati direttamente alle camere a gas. Deposizioni nei tribunali militari internazionali (Norimberga ed altri), interviste, memorie, disegni, diari, lettere, annotazioni private scritte, lo confermano. “Come è possibile che non sia più ritenuto degno di essere figlio d’Italia?”(Ada Carpi e Aldo Neppi Modona). Il dovere della Memoria va esteso in Italia a tutto il periodo della persecuzione: dalle leggi razziali del 1938 quando gli Ebrei italiani, nipoti di quei patrioti-eroi del Risorgimento (poi, da sopravvissuti, della Resistenza) persero la loro cittadinanza e le possibilità di vivere in una patria che non li riconosceva più come Italiani, alla liberazione dai lager e al ritorno dei deportati (1945). Tale liberazione è ormai assunta a simbolo dell’immane tragedia della Shoah. “Gli ebrei – fa notare lo storico Gadi Luzzatto – hanno salutato generalmente con gioia e partecipazione l’emancipazione civile ottocentesca (ricordiamolo, però, concessa sempre dall’alto) e ne hanno constatato con amarezza il repentino fallimento nel 1938 e poi con maggior durezza hanno affrontato la prova della persecuzione dopo il 1943. La demografia ci dice che gli Ebrei del secondo dopoguerra in Italia sono diversi da quelli del 1861 o del 1945: in decrescita quelli italiani, numerosi quelli immigrati dal bacino del Mediterraneo (Libia, Egitto, Turchia, Libano e in seguito dalla Persia). A lungo ufficialmente “apolidi”, sono tutti portatori di esperienze storiche spesso dure, di sradicamento e spaesamento, e hanno vissuto in Italia la stessa sorte fatta di diffidenza e di relativamente non amichevole accoglienza che troppo spesso questo paese riserva agli immigrati. Soprattutto, sono figli di un vissuto differente: ragionare insieme della memoria del Risorgimento, della Resistenza antifascista, a volte della stessa Shoah può essere molto impegnativo e costituisce un terreno di sfida aperta per la costruzione di un’identità nazionale riconoscibile e, nuovamente, di un condivisibile concetto di cittadinanza”. Eventi commemorativi nazionali ed internazionali per loro natura rilevano le lezioni universali che vi si possono trarre. Convegni, film, tavole rotonde, libri, foto, testimonianze, conferenze e Internet, sono utili per ricordare l’olocausto del popolo ebraico. Ma non basta il 27 gennaio. Undici anni sono trascorsi. La memoria della Shoah non può limitarsi alla commemorazione ufficiale, cerimoniale, protocollare e cinematografica in un solo giorno. Occorre (far) visitare ai giovani i luoghi dell’abisso per rendersi effettivamente conto del male assoluto sceso sulla Terra durante la seconda guerra mondiale. Occorre far capire agli “storici” negazionisti ed ai mistificatori come l’universo concentrazionario e di morte (nazi-fascista dei lager e comunista dei gulag) fosse il risultato di una pianificazione politica di menti umane normali (non aliene, fino a prova contraria) e non folli. Visitare Auschwitz in Polonia significa vedere l’ordinarietà del male che è il contrario della vita, della pietas e del rispetto dell’uomo. Occorre organizzare viaggi e percorsi culturali direttamente nei luoghi dello sterminio che sono molti in Europa. Non solo ad Auschwitz. Bisogna visitare lo Yed Vashem, il museo-memoriale dell’Olocausto a Gerusalemme in Israele, dove sono anche esposte le mappe del campo di sterminio nazista di Auschwitz-Birkenau. Le piantine originali, con i dettagli della costruzione di Auschwitz sono l’illustrazione grafica dello sforzo tedesco di attuare sistematicamente la soluzione finale. Per mostrare come le attività apparentemente convenzionali di gente ordinaria hanno portato alla costruzione del più grande campo di sterminio degli ebrei d’Europa. Si può anche cominciare con una pedalata nei luoghi della Memoria di Roma, dalle Fosse Ardeatine al Museo della Liberazione di via Tasso fino al Portico d’Ottavia. Una pedalata in ricordo di Settimia Spizzichino, unica donna romana tra quelle deportate il famigerato 16 ottobre del 1943, a essere sopravvissuta ai campi di sterminio di Auschwitz e Bergen Belsen oltre che alle atrocità del dottor Mengele nel terribile blocco 10. Ogni anno i ciclisti convogliano inizialmente al Largo Martiri delle Fosse Ardeatine con visita al mausoleo che commemora l’eccidio del 24 marzo del 1944 quando i nazisti fucilarono 335 civili inermi come rappresaglia all’azione partigiana di via Rastella. Segue una sosta in via Licia 56, nella casa che fu di Giacchino Gesmundo, professore del Liceo Cavour morto in quella drammatica circostanza. Poi le biciclette si dirigono in via Tasso dove ha sede il Museo della Liberazione. Dove si ricorda la figura di Elvira Sabbatini Palladini, a lungo direttrice del Museo e moglie di Arrigo Palladini, partigiano duramente provato dalle torture subite in quella che fu la sede della Gestapo durante l’occupazione nazista. Ultima tappa al Portico d’Ottavia, in Largo 16 Ottobre, dove viene ricordata la deportazione degli Ebrei romani iniziata proprio in quel tragico giorno del 1943. Durante la retata furono catturati 1043 Ebrei. Tornarono in 16, nessun bambino, 15 uomini e una sola donna: Settimia Spizzichino, che passò la vita a raccontare alle nuove generazioni l’orrore dei campi di sterminio anche grazie al suo libro di memorie Gli anni rubati. “L’iniziativa – spiegano gli organizzatori di Pedalando per la Memoria, giunta il 23 gennaio 2011 alla sua settima edizione – vuole ricordare la figura straordinaria di Settimia Spizzichino e farsi promotrice di un messaggio di speranza per il futuro. Che sulla spensieratezza e sulle ali di una pedalata in bicicletta possa emergere la convinzione e la fiducia di poter uscire da tutti i tunnel del nostro mondo, quali la miseria, il razzismo, la violenza e il terrorismo”. Per commemorare la Shoah, l’annientamento del popolo ebraico e l’orrore dell’antisemitismo-antisionismo, nella Città di Teramo una strada è stata intitolata, il 27 gennaio 2007, a Giovanni Palatucci, morto in Germania a 36 anni nel campo di sterminio di Dachau a pochi giorni dalla Liberazione. Ricordare è utile alla ricostruzione di una memoria condivisa europea, elemento base per l’affermazione dei principi costituzionali e dei diritti di cittadinanza. Il Giorno della Memoria rappresenta uno strumento di conoscenza indispensabile per educare alla pace, alla tolleranza ed alla fratellanza. La via e la targa intitolate a Palatucci onorano la memoria dell’uomo per il quale è stato avviato il processo di beatificazione. Palatucci salvò la vita (secondo la prima conferenza mondiale ebraica) a più di 5mila Ebrei. E’ un dovere etico e morale, onorare lo sconosciuto commissario di Polizia, dirigente dell’Ufficio Stranieri di Fiume, poi Questore, ritenuto “negligente ed inaffidabile” dai diretti superiori e dalle gerarchie ministeriali. Ma che la prima Conferenza mondiale ebraica, svoltasi a Londra nel 1945, accertò avere salvato la vita a più di 5mila Ebrei e che, per questo, nel 1990 (anno dell’Istituzione del Memoriale Ebraico dell’Olocausto) fu insignito alla memoria del massimo onore tributato dagli ebrei: il titolo di Giusto tra le Nazioni. A questa figura straordinaria di italiano ed al tragico scenario in cui lo stesso si è trovato ad operare tra il 1938 ed il 1944, è dedicata la nostra Undicesima Giornata della Memoria. L’importanza di organizzare su tutto il territorio iniziative e cerimonie, anche in sede istituzionale, nasce non solo dalla Legge ma dal Dovere di partecipare a momenti comuni di riflessione per rammentare a tutti, soprattutto alle giovani generazioni, quanto accadde al popolo ebraico ed alle minoranze etnico-religiose europee, perché simili tragedie non abbiano mai più a ripetersi. Purtroppo la storia del Novecento ha registrato una serie di crimini contro la pace e contro l’umanità, da quelli dei nazisti a quelli perpetrati dal comunismo, entrambi regimi negatori di libertà. Come ci ricorda il massimo storico dell’Olocausto:“Il ricordo non può mai essere imposto, ma solo trasmesso. E quello del genocidio resta vivo”. Anche quest’anno sono state organizzate manifestazioni ed incontri per commemorare la Shoah, moltissimi dei quali coinvolgeranno i ragazzi delle scuole di ogni ordine e grado. Per diffondere un clima orientato al rispetto reciproco, nelle diversità di culture e religioni e per contrastare ogni manifestazione di razzismo e antisemitismo è necessario, oggi più che mai, l’impegno di tutti, anche attraverso la consapevolezza e il ricordo di ciò che è stato. Durante la cerimonia per l’anniversario dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, nell’irreale scenario del campo sotto la neve, ricordiamo con sgomento la descrizione di Primo Levi, soprattutto il suo monito a considerare i “campi di distruzione come un sinistro segnale di pericolo”. Essi, secondo Levi, sono alla fine di una catena che inizia con una convinzione che giace in fondo agli animi come un’infezione latente: una convinzione più o meno consapevole secondo la quale “ogni straniero è nemico”. Una convinzione che, quando diventa idea fondante di un sistema di pensiero, ha nel lager la sua coerente ed estrema realizzazione. La memoria non è un patrimonio cristallizzato, ma è quel filo che lega saldamente il passato al presente e al futuro, e lo condiziona. Ricordare il passato significa strapparlo all’oblio e tenerlo sempre come monito affinché gli errori commessi non si debbano ripetere, affinché lo “straniero”, il diverso, non debba mai più essere odiato, affinché l’ignoranza ed il pregiudizio non conducano ancora all’intolleranza e all’odio. È stato proprio in fondo a questo percorso che milioni di esseri umani hanno trovato i campi di sterminio nel XX Secolo. Non bisogna stancarsi di ripetere, soprattutto ai giovani, che tutti gli esseri umani sono uguali e che tutti hanno diritto al rispetto, alla dignità e alla libertà. La difesa di questi valori è un dovere di tutti e in particolare di chi ricopre incarichi di responsabilità nell’educare le nuove generazioni, affinché attraverso la consapevolezza delle proprie radici e la riflessione sul significato della propria esistenza possa essere sradicata dalle coscienze quell’infezione latente di cui parlava Primo Levi, e possa essere infine proclamata la vittoria del diritto sulla sopraffazione e la vittoria della civiltà sulla barbarie. Perseguitati dopo l’introduzione delle leggi razziali, espulsi dalle scuole all’inizio dell’anno scolastico del 1938, gli Ebrei diventarono presto in Italia cittadini di seconda categoria: furono licenziati dai pubblici impieghi, radiati dagli albi professionali. Alle grandi discriminazioni si sommarono le umiliazioni di ogni giorno come il divieto di frequentare locali pubblici, con la scritta: “vietato l’ingresso ai cani e agli ebrei”. Le comunità ebraiche dovettero addirittura stampare degli elenchi telefonici propri, poiché gli Ebrei erano stati cancellati dagli elenchi pubblici. Il 30 novembre del 1943 il ministro Buffarini-Guidi emanò l’Ordine di Polizia n.5 in cui veniva annunciato che tutti gli Ebrei, residenti nel territorio nazionale, sarebbero stati inviati in appositi campi di concentramento. Poi iniziò la deportazione di donne, vecchi e bambini. La maggior parte decise di restare, ignara di quello che gli sarebbe successo, alcuni fuggirono in campagna o si unirono ai partigiani. Altri, con le loro famiglie, tentarono di raggiungere la Svizzera e gli Stati Uniti d’America come la famiglia di Tullia Zevi che ricordiamo con affetto a pochi giorni dalla scomparsa. Molti furono rispediti indietro alla frontiera, i più fortunati riuscirono a passare il confine pagando cifre altissime ai contrabbandieri. Per tutto il 1944 ci fu una vera e propria caccia all’uomo, con uno stillicidio di persecuzioni e deportazioni da parte delle SS e dei fascisti. Con la liberazione i sopravvissuti per anni rimasero in silenzio, cercando di negare anche a sé stessi la verità su ciò che avevano vissuto. Come negare che tra i cittadini di una città ormai estranea, c’erano anche i delatori che per pochi denari avevano denunciato gli Ebrei nascosti? Benedetto XVI, nella sua visita alla sinagoga di Roma, ha riaffermato categoricamente “l’impegno della Chiesa cattolica e il suo desiderio di approfondire il dialogo e la fraternità con il Giudaismo e con il popolo ebraico, secondo la ‘Nostra Aestate’, il conseguente magistero e in particolare quello di Giovanni Paolo II”. Dalla scuola i bambini non devono essere tolti “neppure per la costruzione del Tempio”, insegna il Talmud. È possibile una memoria condivisa incardinata nella pedagogia ebraica (“mi-dòr ledòr”, di generazione in generazione) e cristiana? Negli ultimi tremila anni le fantasie dei bambini ebrei e cristiani hanno lasciato il segno nelle nostre città. Sappiamo del fascino esercitato da alcuni episodi biblici, ma non sappiamo con quali occhi giudicassero la trasformazione antropologica in atto. A undici anni dalla sua istituzione ufficiale, il Giorno della Memoria ha ancora un significato oppure il suo contenuto si è ormai svuotato? Che efficacia possono avere oggi i racconti quando anche gli ultimi testimoni stanno scomparendo e la memoria cede definitivamente il passo alla storia? I riti e le commemorazioni pubbliche sono solo retoriche scadenze di un evento passato o sanno essere interrogazione sul presente e sulle sue contraddizioni? Come si pongono le nuove generazioni nei confronti della persecuzione e dello sterminio degli Ebrei europei e quale può essere il ruolo della scuola, oltre il dovere della memoria? Sono questi alcuni dei principali interrogativi su cui bisogna riflettere. La “sfida” è nuovamente lanciata a chi sul territorio rappresenta le Istituzioni e si deve barcamenare fra retorica risorgimentale e realtà presente. Prima ancora che tentare di dare risposte o fornire spunti di riflessione su tali quesiti, bisogna far conoscere e ricordare la storia degli Ebrei che vissero in prima persona la persecuzione e l’annientamento oltre che fisico morale. Storie come tante in quel periodo di persecuzioni che ci aiutano a comprendere allo stesso tempo i meccanismi dell’esclusione, dell’intolleranza e della violenza razzista ma anche a riflettere sulla presenza, se pur minimale rispetto alla foga nazi-fascista, dei giusti e di quanti seppero dire di NO, mettendo in pericolo la propria vita pur di aiutare le vittime ingiustificate della furia nazi-fascista. Fare il punto sulla nostra memoria, sull’intreccio fra oblio, rimozione e ricordo, e sulla necessità dell’elaborazione di un passato che non abbiamo ancora saputo guardare in faccia fino in fondo, questo è il nodo principale del Giorno della Memoria. Purtroppo l’antisemitismo non è finito sessantasei anni fa. Il 2009 è stato il peggiore anno dalla fine della Seconda guerra mondiale per gli episodi di antisemitismo nell’Europa occidentale. Nel 2009 si sono registrate centinaia di violenze nei confronti di Ebrei, in particolare in Gran Bretagna, Francia e Olanda. La ragione è che l’antisemitismo da odio alla religione e alla fede ebraica si è spostato a odio per Israele, l’Ebreo dei popoli. Il risultato è però sempre lo stesso perché concretamente a essere colpite sono le persone, gli Ebrei. Anche se la Germania celebra il Giorno della Memoria del 27 di Gennaio sin dal 1996, la spinta a fare lo stesso in molti altri Paesi è arrivata solo dopo il decisivo Forum Internazionale sull’Olocausto tenutosi a Stoccolma nel 2000, dieci anni dopo che la caduta del comunismo aveva permesso un’esplorazione senza censure della storia. In molti paesi comunisti, lo studio e la commemorazione della Shoah erano stati limitati e le questioni ebraiche soppresse. Al Forum di Stoccolma, i leader di 46 nazioni promisero di promuovere l’educazione e la ricerca sull’Olocausto, e di “incoraggiare forme appropriate di commemorazione dell’Olocausto, inclusa un’annuale Giornata della Memoria”. Molte delle nazioni partecipanti scelsero il 27 di Gennaio, data l’importanza di Auschwitz come simbolo dell’Olocausto, e l’Assemblea Generale dell’ONU nel 2005 scelse questa data come il Giorno Internazionale della Commemorazione in onore delle vittime dell’Olocausto. Molti Paesi hanno scelto, invece, date che marcano momenti dell’Olocausto all’interno dei loro territori. In Polonia è il 19 di aprile, anniversario della Rivolta del Ghetto di Varsavia. La Romania ha scelto il 9 di ottobre, il giorno del 1941 in cui il governo rumeno alleato dei Nazisti cominciò a deportare gli Ebrei. Quest’anno si sono distinti anche gli studenti abruzzesi. Non è stato facile selezionare i vincitori del concorso “I giovani ricordano la Shoah”. Anche quest’anno la qualità dei lavori pervenuti da tutt’Italia era elevatissima sia dal punto di vista dei contenuti sia per le modalità di espressione che hanno spaziato dalla scrittura al cartone animato, dal disegno all’installazione artistica. Dopo aver esaminato le diverse proposte, la Commissione ha deciso di premiare la Regione Abruzzo con la Menzione per il lavoro “Valigia del ricordo”, proposta dalla scuola primaria “Via per Francavilla” di Chieti. Si tratta di una valigia che contiene i piccoli oggetti che un bambino porterebbe con sé in caso si debba allontanare da casa. Ad accompagnarli 43 letterine scritte dagli alunni ad altrettanti loro coetanei rimasti vittima della Shoah. “Il Giorno della Shoah per riprendere il pensiero di Elie Wiesel, costringe tutte le sfere della società a fare in modo che il nostro passato non diventi il futuro dei nostri figli”, osserva Leone Paserman presidente della Fondazione Museo della Shoah. “Dopo Auschwitz – sottolinea il presidente – si pensava che l’antisemitismo non ci sarebbe più stato purtroppo non è così”. Per questo è importante inserire il concetto di interesse per il Giorno della Memoria e non solo quello di dovere. “Se dieci anni fa la parola memoria era un termine tipicamente ebraico e fortemente legato alla vicenda della Shoah – spiega Victor Magiar – oggi è un termine che appartiene anche ad altre grandi questioni e ha aiutato a costruire consapevolezza e coscienza. Un altro risultato d’importanza fondamentale è il fatto che da un decennio nelle scuole si realizzano importanti attività di divulgazione e di approfondimento. Abbiamo visto anche che l’esperienza dei viaggi nei luoghi simbolo della Shoah, se preceduti da un’adeguata preparazione, rappresentano per i ragazzi una delle esperienze più formative e più forti. L’impatto sulle nuove generazioni di tutte queste iniziative è molto forte. I ventenni di oggi sanno della Shoah cose che i coetanei delle generazioni precedenti ignoravano. E sapendo cos’è la Shoah comprendono le ragioni profonde del vivere in una società democratica e libera: capire la Shoah immunizza da rischi di demagogia o intolleranza e crea giovani cittadini democratici. La soddisfazione di riscontrare una costante crescita d’attenzione e di coscienza civica, soprattutto nei giovani, grazie alla narrazione della vicenda della Shoah, ci obbliga a un salto di qualità: non solo raccontare quanto accaduto ma fare sì che il racconto serva a capire come ciò è potuto avvenire, quale sia stata la logica che ha generato questa tragedia, perché solo questo ci può aiutare a prevenire che avvenimenti di questo genere abbiano a ripetersi. La stessa naturalezza con cui oggi, davanti ai nuovi timori delle società europee, alla grande confusione e demagogia sui temi del razzismo, dell’immigrazione e del terrorismo, possono prevalere indifferenza, irresponsabilità, paura. Quando si analizza un disastro si scopre sempre che questo avviene perché l’opinione pubblica non ha vigilato e le istituzioni pubbliche non hanno fatto il proprio dovere. Se la Shoah è stata un punto di svolta nella storia, il Giorno della Memoria deve essere un momento apicale, una sorta di vedetta da cui osservare la nostra esperienza storica e la nostra società. Noi tutti, non solo gli ebrei, siamo come sentinelle che non devono vigilare sul passato ma proteggere il futuro. Non dobbiamo diventare guardiani della memoria, non siamo conservatori di un museo”. L’intenzione va rivolta al futuro, grazie anche al nuovo libro di Pierluigi Battista “Lettera a un amico antisionista” (Rizzoli, pagg. 120). La straordinaria vita di Tullia Zevi, dimostra che c’è sempre una speranza. “La lunga e intensa vita di Tullia Zevi e il suo lucido impegno politico – afferma Riccardo di Segni, rabbino capo di Roma – riassumono le vicende di un secolo di storia tormentata e il ruolo vigile e sofferto dell’ebraismo nella difesa dei diritti umani. Ma riassumono anche i paradossi della condizione ebraica. E’ stata Tullia Zevi a portare a compimento la stipula delle Intese con lo Stato, grazie alle quali il diritto di professare la propria religione non è una dichiarazione generica che si limita al diritto a pregare in una Sinagoga, ma si estende a forme di osservanza più radicali come il Sabato. Gli ebrei italiani sono davanti allo Stato una minoranza religiosa, non una minoranza etnica o linguistica o culturale. Il paradosso è che chi li rappresenta è spesso, come la stessa Tullia Zevi, qualcuno che ha con la religione ebraica un rapporto critico, un “diversamente religioso” o forse neppure religioso nell’ambito dell’ebraismo, e ci si chiede allora che senso abbia definirsi rispetto allo Stato come minoranza religiosa. Eppure sono testimone personale dell’attenzione ai dettagli, della precisione e della fortissima determinazione con le quali Tullia si applicò sistematicamente al controllo del testo dell’Intesa, nelle parti che si riferivano ai diritti religiosi, in modo che vi fosse garantita una tutela piena e indiscutibile. Al di là e al di sopra di concezioni identitarie anche radicalmente opposte, che spesso portavano a conflitti inevitabili, vi era la coscienza di una unità di fondo e della necessità di lavorare insieme”. “Di Tullia – ricorda Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane – non dimenticherò mai l’intelligenza, la cultura, l’umanità e lo stile, quelle della Zevi erano qualità dietro le quali si intuivano la fermezza e il carattere. Si è spesa molto per il ricordo e l’istituzione del Giorno della Memoria per far sì che i giovani non dimenticassero e avessero testimonianza di ciò che è accaduto”. “Con Tullia Zevi – fa notare la storica Anna Foa – se ne va una degli ultimi della sua generazione, una generazione che ci appare di giganti. Tutti la compiangono, e molte di queste voci sembrano riconoscerne l’eccezionalità, rimpiangerne la perdita. C’è commozione. Di lei, in questo momento, vorrei solo dire che riconoscevo nel suo pensare e nel suo agire la passione della politica, una passione sincera e divorante, quale avevo visto in altri a me molti vicini, che era passione di una politica quanto mai lontana da ciò che oggi porta questa etichetta, una volontà di fare, di creare, di darsi al mondo. Non l’ho mai ritrovata in coloro che vengono dopo, nella mia generazione o in quelle che seguono”. Saremo in grado di riconoscere i segni di un futuro più spaventoso olocausto? Oggi dipende da ciascuno di noi.

Nicola Facciolini

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