Senza prospettive né disegni e con la paura degli orchi

I dati ISTAT non lasciano spazio ad interpretazioni: la situazione italiana è tutt’altro che florida o in ripresa. A gennaio scorso gli occupati sono diminuiti di 83.000 unità rispetto a dicembre (-0,4%, il dato peggiore da settembre 2009) mentre la disoccupazione giovanile (tra i 15 e i 24 anni) raggiunge un nuovo record e tocca […]

I dati ISTAT non lasciano spazio ad interpretazioni: la situazione italiana è tutt’altro che florida o in ripresa. A gennaio scorso gli occupati sono diminuiti di 83.000 unità rispetto a dicembre (-0,4%, il dato peggiore da settembre 2009) mentre la disoccupazione giovanile (tra i 15 e i 24 anni) raggiunge un nuovo record e tocca il 29,4% (il dato più alto dal 2004, anno di inizio delle serie storiche). Il tasso complessivo di disoccupazione resta fermo, per il terzo mese consecutivo, all’8,6%. Prosegue invece il calo dell’occupazione maschile, con una percentuale di uomini che lavorano tra i 15 e i 64 anni che scende al 67,2%, ai minimi dal 2004. Cresce anche il tasso dell’inattività (quanti tra i 15 e i 64 anni non lavorano né cercano impiego) che raggiunge il 37,8%, con un aumento di 0,2 punti sia rispetto a dicembre 2010 sia rispetto a gennaio 2010. Gli occupati nel mese sono 22.831.000 unità, 110.000 in meno rispetto a gennaio 2010 (-0,5%). I disoccupati sono 2.145.000, con una crescita di 2.000 unità rispetto a dicembre (+0,1%). Rispetto a gennaio 2010 i disoccupati sono cresciuti di 58.000 unità. Il calo congiunturale dell’occupazione (-83.000 unità) è la sintesi tra il calo di 38.000 occupati maschi e 45.000 occupati donne. A livello tendenziale le differenze di genere sono più marcate, con un calo di 173.000 occupati tra gli uomini (-1,3%) e un aumento di 62.000 occupate tra le donne (+0,7%). I dati ci dicono che un giovane su tre e senza lavoro ed una famiglia su tre ha difficoltà economiche. E continuano a crescere i prezzi dei beni primari, come i carburanti e alimentari. In particolare, dice l’Istat, il prezzo della benzina è aumentato a febbraio dello 0,8% su base mensile, con una crescita annua dell’11,8%. Salito anche il gasolio per riscaldamento (+1,8% su mese e +17,2% sull’anno) e in forte crescita anche i prezzi dei beni alimentari: in particolare il pane aumenta dello 0,3% sul mese dell’1,2% sull’anno. Vola anche la frutta fresca, che in un mese è salita dell’1,8% e del 2,4% rispetto al febbraio 2010. Nel mese di febbraio, secondo le stime preliminari, l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (Nic), comprensivo dei tabacchi, ha quindi registrato un aumento dello 0,3% rispetto al mese di gennaio 2011 e del 2,4% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente (era +2,1% a gennaio 2011). Su queste basi, spiega l’Istat, l’inflazione acquisita per il 2011 è pari all’1,5%. Insomma, il cittadino è più povero con beni, anche di prima necessità, sempre più cari e potere d’acquisto sempre più ridotto.  Insomma, per la nostra finanza pubblica sarà necessaria una “manutenzione” non troppo ordinaria. Da dove prendere le risorse per aggiustare il bilancio 2011 e varare quello per il 2012? E come fare per i danari keynesianamente utili a promuovere la crescita economica? Si tratta di un enigma non ancora risolto, anzi, neanche dibattuto da un governo “in tutt’altre faccende affaccendato” e da una opposizione divisa e poco lucida e propositiva. E siccome il problema riguarda tutti (tranne pochi eletti), doveva vedere uniti gli italiani, soprattutto alla vigilia dei 150 anni dall’Unità. Invece, come nota la redazione di “Formiche”, questa Italia non è più  quella degli ultimi cinquanta, con Don Camillo e Peppone che litigano ma poi si ritrovano sui fondamentali. Oggi ci presentiamo come un Paese funestato da un continuo derby dove gli ultrà più violenti prevalgono sui tifosi. La Costituzione è ormai sabotata da modifiche sostanziali e da proposte formali, ma senza speranza di essere approvate. La stessa idea di Stato si è consumata nel tiro alla fune fra Europa ed enti locali. Così, per una strana combinazione del destino, il 17 marzo, giorno in cui si celebra l´Unità d´Italia, cade a metà fra due decisivi Consigli europei che si terranno l´11 e il 24 dello stesso mese, dove si faranno le sorti economiche e finanziarie del nostro funestato Paese. Il ministro dell´Economia italiano si presenterà al consesso europeo con la netta volontà di negoziare modifiche sostenibili e che tengano conto anche di altri parametri. Pur prevedendo il successo diplomatico del nostro governo, non c´è dubbio che l´attenzione della Ue sui nostri conti risulterà aumentata e non allentata. La conseguenza possibile è che, a fronte di una eventuale (e nient´affatto scontata) benevolenza sul debito, vi sarà comunque una rigidità maggiore sul rapporto deficit/Pil. Nel suo romanzo-fiume “Troppa umana speranza” (edito da Feltrinelli), il giovanissimo Alessandro Mari, afferma che  il Risorgimento è stato  l’unico momento epico della storia nazionale e che oggi si è così poco inclini a festeggiarlo, perché orfani di riferimenti e di guida, abbandonati a noi stessi, senza prospettive o disegni per il futuro. Ciò che manca alla nostra società e la speranza, innestata da catalizzatori come furono in passato Garibaldi e Mazzini, esempi pratici da seguire, capaci di dar sostegno alla cosa migliore della giovinezza e della vita:  la capacità di pensare con il sentimento per rinnovare e migliorare la realtà. Colombino da Sacconago, un povero “menamerda” orfano e semi-idiota, cresciuto dal parroco come un figlio, personaggio fondativo che apre e chiude il romanzo, è il simbolo di un’Italia antica, capace di crescita e riscatto, di altruismo e unità, che oggi celebriamo solo con le epigrafi e con il marmo. Colombino ha il fascino dell’idiota (non solo nell’accezione di Dostojevskij, ma in quella di Tolstoj, Ariosto, Manzoni, Nievo, Dickens, Stendhal, Dumas e Flaubert), cioè del portatore di un’intelligenza differente, che ha l’ingenuità dei santi e dei pazzi, ma anche la capacità di prendere la sua vita nelle proprie mani e farne un sogno bello e realizzato. Oggi invece siamo tutti, più o meno, convinti di essere furbi, astuti e di trovare, ciascuno per la sua vita, scappatoie solo di sopravvivenza. E siamo divisi su tutto, come fossimo perennemente allo stadio. Nel suo intervento, il 20 febbraio scorso, di presentazione dell’ultimo saggio, dalla’emblematico titolo “Terroni”, Pino Aprile, ha commesso il solito errore di sostenere che da l’Unità l’Italia meridionale non solo non ci ha guadagnato, ma ci ha addirittura perso in termini economici, di dignità e di capacità organizzative nell’unirsi con il resto della nazione, pagando oltretutto un pesante pedaggio di vite umane, in particolar modo ad opera dei piemontesi, che a dir suo, fecero al sud quanto i nazisti a Marzabotto. Al termine di una sua lunga disamina ne viene fuori che la questione meridionale è destinata a rimanere tale, anche per le numerose e pericolose bordate della Lega Nord. Per Pino Aprile sarebbe conveniente da tutti i punti di vista una nuova scissione che metterebbe l’Italia del sud in grado di riprendersi ciò che le spettava. Ed è questo l’errore degli intelletti migliori di questa nostra disfatta Nazione. Rinnovamento morale e politico ed unità, invece, devono essere i visionari sogni di novelli idioti votati alla speranza, per se stessi e per quelli che verranno. E’ solo in questa nuova, “riunita”, nazione che avremo meno paura e più speranza. Paura, certo, e non solo di non giungere a fine mese o di non trovare uno sbocco per i nostri figli. Paura anche per il diverso, il migrante, l’altro da se che giunge da lontano come una forza in più ed una più fresca spinta al rinnovamento. Si perché, in questi anni, mentre non svanivano i contorni del “diverso”, dello straniero,  prendeva, in aggiunta,  a stagliarsi la figura del sosia, il vicino, l’uguale, egualmente da tenere a distanza, guardare con sospetto e temere. Abbiamo rinunciato senza rendercene conto a sperare nell’immacolata serenità dei nostri orti e ci siamo ritrovati raggelati dalla consapevole paura dell’uomo bianco, del vicino di casa, di quello che abita di fronte o che ha un accento diverso. E questa paura è acuita dai recenti fatti di cronaca, dagli assassini immotivati o che fanno pensare ad orchi e predatori tra noi e vicino a noi, in agguato nell’ombra, pronti a ghermire ed uccidere senza nessun apparente motivo. Come ricorda Marco Neirotti su La Stampa, dieci anni fa Novi Ligure si contorse insanguinata dal massacro dei “rapinatori albanesi” e in ventiquattr’ore si risvegliò martoriata dalla verità: a devastare esistenze e corpi della madre e del fratellino non erano stati i feroci immigrati del canale di Otranto ma una figlia modello che aveva armato anche il fidanzatino inginocchiato a lei. Dieci anni dopo, a Brembate di Sopra, rilasciato il magrebino Mohamed Fikri, il parroco racconta una religiosa e terrena via crucis: si svegliava ogni notte all’idea d’una mano che nottetempo suonava alla canonica, l’assassino di Yara venuto a confessarsi. Dunque non aspettava il pentimento di un islamico senza il nostro Dio, non un coltello senza rimorsi dell’Est, bensì un’anima vagante di questa o delle vicine comunità casa e lavoro. In dieci anni l’istinto che conduceva al di fuori di noi – c’è un maniaco a Cogne “perché una mamma non può far quello” – si è stemperato attraverso le rappresentazioni del crimine di prossimità: una figlia per madre e fratello, una madre per il figlio, due vicini di casa in un cortile a Erba. Può accadere anche nei nostri nidi. Più che consapevolezza, l’ineluttabilità della consuetudine con il nostro Male, che avvertiva: non sentirti sicuro, non cercarmi lontano. Viviamo la paura e la divisione dell’America profonda descritta da Steinbeck e ne condividiamo brutalità, violenza reazionaria ed immobilismo. Ci esaltiamo alla “poesia” in musica di Roberto Vecchioni, ma assomigliamo sempre più agli eroi negativi che lui fustiga nelle sue canzoni. Siamo una nuovo comunità più povera e disperata, che reagisce al senso ondivago di in momenti di associazionismo, come il volontariato, ma per tutelarsi in un privatisimo arroccato contro ipotetiche minacce. Marco Gobbetti, in “Nulla Dies Sine Linea”, scrive che il nostro presidente del consiglio sa come cavalcare la nostra paura e, in continuazione, ci rassicurava, affermando che comunque c’è lui a risolvere ogni problema. Ma adesso, dopo i fatti di Libia, si rende forse conto che non aveva mai pensato che un giorno avrebbe dovuto ipotizzare di comportarsi come ogni dittatore dichiarato, lui che non lo è alla luce del sole, lui che ama i travestimenti innanzitutto per se stesso. Non pensava di dovere un giorno rassicurare se stesso facendo paura ai suoi protetti, impazziti al punto da scendere in piazza in quantità non travisabili. Rischia però così un surreale cortocircuito dell’architettura mediatica su cui basa la sua democrazia virtuale, la sua dittatura criptata. Ma non ha scelta. Presto tenterà dunque di fare paura a chi alza la voce, a chi si permette di sfuggire al suo tranello, di non giocare – o farsi giocare – secondo le poche semplici regole suggeritegli da anni. Scriveva Vittorio Alfieri nel 1796: “Veggono costoro il popolo delle città, l’una metà mendico, ricchissimo l’altra, e tutto egualmente scostumato; veggono inoltre, la giustizia venduta, la virtù dispregiata, i delatori onorati, la povertà ascritta a delitto, le cariche e gli onori rapiti dal vizio sfacciato, la verità severamente proscritta, gli averi la vita l’onore di tutti nella mano di un solo; e veggono essere incapacissimo di tutto quel solo, e lasciare egli poi il diritto di arbitrariamente disporne ad altri pochi, non meno incapaci, e più tristi: tutto ciò veggono palpabilmente ogni giorno quei pochi enti pensanti, che la tirannide non ha potuti impedire; e in ciò vedere, sommessamente sospirando, si tacciono. Ma, perché si tacciono? per sola paura. Nella tirannide, è delitto il dire, non meno che il fare. Da questa feroce massima dovrebbe almeno risultarne, che in vece di parlare, si operasse; ma (pur troppo!) né l’uno né l’altro si ardisce”. Riflettiamoci sopra, prima che la paura divori per intero la nostra mente.

Carlo Di Stanislao

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