Troppo sensibile per non morire

Aveva gli occhi buoni e mesti dei predestinati, di coloro che soccombono per eccessiva sensibilità e poco egoismo. Si chiamava Daniel Busetti, venti anni, manovale, in fuga dopo essere rimasto coinvolto in un incidente stradale a Martinengo, in provincia di Bergamo, a pochi chilometri dal luogo della tragica fine di Yara. La vettura di Daniel […]

Aveva gli occhi buoni e mesti dei predestinati, di coloro che soccombono per eccessiva sensibilità e poco egoismo. Si chiamava Daniel Busetti, venti anni, manovale, in fuga dopo essere rimasto coinvolto in un incidente stradale a Martinengo, in provincia di Bergamo, a pochi chilometri dal luogo della tragica fine di Yara. La vettura di Daniel era finita contro un muretto, mentre l’altra si era schiantata contro una cancellata. Il giovane era rimasto illeso, mentre l’amico che era con lui aveva riportato un lieve trauma alla testa, come anche le tre donne sull’altro veicolo. Nessuno comunque era rimasto ferito in modo grave, ma Daniel era rimasto sconvolto, pieno di sensi di colpa, con l’oscura certezza di aver combinato qualcosa di irreparabile. Ha pensato ad una colpa imperdonabile e si è dato alla fuga, rintanandosi nel fitto di una boscaglia, lungo l’ansa di un fiume, dove è morto assiderato, vittima del freddo e della disperante paura. Di lui si è parlato poco sui giornali ed in tv anche se la sua fine costituisce un monito esemplare. Daniel non era un pirata della strada: dopo l’incidente ha soccorso l’amico che viaggiava con lui e poi è sparito; un’ eccezione nel mondo cinico ed indifferente di oggi, ma anche l’emblema di una fragilità giovanile davvero allarmante. Secondo l’ASPAS (Associazione Sostenitori Polizia Stradale), sono ben 29, dal 1997 ad oggi (18 dal 2009), i casi italiani di suicidio o tentato suicidio dopo un incidente stradale e 20 di essi riusciti. Sono fragili i nostri figli e, spesso, carichi di cupezza ed eccesso di responsabilità, frustrati nelle aspettative e nei sogni, avviati già da giovani ad una vita troppo stretta e troppo adulta. Il disagio giovanile lo si trova in tutti i ceti sociali, nei vari tipi di famiglie e spesso non è legato solo alle preoccupazioni per un futuro posto di lavoro. Nel destino di questi giovani, la differenza sta nelle risorse finanziarie o personali che i genitori possono o vogliono mettere a disposizione e ciò non sempre s’accompagna a una vera educazione ed un vero sostegno. Molto spesso, infatti, la severità e la mancanza di dialogo, crea fragilità ed incertezza, poiché, come scrivono i psicologi ed i sociologi, quando manca la capacità di nominare le cose e le emozioni, manca un meccanismo fondamentale di controllo su se stessi. Questi giovani lasciati senza parole e conforto, senza esempio e contatto, spesso liberano i sentimenti con la violenza fisica, sugli altri o su se stessi. Due casi recenti. Quello degli studenti ginevrini che nel novembre 2010, a Roma, hanno aggredito un cameriere e quello dei tre studenti zurighesi da poco condannati in prima istanza dal Tribunale dei minori di Monaco per aver aggredito, in poche ore, 5 estranei. Tutti provenivano da buone famiglie. Nessuno di loro è stato in grado di dare le ragioni che li avevano indotti a questi gravi gesti. Non hanno avuto le parole per dirlo alle autorità. Ancora più grave, non hanno avuto le parole per spiegarselo. La condanna tedesca è stata esemplare. La società, la politica, i genitori e gli esperti si dividono: alcuni scaricano la proprie responsabilità su terzi (scuola, docenti o società). Altri ritengono di usare questi episodi, a fini politici, per criticare la giustizia svizzera e chiedere un inasprimento delle pene. La nostra giustizia penale minorile prevede una pena massima di 4 anni accompagnata da misure di rieducazione. Tornando più da vicino al tema fragilità-suicidio, i numeri fanno impressione: in Italia, l’8% di tutti i decessi tra i ragazzi nella fascia di eta’ 10-24 anni e’ determinato dalla scelta consapevole di togliersi la vita e proprio il suicidio e’ tra le prime cause di morte tra i piu’ giovani. Il fenomeno dei suicidi in Italia, ha spiegato il ricercatore Iss Nicola Vanacore, ”non e’ ai livelli piu’ alti ed il nostro Paese, nella graduatoria internazionale, si colloca in una posizione medio-bassa. Ciononostante, il fenomeno assume dimensioni pesanti proprio tra i giovani e questo e’ molto preoccupante”. Il caso di Daniel deve farci riflettere sulla fragilità muta di tanti giovani, sensibili ed operosi, inchiodati da troppe gravose responsabilità, pronti a crollare alla prima occasione traumatica, incapaci di gestire con tranquillità anche la più piccola emergenza. Giovani che appartengono a due categorie, opposte ed agualmente preoccupanti, quelli degli irresponsabili strafottenti, educati da “genitori-amici” e gli altri, schiacciati da una morale domestica sovente troppo pervasiva. Gli uni e gli atri, in fondo, che non sanno comunicare ed anche fra loro dialogano l’onnipresente telefonino: simbolo-feticcio di questa generazione fragile, muta ed abbandonata a se stessa. Una generazione attraversata dalla paura, che non ragione e reagisce d’istinto, creando danni agli altri o a se stessa. E, da genitori, occorrerà mettere in atto gli strumenti necessari a vincerla questa paura, che genera rabbia o fragilità, adoperando assennatamente amore, rassicurazione, presenza, serenità, spiegando e anche ‘liberando’ i nostri figli, rendendoli autonomi, forti, fiduciosi in se stessi. Per questo innanzi tutto per primi dobbiamo abolire quei vecchi metodi educativi, che ci instillavano paura per renderci obbedienti

Carlo Di Stanislao

 

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