Venerdì di sangue a Damasco

L’ondata di proteste, rivolte e talvolta rivoluzioni che ha investito Nord Africa e Medio Oriente nei primi mesi del 2011 è stata chiamata da analisti e stampa ‘primavera araba’. Un nome che pare sottendere l’esito felice del risveglio delle coscienze. Tuttavia, a tre mesi dalla caduta del raìs tunisino Ben Alì, il primo a finire […]

L’ondata di proteste, rivolte e talvolta rivoluzioni che ha investito Nord Africa e Medio Oriente nei primi mesi del 2011 è stata chiamata da analisti e stampa ‘primavera araba’. Un nome che pare sottendere l’esito felice del risveglio delle coscienze. Tuttavia, a tre mesi dalla caduta del raìs tunisino Ben Alì, il primo a finire nel mirino dei cittadini, la regione è tutt’altro che pacificata e democratizzata. Guerra di Libia a parte, tensioni e scontri sono durissimi in Siria, Yemen e Bahrein. E nel Maghreb la situazione economico-sociale è tutt’altro che risolta. Novanta persone sono state uccise ieri a Damasco, durante la dispersione, da parte delle forze dell’ordine,  di imponenti manifestazioni dell’opposizione, iniziate dopo la preghiera del venerdì. Secondo gli attivisti, le forze di sicurezza hanno sparato dei lacrimogeni, a cui la folla ha risposto con un lancio di pietre. La situazione e’ degenarata quando gli agenti, vestiti in borghese, hanno aperto il fuoco, dapprima con proiettili di gomma quindi con proiettili veri. Ben diversa la versione della tv di stato, che ha parlato di “sabotatori e cospiratori che hanno sparato contro i residenti e le forze di sicurezza”. La tv ha quindi mostrato immagini di diversi uomini mascherati intenti a sparare. “E’ la prova – ha commentato il conduttore – che vi sono soggetti che vogliono creare l’inferno in Siria”. Qualcuno ha definito quello di ieri “Il Grande Venerdì” anche perché era per i cristiani siriani il giorno della Passione di Cristo: per segnare l’unità e non la divisione tra le fedi in questa battaglia per la libertà. A Damasco, alla sua periferia di Douma, nella ormai storica città della protesta Deraa a Sud verso il confine giordano. E poi a Hama, Homs, Baniyas, Amouda, Qamishly, Hashaka vicino alla frontiera irachena. La geografia della rivolta si allarga sulla mappa della Siria. E oltre. A Beirut manifestano contro il regime di Damasco anche i sunniti libanesi. Mentre le fonti ufficiali parlano di reparti antisommossa e cannoni ad acqua, quelle indipendenti riferiscono di “una pioggia di proiettili”, di morti per le strade, di gente presa dai servizi di sicurezza e scomparsa nel nulla. Sotto la spinta delle durissime contestazioni nel sud povero del Paese, con epicentro a Daraa, Assad aveva promesso il 27 marzo di abrogare la legge marziale in vigore dal 1963, aveva sciolto il governo e promesso cambiamenti epocali. Venti giorni dopo, poco era stato fatto.
I contestatori non hanno smesso di scendere in strada quasi quotidianamente, a Daraa – dove almeno 150 persone sono morte in poco più di un mese – ma anche nel resto della nazione, immune fino a poco tempo fa alle manifestazioni. Nella settimana centrale di aprile cortei con decine di migliaia di persone si sono spinti in centro a Damasco, roccaforte del potere, così come nel nord ricco e turistico di Aleppo e nella città portuale di Latakia. Assad ha costituito un nuovo governo giovedì 15 aprile e, parlando alla nazione, è tornato a promettere che “le richieste dei cittadini saranno esaudite”. Si è spinto ad affermare che la legge marziale, introdotta dal partito Baath di cui il padre Hafez (presidente dal 1979 al 2000) fu esponente di spicco, sarà tolta entro pochi giorni, una settimana al massimo: in teoria, quindi, entro il 22 aprile.
Nonostante i toni conciliatori del presidente, i suoi uomini armati continuano con la violenza e le armi. Le forze di sicurezza, come vengono chiamati i reparti armati appartenenti un po’ all’esercito un po’ alle milizie alla diretta dipendenza di Bashar, non esitano a ricorrere a gas lacrimogeni per disperdere la folla fuori dalle moschee. Domenica 17, poi, i miliziani hanno sparato su un corteo funebre, uccidendo almeno otto persone, nei pressi di Homs. Martedì, il presidente, aveva annunciato una serie di riforme democratiche. E giovedì aveva firmato il decreto che annulla lo stato d’emergenza in vigore dal 1963: almeno un paio di generazioni di siriani non hanno conosciuto altro nella loro vita quotidiana. Ma sul campo non ci sono cambiamenti, si vedono solo poliziotti e militari. “Le riforme hanno un senso solo se le forze di sicurezza smettono di sparare, arrestare e torturare i manifestanti”, protesta Joe Stork di Human Right Watch. In serata il presidente Usa, Barack Obama, ha esortato il governo siriano a “porre fine e a rinunciare” alle violenze contro i dimostranti e attuare le riforme promesse, ma senza minacciare sanzioni, a differenza di quanto accaduto per Egitto, Tunisia e Libia. Prudente anche Israele che sa bene l’importanza strategica negli equilibrio Medio-Orientali della Siria. Le forze armate israeliane che avevano inanellato vittoria su vittoria nei decenni passati, non sono più capaci di dominare il terreno. Durante la loro offensiva contro il Libano (2006), e poi contro Gaza (2008), hanno mostrato di aver aumentato il proprio potere distruttivo, senza però riuscire più a raggiungere gli obiettivi prefissati, all’occorrenza nel distruggere l’Hezbollah e Hamas.  Inoltre, il loro arsenale, alimentato a richiesta, dagli Stati Uniti, non garantisce più loro il dominio. I loro carri sono diventati vulnerabili ai RPG russi, mentre formavano la spina dorsale dei loro blitzkrieg. La loro marina è minacciata dai missili suolo-mare consegnata dalla Cina a Hezbollah dotati oramai del sistema anti-interferenza che mancava loro nel 2006. Infine, il loro dominio aereo non resisterà molto tempo alla proliferazione dei S-300 russi, in corso di consegna nella regione. La perdita di influenza degli Stati Uniti è tanto palpabile che il generale Davide Petraeus, comandante in capo del Central Command, ha suonato l’allarme a Washington. Ai suoi occhi, il gioco giocato non solo dagli israeliani in Palestina, ma soprattutto in Iraq, ha bloccato i progetti statunitensi nella regione. Inoltre, l’impantanamento dei GI’s in Iraq ed in Afghanistan fa di loro degli ostaggi della Turchia, della Siria e dell’Iran, solo a patto d’acquietare le popolazioni in rivolta. In una completa inversione dei ruoli, l’alleato strategico del Pentagono è diventato un proiettile, mentre i suoi nemici regionali sono divenuti i suoi scudi. Prendendo atto dell’insuccesso del rimodellamento USA del Medio Oriente, Mosca si è riposizionata sulla scena regionale in occasione del viaggio del presidente Dmitry Medvedev a Damasco ed Ankara. Pur di fronte ad un esercito sanguinario di 350mila uomini che, diversamente da quello egiziano o tunisino, rimarrà fedele al regime, in Siria la gente  continua a far ingigantire la rivolta, mentre la leggerezza con cui l’esercito da un mese spara direttamente sui manifestanti per disperdere cortei e sit-in non fa che far montare la collera delle piazze. Le manifestazioni organizzate tre giorni fa dagli studenti della facoltà di medicina di Damasco hanno chiesto infatti esplicitamente “la fine del massacro”. La Siria è il Paese in cui un eventuale mutamento di regime avrebbe maggiori conseguenze internazionali (vedi l’analisi di Lucia Annunziata su “La Stampa: “http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8552&ID_sezione=&sezione=). Si tratta di vedere se la pretesa monarchica del vecchio dittatore  Hafiz al-Asad, che dopo aver governato con pugno di ferro dal 1970 al 2000 ha lasciato in eredità la presidenza al figlio Bashar, reggerà ai venti di cambiamento che spirano anche la Siria al grido “Suriya, hurriya” (“Siria, libertà”). Bashar al-Asad ha brandito l’arma della repressione violenta, alternandola con le promessa di cambiamento e con la mobilitazione dei supporter del regime.   E’ fin troppo evidente che la collocazione di Damasco nel “triangolo petrolifero tra Iran, Iraq e Arabia Saudita” e il fragile equilibrio interno garantito per quasi mezzo secolo dal potere fortemente autoritario del partito Ba’th e dall’abilità personale di Hafiz al-Asad, condizionano fortemente le chances del movimento democratico dei giovani siriani. La scansione “tunisina” degli eventi sembra attecchire ora anche in Siria, e molti analisti arabi cominciano adesso a speculare sull’eventuale ritirata di Bashar. O, almeno, la stesura di una “road map” che permetta una lenta uscita di scena per il presidente ereditario col minor danno possibile per quell’enorme apparato di politici, “figure di mezzo”, generali, governatori e businessmen che si è retto sul regime fondato al padre Hafez. A partire da ieri, è impossibile vedere la situazione se non in termini di precipizio: non sembra più possibile il ritorno alla calma, nonostante la repressione sempre più violenta del dissenso. Se a Damasco i pochi convenuti sono stati spazzati via a colpi di lacrimogeni nel giro di qualche minuto, è bene ricordare che fino alla settimana prima nessuno avrebbe osato fare capolino in strada, nonostante le promesse da parte del governo di voler garantire la libertà di manifestazione. E a Homs, dove il famigerato governatore è stato licenziato tre giorni fa nel disperato tentativo di pacificare una folla inferocita dai 30 morti di sabato scorso, ieri sono sfilati in tremila lungo Cairo Street (quando si dice l’ironia della sorte),  nonostante l’esercito aprisse il fuoco a caso su chiunque avanzasse. Persino in Libano, la cui stabilità dipende dalla Siria, si comincia a temere il contraccolpo di quella che soltanto un mese fa sembrava una tempesta passeggera, e nelle zone controllate dal Partito Nazionalsocialista Siriano si moltiplicano gli scontri e le ronde di controllo. Un paese anomalo all’interno della variegata “primavera araba”, la Siria. A differenza dei regimi contestati in Egitto, Tunisia, Yemen o Bahrein, la Siria – pur nelle sue doppiezze e ambivalenze – è percepita come un’antagonista di Usa e Israele. Il nuovo profilo internazionale del presidente – soprattutto nella gestione del conflitto libanese, da cui la Siria si è disimpegnata dal 2005 – è stato gradito da molti. Insopportabile, invece, nel contesto di crisi internazionale, la gestione soffocante e tecnocratica degli apparati statali (per molti versi simile a quella egiziana). Insopportabili i costi sociali delle scelte neoliberiste che hanno pesato sui lavoratori del settore agricolo, dell’industria. Che hanno prodotto un livello di disoccupazione endemica e un’economia informale incapace di contenere l’ondata di giovani in età lavorativa. Ed i problemi in quell’area geografica non sono finiti. Infatti, se in Siria il venerdì  scorso è stato chiamato “Grande”, in Yemen di giorni della rabbia ce ne sono stati addirittura due: un “venerdì della Riconciliazione”, per i sostenitori del governo arringati direttamente dal presidente Ali Abdullah Saleh nella capitale Sana e un “Venerdì dell’ultima chance” per gli oppositori del regime, ritrovatisi in massa soprattutto a Taiz. Proprio Taiz nelle ultime settimane era stata violentemente attaccata dagli uomini di Saleh, che non avevano esitato a sparare persino sull’esercito che, ammutinato, cercava di proteggere le manifestazioni pacifiche contro il regime. Ieri però Saleh ha cercato di ammorbidire i toni, dichiarando alla sua folla che “Non un’arma verrà alzata sugli oppositori. Dobbiamo dimostrare al mondo le nostre intenzioni”; un chiaro segno di compromesso adesso che il presidente cerca l’appoggio dei paesi del Golfo.

Carlo Di Stanislao

 

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