Razzismo e xonofobia: pregiudizi ancestrali, duri a morire

Xenofobia è la paura di ciò che è distinto per natura, razza o specie. A volte questo atteggiamento non si ferma alla semplice paura ma sfocia in una vera e propria intolleranza e discriminazione nei confronti dell’oggetto della propria paura. La psicologa Laurie R.Santos, della Yale University, ha coordinato una recente ricerca dalla quale emerge […]

Xenofobia è la paura di ciò che è distinto per natura, razza o specie. A volte questo atteggiamento non si ferma alla semplice paura ma sfocia in una vera e propria intolleranza e discriminazione nei confronti dell’oggetto della propria paura. La psicologa Laurie R.Santos, della Yale University, ha coordinato una recente ricerca dalla quale emerge un dato inquietante circa la caratteristica della natura umana di valutare le persone in maniera diversa a seconda che le si consideri parte, oppure fuori dal gruppo di appartenenza. I risultati della ricerca, pubblicata a marzo sulla rivista di divulgazione scientifica Journal of Personality and Social Psychology, suggeriscono che la distinzione che gli esseri umani fanno tra “noi” e “loro”, quindi che le radici dei pregiudizi umani, si possono fare risalire a 25milioni di anni fa, ai tempi del comune antenato di umani e Macachi del genere Rhesus. Secondo Mahzarin Banaji, Dipartimento di Psicologia della Harvard University e coautore dello studio in questione, da un lato gli psicologi sociali insistono sull’importanza dell’ambiente a condizionare determinati comportamenti, nonché sentimenti ed emozioni;  d’altro canto i teorici dell’evoluzione ci hanno reso consapevoli del nostro passato ancestrale e lo tengono in considerazione a spiegazione del comportamento osservabile. In definitiva la tendenza a non gradire gli appartenenti a gruppi estranei, avendo origini ancestrali, non parrebbe così semplice da intaccare, visto che il processo evolutivo pare non averla minimamente sfiorata, però ciò che si è osservato nelle scimmie e che ci può in qualche modo confortare, è che loro hanno sviluppato una notevole flessibilità circa i criteri di appartenenza al gruppo. Se “anche” noi umani riuscissimo a trovare il modo di sfruttare questa flessibilità evolutiva, forse potremmo avviarci verso la costruzione di una comunità maggiormente tollerante, capace di affrontare le conflittualità. Nelle scimmie si è associato un carattere considerato “buono” ed uno considerato “cattivo” a distinzione, riuscendo così a valutare le reazioni automatiche in relazione ad elementi ingroup e/o outgroup. I ricercatori hanno mostrato sequenze di foto nelle quali i soggetti erano associati o meno con foto di cose considerate “buone”, come la frutta, oppure “cattive”, come i ragni, ed è stato pure valutato il tempo che le scimmie spendevano dinanzi a quella foto, piuttosto che dinanzi all’altra. Si è visto con chiarezza che le fotografie delle scimmie ingroup venivano rapidamente associate alle immagini di frutta, quindi associate al “buono”, mentre quelle delle scimmie outgroup a foto di ragni, quindi al “cattivo”. È indubbio lo stimolo e la conseguente diversa risposta. L’associazione tra il buono e l’estraneo risulta essere innaturale nella scimmia e, come per gli umani, prevale il comportamento positivo, scevro da paure, volto verso il conosciuto, mentre prende il sopravvento quello negativo dinanzi al diverso. La ricerca vorrebbe rappresentare la base di partenza per effettuare altri studi approfondendo magari le motivazioni che tendono a rinforzare, quindi a persistere, in atteggiamenti negativi e l’eventuale legame e/o invischiamento con questioni di priorità etica, ad esempio si ritiene che l’identificazione e la diffidenza nei confronti dell’estraneo possa di per sè avere un carattere evolutivo, teso alla sopravvivenza del branco originario. Sapevamo, ancor prima di questa ricerca, che l’uomo  tende ad aver paura di tutto quanto possa esistere di diverso; e se l’inevitabile interrogativo “Diverso rispetto a chi?”, razionalmente, troverà risposte stentate, è facile notare come tutto ciò che appare difforme, che rappresenta uno scarto, un’irregolarità rispetto al contesto suscita paura. La letteratura ha stigmatizzato questo sentimento facendone un vero e proprio topos, tuttavia è forse nel genere fantascientifico che la riflessione sulla paura della diversità si arricchisce di interessanti risvolti. Passando in rassegna alcuni testi “campione”, non possiamo fare a meno di citare il   capolavoro di Mary Wollstonecraft Shelley, Frankenstein –  uno dei capostipiti della fantascienza già capace di cogliere l’essenza del problema della diversità: l’uomo, alla costante ricerca della propria identità, ha bisogno di vedere nell’altro un proprio simile; se ciò non accade, si apre la strada ai sentimenti oscuri e negativi quali la paura e l’odio. L’eliminazione della diversità sembra essere la preoccupazione maggiore dei grandi maestri della fantascienza: Isaac Asimov ci regala stupende pagine sui robot e sulla loro umanizzazione, mentre Philip K. Dick racconta spesso di creature scarsamente consapevoli della loro non appartenenza al genere umano in quanto dotate di aspetto e pensieri propriamente umani; come non menzionare dunque Ray Bradbury, che in molti racconti, densi di sarcasmo, focalizza l’attenzione sull’incapacità, da parte dell’uomo, di distinguere un androide da un proprio simile, tratto in inganno dall’aspetto (due racconti per tutti: Usher II e I sosia). La paura del diverso è irrazionale perchè superficiale, legata all’apparenza; probabilmente niente meglio che il geniale racconto di Fredric Brown, Sentinella, permette di capire tale sentimento: “Era bagnato fradicio e aveva fame e freddo ed era lontano cinquantamila anni-luce da casa…E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco… Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d’un bianco nauseante, e senza squame”. Circa, poi, la relazione fra la paura del diverso (definita propriamente xenofobia) e razzismo, anche se, a rigore, si tratta di cose diverse e non sempre correlate, esiste molto spesso una stretta relazione fra le due cose. Negli ultimi anni il numero di violenze a sfondo razzista è aumentato, i partiti xenofobi hanno sempre più successo e l’ideologia di estrema destra si è diffusa anche negli ambienti giovanili. Studi scientifici hanno dimostrato che spesso i giovani xenofobi erano considerevolmente aggressivi già da bambini e che gran parte di essi da piccoli avevano un marcato timore degli sconosciuti. Si tratta di un timore che eccede di ampia misura la “paura degli sconosciuti” normale a questa età, che porta a percepire lo straniero come una minaccia interna. La politica reazionaria e populista, gettando discredito sugli stranieri, crea l’illusione della propria superiorità. Contro tale tendenza si rende necessario, consapevolizzare le persone circa il fatto che  tali nessi logici creano immotivati pregiudizi. Anche la formazione di una consapevolezza storica – ad esempio nelle lezioni di storia – e l’educazione politica contribuiscono alla prevenzione del razzismo. A livello politico-sociale va soprattutto evitato che singoli gruppi siano emarginati e discriminati, poiché anche l’ingiustizia sociale è un terreno fertile per la xenofobia e il razzismo. Il 21 marzo scorso Human Rights Watch ha pubblicato un rapporto di 81 pagine dal titolo “L’intolleranza quotidiana”, dedicato a razzismo e xenofobia oggi, nel nostro Paese (vedi http://www.hrw.org/sites/default/files/reports/italy0311itWebUseThisOne.pdf.). La ricerca è stata condotta da un lato valutando la situazione giuridica in Italia in termini di razzismo e xenofobia e giudicando gli interventi della politica in materia e dall’altro attraverso testimonianze dirette, degli immigrati, delle forze dell’ordine e dei rappresentanti di varie ONG e associazioni operanti nel nostro paese, arrivando a collezionare oltre cinquanta testimonianze in grado, con riferimenti precisi e circostanziati, di gettare luce sul rispetto dei diritti umani nel nostro Paese. Oltre ad un clima reso sfavorevole agli immigrati da esigenze elettorali, ed una legislazione orientata alla sommaria identificazione tra immigrati e criminali, sono stati svuotati di significato anche gli strumenti messi a disposizione dalla legge per l’osservanza dei diritti umani. In primo luogo l’UNAR, per ben cinque anni, ha lavorato senza avere possibilità, nel proprio database, di specificare il razzismo tra le motivazioni delle discriminazioni. Questo significa, di fatto, che non esiste alcuna mappatura ufficiale dei casi di razzismo e xenofobia in Italia, lasciando buon gioco a chi tenta di stigmatizzare gli episodi più violenti a semplici episodi non indicativi di un clima nazionale. Solo nel settembre 2010 sono state finalmente apportate le necessarie modifiche. La stessa Legge 205/1993, inoltre, è stata interpretata in maniera molto restrittiva. Complice una scrittura non chiarissima della legge, di fatto le aggravanti per razzismo vengono applicate solo quando il razzismo diventa la finalità ultima del reato, rimanendo quindi lettera morta nella stragrande maggioranza dei casi. Secondo le conclusione dell’ampio rapporto,  l’Italia è un paese in cui stanno crescendo sentimenti razzisti, alimentati ad arte in maniera da risultare del tutto sproporzionati alla situazione attuale del Paese. Nell’ideologia leghista, nella propaganda berlusconiana e nell’ignavia dell’opposizione HRW trova le principali cause – due attive ed una passiva – della deriva xenofoba nello Stivale, e proprio per questa chiara identificazione delle responsabilità suonano quasi inutili i suggerimenti offerti al Governo e ai singoli Ministeri. La situazione italiana appare particolarmente insidiosa proprio perché esiste una precisa e attiva volontà ad agire in senso contrario a quanto prescrive la Convenzione dei diritti umani, e quindi non vi sono reali tentativi di trovare una soluzione al problema. Un cambio di rotta, specie dopo gli ultimi schiaffi ricevuti dall’Europa in tema di immigrazione dopo la crisi libica, appare, ad oggi, solo una chimera. Secondo, poi, quanto emerge dal rapporto “Io e gli altri: i giovani italiani nel vortice dei cambiamenti”, uno studio che ha coinvolto oltre 2.000 ragazzi tra i 18 e i 29 anni, effettuato dall’istituto di ricerche SWG per la Conferenza dei Presidenti delle Assemblee Legislative delle Regioni e delle Province Autonome, pubblicato a ferraio scorso, quasi la metà dei giovani italiani sono apertamente razzisti e xenofobi, e solo il 40% si dichiara “aperto” alle novità e alle nuove etnie che popolano il nostro paese. In base al rapporto, il clan degli improntati al razzismo, rispetto a quello degli xenofobi per elezione, si distingue non solo per l’intensità estremizzata delle proprie posizioni, ma anche per la sua capacità di produrre un vero e proprio modo di essere nella società, per la sua tendenza a essere una comunità, per quanto chiusa e ristretta. Ci troviamo di fronte a un agglomerato che sviluppa un forte senso di appartenenza, che ha trovato nella rete il proprio ambito di espressione e riconoscimento, ancor prima che il proprio megafono. E la cosa non può non preoccuparci. Mentre scrivo, si sta svolgendo a Roma l’incontro bilaterale fra Italia e Francia,  che molti definiscono chiarificatore dopo gli ultimi “scontri” istituzionali sul tema dell’immigrazione clandestina, sulla questione libica e sulla recente vicenda Lactalis-Parmalat (oggetto di discussione tra i due leader). I francesi ribadiscono la loro ferma contrarietà sulle posizioni degli italiani in tema di immigrazione dopo i numerosi sbarchi avvenuti in queste settimane a Lampedusa e, In buona sostanza alla Francia di Nicolas Sarkozy non va giù l’idea di dotare i profughi stranieri sbarcati in Italia di un visto provvisorio che gli permetta di giungere liberamente in altri paesi Europei (primo fra tutti la Francia), tanto da interpretarla come una violazione di Schengen. L’Italia invece accusa il paese della Libertè, Égalité, Fratenité di violare i principi dell’Unione.  Europea. sul flusso di migranti dal nord Africa andrà trovato un accordo definitivo sugli attraversamenti del confine italo-francese degli immigrati tunisini con i permessi temporanei, tenendo conto che dopo la “crisi di Ventimiglia” le tensioni tra i due paesi si sono “molto stemperate” fanno notare dal Viminale. Oltre a ciò, andranno definiti i particolari del pattugliamento congiunto aereo-navale davanti le coste della Tunisia, previsto dall’intesa fra i ministri degli Interni Maroni e Gueant lo scorso 8 aprile a Milano ma ancora non operativo; infine bisognerà stabilire il ruolo dell’Italia nel programma di rimpatrio dei tunisini, cui scadrà il permesso mentre si trovano in territorio francese: la competenza è naturalmente di Parigi, ma Maroni si è impegnato a fornire in ambito Ue il sostegno di Roma. L’intenzione del ministro Roberto Maroni, riferiscono dal Viminale, è quella di trovare con i colleghi francesi “una strada comune” per affrontare l’emergenza migratoria, utilizzando “il buon senso” e non “azioni di forza”, come invece era sembrato dall’iniziale intransigenza di Parigi ad accogliere immigrati provenienti dall’Italia con il permesso di soggiorno temporaneo. Sul piano politico, questo si dovrebbe tradurre – nelle intenzioni degli sherpa – in una lettera congiunta firmata da Sarkozy e Berlusconi indirizzata alle istituzioni europee per chiedere una modifica alle regole di Schengen – che d’altronde ha già annunciato di essere disposta a fare la Commissione -; un potenziamento di Frontex, l’agenzia europea per la sorveglianza delle frontiere; e un aiuto concreto a favore dei paesi della sponda sud del Mediterraneo in cambio di una maggiore responsabilizzazione da parte dei loro governi in materia di immigrazione. E si teme un ulteriore giro di vite, da parte di due governi populisti e di destra, il cui elettorato potrebbe scivolare verso partiti capaci di cavalcare le derive razziste e xenofobe che attraversano gran parte del Vecchio Continente, nonostante la “decisione quadro” dei ministri della giustizia Ue, del gennaio 2009, secondo cui il “razzismo e la xenofobia non hanno posto in Europa”. L’inondazione di odio in Internet, i cori negli stadi contro i giocatori neri, il risveglio del demone antisemita, le spedizioni squadristiche contro gli omosessuali, i rimpianti di troppi politici per “i metodi di Hitler”, le avanzate in tutta Europa dei partiti xenofobi, le milizie in divisa para-nazista, i pestaggi di disabili, le rivolte veneziane contro gli “zingari” anche se sono veneziani da secoli e fanno di cognome Pavan, gli omicidi di clochard, gli inni immondi alla purezza del sangue… Come a volte capita nella storia, proprio negli anni in cui entrava alla Casa Bianca il primo nero è rifiorita la pianta maledetta del razzismo, della xenofobia, del disprezzo verso l’altro che pareva rinsecchita nella scia del senso di colpa collettivo per il colonialismo, per le leggi Jim Crow negli Stati Uniti, per l’apartheid in Sudafrica e soprattutto per l’Olocausto. Dal terrore dei barbari alle pulizie etniche tra africani, dalle guerre comunali italiane al peso delle religioni, fino alle piccole storie ignobili di questi giorni.

Carlo Di Stanislao

 

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