“Io pretendo dignità”, rispetto dei diritti umani e dell’ambiente nel Delta del Niger

Gli attivisti della Sezione Italiana di Amnesty International e della Campagna per la riforma della Banca mondiale (Crbm) hanno accolto giovedì scorso gli azionisti dell’Eni all’ingresso del palazzo dell’azienda all’Eur di Roma con spazzoloni e ramazze per sensibilizzare i soci della multinazionale italiana che opera in Nigeria attraverso la consociata Nigerian Agip Oil Company (Naoc), […]

Gli attivisti della Sezione Italiana di Amnesty International e della Campagna per la riforma della Banca mondiale (Crbm) hanno accolto giovedì scorso gli azionisti dell’Eni all’ingresso del palazzo dell’azienda all’Eur di Roma con spazzoloni e ramazze per sensibilizzare i soci della multinazionale italiana che opera in Nigeria attraverso la consociata Nigerian Agip Oil Company (Naoc), sulla necessità di bonifica delle aree inquinate nella zona del Delta del Niger. “L’inquinamento ambientale è causa di violazioni del diritto alla salute e a un ambiente sano. Le persone colpite sono centinaia di migliaia, in particolare le più povere e coloro che dipendono dai mezzi di sussistenza tradizionali, come pesca e agricoltura” – riporta Amnesty International.

L’associazione dal maggio del 2009, nell’ambito della sua campagna globale “Io pretendo dignità” sta svolgendo un’azione per il rispetto dei diritti umani e dell’ambiente nel Delta del Niger. “Oltre il 60 per cento delle persone che vive nella regione dipende dall’ambiente naturale per il proprio sostentamento” – evidenzia Amnesty. “A causa delle fuoriuscite di petrolio, dello scarico di rifiuti e delle torce di gas (gas flaring) prodotte dalle compagnie petrolifere che da anni operano sul territorio, quali Shell, Total e la stessa Eni, gli abitanti sono costretti a usare acqua inquinata per bere, cucinare e lavarsi, si nutrono con pesce contaminato e respirano agenti inquinanti” – denuncia l’associazione.

Richieste di trasparenza che sono state ribadite nell’assemblea degli azionisti da Osayande Omokaro, attivista della Ong nigeriana Environmental Rights Action (ERA), la cui partecipazione è stata facilitata dalla CRBM e dalla Fondazione culturale responsabilità etica nell’ambito delle attività di azionariato critico. Omokaro è co-autore di un dettagliato rapporto sul campo in cui si evidenziano le conseguenze della pratica del gas flaring. Nel tentativo di separare il petrolio dal gas naturale collegato al processo di estrazione, infatti, la maggior parte delle compagnie petrolifere che operano nella regione del Delta del Niger da decenni intraprendono tale pratica, molto dannosa sia per l’ambiente che per le persone.

Nonostante la Corte nigeriana competente in materia abbia dichiarato che il gas flaring è illegale, le imprese private continuano a utilizzarlo, poiché per loro sarebbe troppo costoso adottare la tecnologia che è in grado di iniettare di nuovo il gas nel sottosuolo o convertirlo per scopi industriali. “A prescindere dai suoi nefasti impatti sull’ambiente (attraverso il surriscaldamento globale e i cambiamenti climatici), il gas flaring è inoltre una perdita di preziose risorse economiche. Secondo Environmental Rights Action, a causa dell’utilizzo di questa pratica lo Stato nigeriano ha perso ben 72 miliardi di dollari di entrare nel periodo 1970-2006” – sottolinea Luca Manes della CRBM.

Nel suo intervento all’assemblea degli azionisti, Omokaro ha ricordato che, sebbene l’Eni abbia ottenuto l’approvazione da parte del governo nigeriano della costruzione di un Impianto Indipendente (Independent Power Plant – IPP) presso la comunità di Okpai affinché anche quest’ultima si possa avvalere del gas associato per la produzione di energia elettrica, la compagnia non abbia ancora rispettato il suo impegno.

Nell’ambito della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change – UNFCCC), l’iniziativa “gas per energia” dell’Independent Okpai Power Plant ha ricevuto dalle autorità competenti la concessione dello status di progetto qualificato a generare crediti di carbonio, come previsto dal Clean Development Meachanism inserito nel Protocollo di Kyoto. “Il gas raccolto e utilizzato dall’Eni per l’attuazione del progetto legato al CDM è stato concepito per conseguire una riduzione delle emissioni di 14,9 milioni di tonnellate di CO2 per un periodo di crediti di dieci anni (2005-2015) e per fornire un contributo di circa 480 megawatt di energia elettrica alla rete elettrica nigeriana” – ricorda Manes.

“Tuttavia, dal 2005, quando l’Okpai Independent Power Plant è stato commissionato dall’ex presidente nigeriano, Olusegun Obasanjo, nessuna delle comunità interessate dal processo di estrazione petrolifera all’interno del bacino d’utenza della centrale ha ricevuto forniture di energia elettrica dall’Eni. Un fattore che contribuisce ad aumentare la conflittualità sociale nella regione” – afferma Manes. “Le indagini di ERA sono in grado di rivelare che l’ex presidente Olusegun Obasanjo ha imposto all’Eni un ordine esecutivo di fornire energia elettrica alle comunità locali. Tuttavia l’Eni non ha mai rispettato o preso sul serio l’ordine esecutivo. Secondo i documenti messi a disposizione di ERA dal Presidente dei leader spirituali Ndokwa, il professor BIC Ijomah, emerge che nella centrale di Okpai l’Eni produce attualmente circa 458 megawatt di energia elettrica e che trasferisce 450 megawatt verso la parte orientale della Nigeria, attraverso una città chiamata Obosi, mentre la maggior parte delle comunità Ndokwa continuano a rimanere al buio.

“L’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni, confermato in carica per un altro mandato, ha fornito risposte solo in parte soddisfacenti” – riporta Luca Manes in un articolo per Carta. Sul gas flaring, che in Nigeria è stato dichiarato illegale dal 1984, ha promesso prima una riduzione al 5% per cento [oggi saremmo al 17%] entro il 2014, per poi parlare di uno stop totale fra il 2012 e il 2013. Sulla spinosa questione dell’impianto di Kwale-Okpai, Scaroni ha rimpallato le responsabilità all’azienda elettrica nigeriana. «Noi passiamo loro tutta l’energia prodotta a Okpai, poi provvedono loro a distribuirla». Un chiarimento che ha lasciato insoddisfatto Omokaro, convinto che l’Eni potrebbe, e dovrebbe, giocare un ruolo maggiore nell’accontentare i bisogni energetici delle comunità Ndowka, anche visto l’accordo firmato a riguardo nel 2004 menzionato dalla stessa Eni”.

Le comunità Ndokwa chiedono all’Eni 50 megawatt di energia elettrica prodotta dal progetto CDM per illuminare le loro abitazioni e rilanciare la loro economia. Domandano inoltre alla compagnia di rendere pubblici i dati sugli impatti sull’ambiente derivanti dal gas flaring, l’elenco degli impianti collegati al gas flaring chiusi o destinati al progetto CDM e i dati sulla riduzione delle emissioni da quando lo stesso progetto è iniziato nell’aprile 2005.

La scorsa settimana, sempre nell’ambito delle attività di azionariato critico la Fondazione culturale responsabilità etica e la Crbm hanno promosso una simile iniziativa di sensibilizzazione all’assemblea degli azionisti dell’Enel durante la quale hanno chiesto all’amministratore delegato, Fulvio Conti, di spiegare la partecipazione del colosso italiano nei progetti per la centrale nucleare di Kaliningrad e nelle dighe della Patagonia cilena. [GB-Unimondo]

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