Obama: l’Europa orientale come modello per il nuovo Medio Oriente

”Due sono caduti, altri possono seguire”. Barack Hussein Obama, presidente degli Stati Uniti d’America, parla al mondo. Traccia un primo bilancio del cataclisma politico che ha investito il Medio Oriente e il Nord Africa dall’inizio del 2011. Dieci anni dopo l’attacco nel cuore degli States. Tempo di bilanci, dunque. “Per sei mesi abbiamo osservato – […]

”Due sono caduti, altri possono seguire”. Barack Hussein Obama, presidente degli Stati Uniti d’America, parla al mondo. Traccia un primo bilancio del cataclisma politico che ha investito il Medio Oriente e il Nord Africa dall’inizio del 2011. Dieci anni dopo l’attacco nel cuore degli States.

Tempo di bilanci, dunque. “Per sei mesi abbiamo osservato – ha detto il capo della Casa Bianca parlando al Dipartimento di Stato Usa – cambiamenti straordinari, che vanno aiutati. Anche economicamente. Abbiamo chiesto al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca mondiale di presentare un piano di aiuti per l’Egitto e la Tunisia che verrà sottoposto la settimana prossima al G8 di Deauville. Anche l’Opec aiuterà questa iniziativa che prevede fondi imprenditoriali di investimento nei due Paesi”. Un progetto sul modello di quanto fatto nell’Europa dell’Est dopo la fine della Guerra Fredda e che mira a sostenere anche altri Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa scossi dall’ondata rivoluzionaria dei mesi recenti.

Già, l’Europa dell’Est. Obama fa un riferimenti esplicito a un modello di politica estera. Non casuale. Il 1989, secondo molti osservatori, sorprese molti analisti anche negli Stati Uniti. Un crollo brusco, che d’improvviso eliminò quel ‘nemico’ che aveva ispirato per più di cinquanta anni la politica estera Usa. Da quel giorno, rispetto alle sfide globali (in primis il controllo e la gestione delle risorse energetiche) Washington ha risposto con tre modelli distinti.

Il primo potremmo chiamarlo ‘dottrina Bush’, in ‘onore’ della famiglia texana che con George padre prima e con il figlio George W. dopo, ha gestito tre mandati presidenziali. Un approccio tipicamente repubblicano, molto texano. Il mondo deve cambiare: se non lo vuole fare da solo lo faremo noi. Speroni e cappello da cowboy, Colt e Bibbia. Iraq, Afghanistan e militarizzazione violenta delle relazioni internazionali, la tortura come legittimo strumento d’indagine. Un fallimento totale. L’elezione di Obama nel 2009 passa anche da questo: un operazione di marketing, tesa a recuperare l’immagine Usa nel mondo, precipitata ai minimi storici. Guantanamo e Abu Ghraib, icone come la Statua della Libertà e il ponte di Brooklyn. Oltre a un baratro di bilancio, sperperato nelle gavette dei marines, lanciati ai quattro angoli del pianeta in operazioni che non hanno mai dato i risultati sperati. Anzi, hanno reso i settori strategici per gli Usa ancora più instabili, con un odio crescente per le stelle e le strisce. Era il modello dei salotti Neoconservatori, lo ‘scontro di civiltà’, che trovò negli attentati negli Usa il suo casus belli.

La linea di politica estera democratica, nonostante i bombardamenti di Clinton, si è distinta per un approccio differente. Che individua altri due modelli. Il primo è quello che potremmo definire ‘dottrina Mubarak’. Tutelare, proteggere, armare, sostenere satrapi corrotti, che hanno soffocato per anni i loro popoli, tutelando gli interessi Usa nella regione, a scapito di quella democrazia che diventava solo uno strumento di propaganda. Esempio limpido Saddam Hussein: stringe la mano a Donald Rumsfeld negli anni Ottanta, quando doveva combattere il radicalismo sciita iraniano, ma poi diventa un problema e viene rimosso. Obama, citando le cadute di Ben Alì e Mubarak, non ha speso una parola di autocritica verso il sostegno fornito per anni ai due dittatori. Un modello, anche questo, fallimentare. Spazzato via dalla rete, che aggira la censura che copriva gli occhi del mondo i misfatti dei vecchi amici. Spazzato, però, anche dalla difficoltà di gestire personaggi come Gheddafi. Sdoganato, perdonato e poi pronto a trattare le concessioni petrolifere senza passare dalla Casa Bianca. Con lui cadranno Saleh in Yemen e tutti quelli che non servono più.

Ecco che Obama sposa in toto il terzo e ultimo modello di politica estera Usa, quello che potremmo chiamare ‘dottrina Soros’. Nel senso di George Soros, lo speculatore finanziario più rapace del mondo, capace di costruire un impero economico sulle crisi economiche del pianeta. Soros, però, non si è mai limitato a quello. La sua Open Society Institute, della Soros Foundation, distribuisce da anni fondi per lo sviluppo della democrazia. Un lavoro sottile, che è iniziato nell’Europa dell’Est prima ancora che il muro cadesse. Media, soprattutto, e giovani. Radio, giornali, televisioni. E fondi, tanti, per movimenti che sposino e diffondano ‘l’Amenrican Way of Life’. Le rivoluzioni arancioni, che hanno scosso in passato alcune repubbliche ex sovietiche, ma in particolare il movimento “Basta”. Si chiamava Otpor, in Serbia, ed è stato forse il motore più potente del rovesciamento di Slobodan Milosevic nel 2000. Ma c’è in Albania e in tutte le repubbliche della ex-Jugoslavia e dell’ex-Urss (Georgia, Ucraina, Uzbekistan). C’era anche in piazza Tahrir, al Cairo, dove i formatori di Otpor, con il loro inglese dall’accento balcanico, aiutavano i giovani dei movimenti in internet a organizzare le proteste.

Il bilancio parla chiaro: quello dell’Europa orientale è il modello che è risultato – alla lunga – vincente. Serbia a parte (ma per quanto?), la popolarità Usa in quella parte di mondo è enorme. Mercati nuovi, caratterizzati da un’alta propensione al consumo, in società con un’età media molto bassa. Un modello che pare perfetto per i giovani arabi, da recuperare al futuro. Un Piano Marshall, come quelli che sono giunti nella ex-Jugoslavia dopo la guerra. Oggi tutti quei governi sono fedeli, allineati, caratterizzati da un bipolarismo che – in nessun senso – mette mai in discussione un modello economico di riferimento e un sistema di alleanze e di mercati.

Il discorso di Obama di ieri chiude il cerchio aperto, due anni fa, all’università di al-Azhar, al Cairo. Andate a rileggerlo. Il messaggio a quei ragazzi, rilanciato in tutto il mondo dai media arabi, era chiaro: ”Basta imporre il cambiamento con la forza. Muovetevi da soli e noi vi sosterremo”. E i giovani arabi si sono mossi. Obama adesso sventola il premio, un mare di investimenti e un modello di vita già pronto.

Missione compiuta? Non ancora. C’è molto da fare e Obama indica con chiarezza gli obiettivi. Il conflitto israelo-palestinese e l’Iran. Il primo necessita, nell’operazione di riequilibrio dell’immagine Usa nel mondo, di una soluzione. Obama, con coraggio rispetto ai suoi predecessori, fa un chiaro riferimento ai confini del 1967. Il premier israeliano Netanyahu storce il naso, Hamas pure. Ma l’imprimatur della Casa Bianca va in quella direzione. E’ necessario uno stato palestinese, per quanto smilitarizzato e forse mutilato, per ripensare il mondo arabo e islamico. Il secondo obiettivo è l’Iran. Non c’è traccia di dialogo con Teheran nel discorso di Obama.

”Il regime iraniano è ipocrita, appoggia le proteste per i diritti all’estero e le sopprime in casa”, ha dichiarato Obama, sottolineando che “le prime proteste pacifiche sulle strade di Teheran hanno portato a violenze nei confronti di uomini e donne e a gente innocente in carcere. Continueremo a insistere sul fatto che gli iraniani meritano i diritti universali, e il governo non può soffocare le loro aspirazioni”. Neanche una parola sulle legittime aspirazioni degli sciiti del Bahrein o dell’Arabia Saudita. Perché le monarchie del Golfo sono già assunte nel modello futuro, sono fedeli garanti di un ordine economico egemonico e produttivo. L’Iran, che con l’elezione di Ahmadinejad nel 2004 e tornato a quell’internazionalismo sciita che tanto agita le acque del Golfo Persico, non può essere tollerato. Tanto meno possono essere tollerati i suoi sodali. Quello che accade in Siria, ad esempio, colpisce uno dei pochi stati sui quali Teheran può fare affidamento, assieme agli Hezbollah libanesi.

Che succederà, adesso? Un grave errore sarebbe quello di sottovalutare la rabbia delle popolazioni del Nord Africa e del Medio Oriente. Chi scrive ha avuto la fortuna di vedere le persone in piazza Tahrir al Cairo, in avenue Bourghiba a Tunisi. Persone che, con grande dignità, hanno lottato per essere liberi. Un errore altrettanto grave, però, sarebbe quello di non voler vedere che nessun sommovimento globale, com’è questa ‘Primavera araba’, avviene senza che i grandi interessi in gioco diventino appetiti dai poteri che governano questo pianeta. Senza vedere il disegno, le rivoluzioni arabe rischierebbero di essere solo il grimaldello per passare da un ordine imposto ad un altro. La gente di piazza Tahrir e di avenue Bourghiba non lo merita.

Christian Elia-PeaceReporter

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