La vita invisibile dei brutti

Cinquanta anni sono tanti per un romanzo d’esordio, ma “La vita accanto”, di Mariapia Veladiano, è scritto con una tale forza che sembra impossibile che l’autrice se ne sia stata lontana dai clamori letterari per mezzo secolo. Il romanzo, finalista allo Strega,  parte da una premessa interessante che, in questi tempi di velinismo imperante, sembra […]

Cinquanta anni sono tanti per un romanzo d’esordio, ma “La vita accanto”, di Mariapia Veladiano, è scritto con una tale forza che sembra impossibile che l’autrice se ne sia stata lontana dai clamori letterari per mezzo secolo. Il romanzo, finalista allo Strega,  parte da una premessa interessante che, in questi tempi di velinismo imperante, sembra quanto mai attuale: raccontare la vita di una donna brutta. Non deforme, non portatrice di handicap, ma semplicemente brutta, di una bruttezza che, come il suo opposto, appare oggettiva e non si può negare. La domanda che si agita tra le pagine è allora: che significa portarsela addosso? Vivere dentro questa bruttezza ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Come se si indossasse una maschera circense o, al contrario, un burka dell’invisibilità. Sua madre, dopo il parto, non l’ha mai presa in braccio e si è sigillata in se stessa. Suo padre ha lasciato che accadesse. A prendersi cura di lei, la bella e impetuosa zia Erminia, il cui affetto nasconde però qualcosa di tremendo. E la tata Maddalena, saggia e piangente, che la ama con la forza di un bisogno. Ma Rebecca, così si chiama la protagonista,  ha mani perfette e talento per il pianoforte. L’incontro con la “vecchia signora” De Lellis, celebre musicista da anni isolata in casa,  le offre uno sguardo nuovo sulla storia di dolore che segna la sua famiglia, ma anche la grazia di una vita possibile ed in primo luogo “visibile”. “La vita accanto” racconta la nostra inettitudine alla vita, da cui solo le passioni possono riscattarci. Come ha scritto Pietro De Angelis su “Il Fatto Quotidiano”, la storia diventa così una sorta di favola, di malinconica parabola sospesa in un tempo mai veramente reale. E questo, congedato il libro, lascia un retrogusto amaro. Perché ci si chiede, quasi con una punta di rabbia, non avere il coraggio di affondare il coltello nella carne viva? Perché non raccontare la storia di una donna brutta, sì, ma brutta e basta. Una donna che debba affrontare nuda, senza la corazza di un talento che la rende comunque unica e speciale, la realtà della sua condizione. Perché cercare a tutti i costi una possibile redenzione? Che suona come parziale omologazione o normalizzazione del diverso? La letteratura, che è la patria degli esuli per eccellenza, non dovrebbe, invece, prendersi il peso, sulle sue spalle, proprio di ciò che non può essere redento? Di ciò che non può essere curato, reintegrato, allineato. Di ciò che si rifiuta di diventare regola, o brutta copia di una regola e preferisce piuttosto morire come un’eccezione. La vita accanto racconta la nostra inettitudine alla vita, da cui solo le passioni possono riscattarci e lo fa con una scrittura limpida e colta e con personaggi buffi e veri, memorabili. Come chiosa Ferdinando Camon,  un’opera matura, sapiente, memorabile per la sagacia che ostenta nel trovare uno sbocco coerente a tante biografie intrecciate e per l’altezza che attinge nel narrare la catastrofe, la tragedia e il miracolo. Il libro non è la storia di una donna brutta che diventa bella, bensì di una donna che, dal mondo dove tutti, compresa lei, la sentono come brutta, si costruisce un mondo su misura, dove tutto viene ricalibrato. Perfino la coppia. Perfino la maternità. Edito da Einaudi, già vincitore del premio Calvino 2010, in vendita dallo scorso gennaio, il romanzo si compone di 172 pagine e costa 16 euro. L’autrice, insegnate di lettere di 50 anni, è nata a Vicenza ed è laureata in filosofia e teologia. Da anni collabora con la rivista “Il Regno”. Leggendo questo per ora unico romanzo di Mariapia Veladiano, mi sono ricordato di un altro, intitolato “Feol” , “brutto” appunto, scritto dall’allora trentunenne argentino Gonzalo Otalora, uscito nel 2008, dedicato alle rivendicazioni dei brutti in un mondo fatto per i belli: che si prendono i migliori posti di lavoro, le donne più affascinanti e gli stipendi più alti. Nel suo libro Gonzalo proponeva misure surreali, come la condanna a morte di Barbie o la tassa sulla bellezza e altre che se non altro fanno riflettere, come la presenza di protagonisti brutti nelle telenovelas; lanciando  anche la figura del feosexual, brutto-sessuale, contrapposto al metrosessuale, il primo consapevole di se sesso e il secondo perso dietro le mode estetiche.  Succede a molti di sentirsi brutti anatroccoli e di desiderare intensamente di essere, invece, splendidi cigni: tutte le volte che i compagni non ti fanno giocare con loro o quando ti prendono in giro e sei costretto a startene lì, in un angolo. E questo senso di frustrazione, accade spesso di portartelo dietro, per tutta la vita. Per sopravvivere, allora, come nella fiaba di Andersen,  il brutto anatroccolo deve basarsi sulla tenacia, recuperando quella fiducia che gli era stata negata.  L’immagine del cigno che si stacca in volo dalla terra, per abbandonare bassezze e meschinità, è l’esemplificazione poetica del primato degli ultimi, molto rasserenante, ma anche difficile da raggiungere per chi, come li definisce Maria Zambrano, allieva di Ortega y Gasset e di Xavier Zubiri, si sente non “venuto al mondo”, ma “gettato nella vita”. Per la filosofa spagnola, infatti, l’accadere della vita si definisce attraverso un proprio senso, che si realizza solamente mediante un preciso dispositivo di significazione. Con la stessa convinzione, la scrittrice italiana, esordiente ma di ben elevato spessore narrativo e riflessivo, dimostra  che in sé, ogni narrazione, è comunque, inevitabilmente e propriamente, letteraria: la confessione si dispone comunque e sempre come meccanismo di narrazione che pone alle vicende raccontate l’unitarietà del racconto medesimo e quindi il suo senso. Anche nella confessione è il racconto che dispone gli eventi in una processualità, lungo una linearità espositiva che dona a ciascuno di questi un valore del quale erano privi e mediante il quale si possono connettere ad altri nel formare una concatenazione significativa, appunto dotata di senso. Confessare è comunque raccontare, narrarsi. Ciò che sembra qui agire è esattamente un dispositivo di attribuzione di senso che pare far provenire questo stesso senso da un altrove distinto rispetto al piano di accadimento dei singoli eventi, i quali, viceversa, in assenza di questo raccontarsi, apparirebbero come epifenomeni sganciati, singolari, puntuali: dispersi. È il meccanismo narrativo che – comunque artisticamente, nel senso del dispositivo narrativo – riduce la dispersione a unità appunto narrativa, traducendo singolarità evenemenziali in elementi costituitivi di un tutto. È questa transustanziazione dell’evento che gli dona senso, ancor più nel quadro, come nelle Confessioni di Agostino, dove il punto prospettico che permette questo è dato dalla fede, ovvero da una chiave di lettura estremamente potente e annichilente rispetto ad ogni altro fuoco di lettura possibile per gli eventi narrati. Mediante il concetto di identità ogni soggetto è istituito in una sorta di relazione circolare e di coincidenza con se stesso, mostrandosi ostile a quello che Laplantine definisce il pensiero del di fuori, sul quale hanno insistito ad esempio Deleuze e Foucault: l’altro da me è concettualizzabile solo come estraneo, straniero, in quanto assurdità per il pensiero dell’identità del soggetto con se stesso. Il principio di identità, infatti, si istituisce sulla scorta degli altri due principi cardine della logica occidentale: quello di non contraddizione, a sua volta fondato su quello del terzo escluso. È l’esclusione dell’altro, del divenire, della storicità, della temporalità, del mutamento, a definire la possibilità di un pensiero non contraddittorio e quindi affermatore del principio di identità. Il concetto di identità si dimostra come dispositivo di chiusura nei confronti del mondo, della realtà e dei suoi abitanti: è il bastare a se stessi, che vede l’altro appunto come pericolo. E siccome il brutto non si vede e non si basta, ecco che accoglie e si apre, non respinge ma accetta e, come per miracolo, si compensa gratificandosi nella sua ricchezza umana.

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