Don Giovanni Saverioni racconta la Liberazione di Teramo 67 anni fa

Don Giovanni Saverioni, umile prete di campagna, giornalista, viaggiatore, poeta e scrittore verace, ha attraversato indenne la bellezza di 67 anni di storia patria del Novecento, vivendo da protagonista fatti che alcuni vorrebbero semplicemente vedere sepolti per sempre sotto la spessa coltre ideologica della disinformazione storica e politica mentre le solite “passerelle” invocano invano l’attenzione […]

Don Giovanni Saverioni, umile prete di campagna, giornalista, viaggiatore, poeta e scrittore verace, ha attraversato indenne la bellezza di 67 anni di storia patria del Novecento, vivendo da protagonista fatti che alcuni vorrebbero semplicemente vedere sepolti per sempre sotto la spessa coltre ideologica della disinformazione storica e politica mentre le solite “passerelle” invocano invano l’attenzione dei media e dei giovani stanchi delle bugie raccontate loro. Tuttavia la verità di don Giovanni Saverioni è quella di fatti vissuti in primissima persona da raccontare e diffondere al più presto soprattutto ai più giovani ed a quanti non c’erano in quei giorni assai tristi della tragica Seconda Guerra Mondiale. Quando i nostri patrioti preparavano la strada alle Armate alleate dei Generali Montgomery ed Alexander, gli artefici della Liberazione di Teramo e L’Aquila dai nazifascisti, tra il 13 e il 16 giugno 1944.

Don Giovanni Saverioni, cosa ricorda di quei giorni? “E’ passato il tempo della lepre! Sono nato a Sciusciano il 5 aprile 1919 in una famiglia di piccoli proprietari. Sapete? Sciusciano significa: il paese delle prugne bianche, le migliori in assoluto e ce n’erano talmente tante che i contadini non riuscivano a mangiarle. Così le raccoglievano, le mettevano in mezzo al fieno e poi, quando d’inverno andavano a tagliare il fieno, trovavano le prugne secche!”. Entrato in seminario all’età di 10 anni, don Giovanni compie gli studi dalla quinta elementare al quinto ginnasio a Teramo, i tre anni di liceo e i quattro di teologia a Chieti. “Ordinato sacerdote il 29 settembre 1944 a Teramo, la mia prima parrocchia fu quella di Tottea di Crognaleto dove rimasi dal 1945 al 1949. Fui poi parroco di Poggio Cono dal 1950 al 1968, quindi fui chiamato a organizzare la parrocchia di Villa Mosca dove sono rimasto fino al 2 settembre 2000. Ho insegnato Lettere nel Seminario Aprutino, Religione al Liceo Classico di Teramo (1952-53), poi all’Istituto “V. Comi” di Teramo (1960-1985). Sono un giornalista da una vita, ho fondato: La Tenda, il piccolo mensile parrocchiale che fino a qualche tempo fa, distribuivamo in 2400 copie anche all’estero, e la Libreria Cattolica di Teramo”.

Don Giovanni, i Teramani come vissero l’arrivo dei patrioti e degli alleati, quei giorni del 14-16 giugno 1944? “Leggo su questa mia agendina del 1944: <Giovedì 15 giugno da Teramo vanno via gli ultimi tedeschi. Il 16 giugno, venerdì, Armando Ammazzalorso e Bruno Santacroce, con un migliaio di patrioti, scendono a Teramo alle ore 10,30 circa. Alle 17 viene il Generale inglese e il Cappellano. Io ossequio il Cappellano con cui brindo al Caffè Fumo>. L’anno dopo, il 16 giugno 1945, scrissi un articolo per ricordare l’avvenimento, precisando che, forse, doveva trattarsi del Generale Montgomery o Alexander. La mattina del 16 giugno ’44, in una giornata di sole intenso, da Torricella discesero i patrioti che durante una stagione di freddo asprissimo, avevano fatto la spola sulle nostre montagne. Quel giorno il sole volle avvolgerli tutti, saturarli di luce e calore, quasi in compenso di tanto freddo patito. Sfilarono senza l’inquadramento rigido delle parate fasciste: alcuni laceri e sporchi, tutti col sorriso, la gioia e il canto sulle labbra. L’umile popolo che sa afferrare immediatamente il significato di una manifestazione spontanea, applaudì quelli che non avevano avuto la pretesa di scrivere un’epopea eroica sui nostri monti, ma che avevano voluto semplicemente agitare la bandiera della libertà rischiando la vita. Tuttavia quelli erano momenti di odio contro i fascisti e i loro collaboratori. Si voleva la vendetta da parte degli antifascisti e soprattutto dei patrioti. Mentre i patrioti sfilavano per il Viale Bovio e si immettevano su Piazza Garibaldi, io mi trovavo tra la folla, all’altezza dell’attuale chiesa dell’Immacolata. Accanto a me c’era la signora Luisa Venturoni, madre del partigiano Antonio Scarponi. La signora, emozionata per la sfilata dei patrioti, ma soprattutto perché era finito l’incubo di oltre un anno per il figlio fuggiasco e continuamente in pericolo, disse forte: <Ora basta! Non ci devono essere più mamme che trepidano per i loro figli!>. Lo stesso amico Ammazzalorso, affacciandosi al balcone della Prefettura, pronunciò parole di riconciliazione. Purtroppo le loro voci non furono ascoltate e i morti ci furono ancora”.

Don Giovanni, poi cosa accadde? “A mezzogiorno Teramo già riprendeva il suo regolare andamento, pur conservando un non so che d’insolito e di festa. Io, Ammazzalorso e Bruno Santacroce andammo a mangiare alla casa del partigiano Antonio Scarpone, dietro la villa comunale. Ma verso le ore 14 una furiosa sparatoria a piazza Garibaldi, all’imbocco di Corso San Giorgio, richiamò l’attenzione di tutti. Gli animi agitati da tanti timori si misero in apprensione: erano forse tornati i tedeschi? Della gente accorse in piazza Garibaldi e lungo il Corso…Ancora qualche fucilata, poi grida confuse di gioia. Erano due soldati alleati, della Nembo, giunti da Ortona. Come il lampo corse la voce: è arrivato il Generale dell’VIII Armata col suo Cappellano! Giunsi anch’io a Piazza Caduti per la Libertà, già gremita di gente. Dal balcone del Palazzo del Consiglio Provinciale dell’Economia si erano affacciati il Generale e il Cappellano che aveva subito cominciato a parlare. Gli sguardi e gli animi erano tesi verso quell’uomo che, parlandoci in italiano, sembrava portarci l’eco di Roma (liberata il 4 giugno, NdA) proiettata anche sulle rive del Tamigi. Interprete dei sentimenti del Generale, il Cappellano disse: <Siamo venuti a Teramo non per portare la guerra, non per combattervi, ma per liberarvi. Siamo venuti non come nemici, ma come fratelli>. Sui teramani, abituati dai tedeschi al linguaggio della provocazione e della minaccia, passò un’ondata di immensa commozione. Bastò quella frase perché cadesse, come d’incanto, tutta la montatura di una propaganda improntata alla calunnia di un nobile popolo che ha sempre fraternizzato con gli Italiani. Poi il Cappellano, sotto la maglietta e il basco del soldato, risentì affiorare il suo cuore religioso e ci esortò a ringraziare Dio per l’ottenuta libertà. Era quello che ci voleva. Dopo tante stragi e tanto odio, la figura di quel benedettino nato sotto un altro cielo ma animato dalla nostra stessa fede, ci apparve dal balcone come un angelo della pace. Poi continuò: <So che il vostro Vescovo è malato; noi partecipiamo al vostro dolore e alla vostra ansia. Formuliamo per lui l’augurio di una sollecita guarigione e, sicuri di interpretare un vostro desiderio, gli chiediamo, per noi e per voi, la santa benedizione. Benedici, Eccellenza, questo popolo amante della pace!>. E Monsignor Antonio Micozzi che da una finestra dell’Episcopio ascoltava le parole del Cappellano, sporse il suo viso cereo. Era diventato un’ombra! Diciassette anni prima era venuto a Teramo sano e robusto; ora viveva gli ultimi giorni della sua vita, consumandosi, a poco a poco, come un lume senza olio. La folla applaudì e Mons. Micozzi, con un gesto ampio e solenne, alzò le mani scarne e ci benedisse. Tutti erano commossi e tornarono ad applaudire”.

Don Giovanni, i Teramani come risposero all’invito del Cappellano militare? “Il Cappellano, continuando a parlare, ricordò il Sommo Pontefice Pio XII. Quel ricordo del Papa, fatto in un giorno di Vittoria e da un britannico, aveva un significato profondo: la Chiesa universale, con la sua potente attrazione, volge a Roma anche i figli più lontani e più estranei all’Italia. Anche la foresta ha un canto per il successore di San Pietro. Il Cappellano concluse: <Ora diciamo un’Ave Maria per il Papa…!>. I demagoghi, gli arruffapopoli, gli oratori famosi, preoccupati degli applausi scroscianti, alla fine di ogni discorso vanno in cerca della frase brillante per la chiusa. E difatti scroscia l’applauso, ma spesso è accompagnato da un sorriso che cela un furbo sottinteso. Questa volta la frase altisonante era mancata e, caso strano, si finiva con un’Ave Maria. Il popolo dapprima rimase incerto, era troppo abituato ad altri finali, poi con sicurezza ripeté il Saluto angelico ed applaudì. I cittadini di Teramo ritrovavano allora il loro vero volto: quello della preghiera, del perdono e della fratellanza. E ricordo chiaramente l’incontro che avemmo, circa 13 persone, con il Generale e il Cappellano al Caffè Fumo, dopo il suo discorso dal balcone di quella che era la Camera di Commercio, gli attuali uffici del Comune in piazza Martiri. Brindammo con dello spumante, una bevanda introvabile a quei tempi. Il Generale, naturalmente, brindò alla Vittoria; il Cappellano, volgendosi verso di me, brindò dicendo: <Viva il Papa!>. In Inghilterra, nel passato, l’offesa più grave che si potesse fare a una persona, era dirgli: <Sei un papista!>”. Oggi, 67 anni dopo, il Caffè Grande Italia (ex Fumo) dovrebbe ricordare quello storico brindisi, magari esponendo qualche foto d’epoca di don Giovanni e del Generale dell’VIII Armata!

Don Giovanni, scoppiò anche la guerra civile nel Teramano? “Nell’inverno del 1944 c’era anche la guerra civile in Italia, come descrive bene Giampaolo Pansa nel suo libro Il sangue dei vinti. Sui nostri monti e sulle nostre colline, vivevano alla macchia i patrioti, dopo lo scontro con i tedeschi al Bosco Martese. Io li incontravo quasi ogni sera: Armando Ammazzalorso, Angelo De Dominicis e Bruno Santacroce (che avevano sposato due ragazze di Sciusciano), Arturo Scarpone e Bruno Cellini che fu ucciso una notte d’inverno del ’44 oltre il Ponte Vezzola dopo aver cenato con me”.

Don Giovanni, Cellini fu ucciso mentre le due formazioni Rodomonti e Ammazzalorso, credendo di contrastare i tedeschi, sparavano l’una contro l’altra? “Non penso, perché fu l’amico socialista Ammazzalorso a raccontarmi come si svolsero realmente i fatti. Felice Rodomonti si appostò per uccidere il cugino Marcucci, poiché questi aveva lasciato la sua formazione partigiana per unirsi con Ammazzalorso, ma uccise per sbaglio Bruno Cellini. La vendetta si consumò nel Dopoguerra: l’ex capo partigiano Felice Rodomonti organizzava spesso delle serate da ballo nella scuola elementare vicino Cartecchio e una sera vi andò anche il cugino Attilio Marcucci, credendo ormai passato ogni rancore nel cuore di Felice. Il quale appena lo vide, gli sparò: Rodomonti fu accusato dell’omicidio del cugino Marcucci, vi fu la causa che nessuno può negare, ma fu scagionato, si disse, per legittima difesa grazie alla testimonianza di alcuni amici che affermarono di aver visto Attilio impugnare una rivoltella”.

Don Giovanni, quali altri fatti di sangue macchiarono le nostre contrade? “A Montorio al Vomano vi fu l’accanimento del partigiano yugoslavo Mirko Jovanovic contro i preti, a dimostrazione dell’esistenza di una lotta parallela anticlericale: era fuggito in Italia e si era unito ai patrioti contro i nazifascisti. Mirko uccise due sacerdoti: don Salvatore d’Ovidio, parroco di Poggio Umbricchio, e don Gregorio Ferretti di Collevecchio. E pensare che i montoriesi volevano pure intitolargli una strada! Ora, un prete di campagna non parteggia per nessuno in guerra: mi domando ancora, a distanza di 67 anni, perché mai furono uccisi quei due sacerdoti, se non per l’odio viscerale dei comunisti verso la Chiesa cattolica. Noi preti davamo da mangiare e da bere a tutti, anche ai tedeschi. Certo, noi volevamo la liberazione e la libertà. E non si può dimenticare il contributo di sangue dei nostri patrioti alla causa: è vivo il ricordo del martire Mario Capuani e di tanti altri. Ma le vendette successive alla liberazione di Teramo, furono una infamia. Fu l’amico Ammazzalorso a raccontarmi questi fatti e non credo che l’avrebbe fatto se non fossero stati veri e autentici. Una volta, nella casa di mio zio Raffaele, Ammazzalorso mi disse: <Io non sono comunista, sono socialista!>, per indicare che lui quelle cose non le faceva. Ma io non capii subito la differenza perché non sapevo nulla dei partiti politici, solo che il Papa aveva condannato il marxismo. Durante il Ventennio, infatti, non si poteva parlare di partiti: o eri fascista o eri morto. I libri sui partiti venivano custoditi in cantina”.

Don Giovanni, alcuni soldati alleati trovarono rifugio e conforto nelle nostre case? “Qualche volta andavo a trovare quelli che vivevano nascosti in un fienile, a Scapriano. Ricordo, tra gli altri, un giovane soldato britannico, il dott. Edmund William Layland di Sheffield (Inghilterra) che mi disse: <Se riesco a tornare a casa, comprerò una Fiat!>. Una sera ho avuto un incontro particolare con un soldato russo, fuggiasco anche lui, sulle nostre colline di Castrogno, per sfuggire ai tedeschi, in un tempo in cui vivevamo di paura e di ardimento per la guerra civile. Si chiamava Nicola Kartashov. Ce l’ho ancora davanti agli occhi con quel pizzo biondo e l’andatura dinoccolata e stanca. Il bastone in mano e un cencio in testa: aveva l’aria di un brigante e di un sognatore insieme. E, quando comparve a San Pietro ad Lacum (in realtà ad Acumen che significa in cima: questo è il vero nome del paese) dove c’era la parrocchia, quasi tutti lo credettero una spia tedesca. Ci dicevano le donne a bassa voce: <E’ ubriaco, ha dormito un pezzo sulla neve come su un letto di piume. E’ salito in canonica senza neanche bussare. E’ troppo strano: deve essere una spia, il colore della barba parla chiaro>. Io tornavo col parroco dal camposanto di S. Pietro ad Lacum. All’invito di favorire in casa, non seppi rifiutare e salii. Era la sera dell’11 gennaio 1944. Era strano davvero, Nicola Kartashov! Sedeva vicino al fuoco. Vedendoci entrare, si alzò e ci salutò inchinandosi. Al nostro invito, sedette di nuovo, ficcò il bastone nel fuoco, cacciò un tizzo, accese la sigaretta mal fatta e cominciò a sorridere con l’indifferenza di chi è a casa sua. Non sapevamo come attaccare conservazione e rimanemmo muti mentre egli fumava. Pensammo che bisognava rompere il ghiaccio e gli domandammo chi fosse, donde venisse. Ci raccontò di essere stato fatto prigioniero dai tedeschi e di essere fuggito. Accennò alla Russia e a Mussolini. Per saggiare meglio il terreno, gli chiesi notizie di Tolstoj, Gor’kij e Dostoevskij. Era abbastanza colto e rispose con precisione: era diplomato in pianoforte. Divenne espansivo e parlò di Rossini e di Verdi. Alzò lo sguardo al cielo ed esclamò: <Bellissima musica italiana!>. La musica gli aveva rimesso l’allegria addosso e attaccò Finestra chiusa e Firenze: gli occhi brillavano come due fiammelle, gesticolava e agitava il bastone come Charlot. Era troppo e tornammo a dubitare”.

Don Giovanni, dubitavate che Nicola Kartashov fosse un soldato alleato? “Tentai ancora chiedendogli se conosceva Katiusha. Fu come avesse ricevuta una scossa. Depose il bastone, con gli occhi al cielo  accompagnando coi gesti la voce non bella di baritono, cantò: <Raszvietàli iàbloni i grusci / popliì tumàni nad riekoj…>. Che significa in russo: la terra era fiorita di frutta / nella bruma dormivano le rose. In quel momento, dinanzi agli occhi luccicanti di Nicola, saranno passate le rive incantate del Volga, la steppa sconfinata, avrà sentito il palpito della Russia lontana, i colpi dei mortai sprofondati nella neve, la poesia di una fanciulla sulla pianura ondulata. <…Vichadìla na bieriég Katiusha / na visòkkij biérieg na krutoj>, continuava a cantare: Katiusha era sola nel prato / veniva sulla riva del fiume. La canzone si snodava nella sua nenia triste e cadenzata, i ricordi si affollavano sempre più numerosi e l’anima si faceva trascinare, cullata dalle acque del fiume. Terminata la canzone, il russo tacque e riaccese la sigaretta. Io aspettai un poco e poi tornai alla carica chiedendogli se conosceva il Volga. Nicola non rispose, ma, afferrato di nuovo dalla nostalgia della patria lontana, invaso come da una frenesia, attaccò con lo stesso entusiasmo la canzone del fiume sacro. Dissi sottovoce al Parroco che era impossibile dubitare: era un russo, al massimo al servizio dei tedeschi. Eppure non sapevamo spiegare quel suo modo strano di agire. Era troppo espansivo per essere un prigioniero, cambiava troppo facilmente di umore, lui che sapeva di essere da tutti noi scrutato con l’avidità dello straniero e doveva avere il timore di chi teme qualche sorpresa. Nicola, intanto, dopo avere abbassato ancora lo sguardo a terra, tornò a parlare con serietà e pacatezza: <Prete italiano, buono, intelligente, bravo. Prete russo, no: molto ignorante e incivile>. Io soggiunsi: <Prete russo, pope?>. E il lui: <Sì, pope! Pope!>, e scoppiò a ridere forte. Mi decisi a fare la domanda che mi interessava di più: <Tu, cristiano?>. Il russo atteggiò un bel sorriso velato di tristezza e rispose: <Mia madre e mio padre, cristiani. Prima di mangiare, fare segno di Croce; prima che io dormire, mia madre fare segno di Croce sopra di me. Io vissuto sotto Stalin…>. E sorrise ancora, quasi compassionando se stesso, quasi chiedendo scusa. Quella frase mi ferì l’animo e mi svelò il vero volto del comunismo ateo. Dopo la guerra scrissi un articolo: come ci liberammo dai comunisti, e in montagna dovetti fare una lotta alla don Camillo, per difendere la religione e i valori cristiani. Feci dei veri e propri comizi anti-comunisti a Poggio Cono e Tottea in previsione delle Elezioni del 1946. Alcuni mesi fa, all’ospedale civile di Teramo ho incontrato una donna e un uomo di Tottea che non vedevo da una vita. Mi hanno richiamato alla memoria un fatto curioso di cui non mi ricordavo: <Ti ricordi cosa dicesti a un comunista?>, mi dissero. <Un compagno ti fece notare che se vincevano i comunisti, a voi democristiani avrebbero tagliato la testa; e tu, don Giovanni, rispondesti: se vinciamo noi democristiani, la testa non ve la tagliamo, perché voi comunisti la testa non l’avete affatto!>. Beh, Le lascio immaginare quante risate ci siamo fatti! Ma 67 anni fa le cose andavano così. Comunque in Russia e nei Paesi dell’Est ci sono andato davvero nel Dopoguerra e ho trovato quella miseria nera, incredibile, difficile da dimenticare”.

Don Giovanni, il soldato russo si salvò? “Ho saputo, dopo un po’ di tempo, che Nicola Kartashov era stato sorpreso dai tedeschi sulla Teramo-Ascoli e ucciso. Mi è sembrato opportuno ricordare questo povero soldato russo, morto in Italia combattendo per la nostra Libertà, 67 anni fa, mentre i nostri, sulle orme dell’ARMIR, grazie al leader russo Putin e al premier Berlusconi, sono tornati sul Don, a ricordare i nostri soldati morti in Russia durante la Seconda Guerra Mondiale, per riportare in patria le loro povere spoglie”.

Interessante è la memoria del breve colloquio tra il Santo Padre Giovanni Paolo II (è in corso il Processo di Canonizzazione) e don Giovanni Saverioni relativamente alla storica presenza dei cittadini polacchi a Teramo. Durante la visita a Teramo di Papa Giovanni Paolo II, il 30 giugno 1985, a conclusione del Congresso Eucaristico Diocesano (23-30 giugno 1985), don Giovanni Saverioni salutò il Santo Padre accennando alle relazioni avute dai cittadini polacchi con Teramo nei secoli. Giovanni Paolo II volle intrattenersi per alcuni minuti in fraterno dialogo con don Giovanni, per saperne di più dalla viva voce del prete teramano. Il quale ricordò al Papa il pittore polacco Sebastiano Majewski, autore anche della Pala dell’altare della Sacrestia della Cattedrale di Teramo, dipinta nel 1625. “Majewski si firmava: “Polonus et civis teramnensis”(polacco e cittadino teramano). Don Giovanni ricordò, poi, a Giovanni Paolo II il sacerdote polacco Francesco Pradowski, filosofo insigne e letterato. “Egli incontrandosi una sera con degli amici teramani – ricorda don Giovanni al Papa – recitò una sua poesia che iniziava con questi versi: Tra Vezzola e Tordino, cheta riposa Teramo, fedelissima cittade, per le sue pappardelle assai famose. Francesco Pradowski morì il 23 settembre 1798 (Cf. Giacinto Pannella: L’abate Quartapelle)”. Il Papa, con il suo benedicente sorriso, ringraziò don Giovanni e i presenti. Una giornata memorabile per tutti, in particolar modo per don Giovanni Saverioni, da 67 anni sacerdote verace in prima linea nella testimonianza della Fede nei media, nella vita civile e religiosa aprutina.

 

© RIPRODUZIONE RISERVATA                                                                     Nicola Facciolini

SACERDOTI ASSASSINATI DAI PARTIGIANI COMUNISTI.
Don GIUSEPPE AMATEIS, parroco di Coassolo (Torino), ucciso a colpi d’ascia dai partigiani comunisti il 15 marzo 1944, perché aveva deplorato gli eccessi dei guerriglieri rossi.
Don GENNARO AMATO, parroco di Locri (Reggio Calabria), ucciso nell’ottobre ’43 dai capi della “repubblica rossa” di Caulonia.
Don ERNESTO BANDELI, parroco di Bria, ucciso da partigiani slavi a Bria il 30 aprile 1945.
Don VITTORIO BAREL, economo del Seminario di Vittorio Veneto, ucciso il 26 ottobre 1944 da partigiani comunisti.
Don STANISLAO BARTHUS, della Congregazione di Cristo Re (Imperia), ucciso il 17 agosto 1944 perché in una predica aveva deplorato le “violenze indiscriminate dei partigiani”.
Don DUILIO BASTREGHI, parroco di Cigliano e Capannone Pienza, ucciso la notte del 3 luglio 1944 da partigiani comunisti che lo avevano chiamato con un pretesto.
Don CARLO BEGHE’, parroco di Novegigola (Apuania), sottoposto il 2 marzo 1945 a finta fucilazione che gli produsse una ferita mortale.
Don FRANCESCO BONIFACIO, curato di Villa Gardossi (Trieste), catturato da miliziani comunisti iugoslavi l’11 settembre 1946 e gettato in una foiba rimasta sconosciuta.
Don LUIGI BORDET, parroco di Hóne (Aosta), ucciso il 5 marzo 1946 perché aveva messo in guardia i suoi parrocchiani dalle insidie comuniste.
Don SPERINDIO BOLOGNESI, parroco di Nismozza (Reggio Emilia), ucciso da partigiani comunisti il 25 ottobre 1944.
Don CORRADO BORTOLINI, parroco di Santa Maria in Duno (Bologna), prelevato da partigiani il 1° marzo 1945 e fatto sparire.
Don RAFFAELE BORTOLINI, canonico della Pieve di Cento, ucciso da partigiani la sera del 20 giugno 1945.
Don LUIGI BOVO, parroco di Bertipaglia (Padova), ucciso il 25 settembre 1944 da un partigiano comunista.
Don MIROSLAVO BULLESCHI, parroco di Monpaderno (Diocesi di Parenzo e Pola), ucciso il 23 agosto 1947 da comunisti jugoslavi.
Don TULLIO CALCAGNO, direttore di Crociata Italica, fucilato dai partigiani comunisti a Milano il 29 aprile 1945.
Don SEBASTIANO CAVIGLIA, cappellano della GNR, ucciso il 27 aprile 1945 ad Asti.
Don CRISOSTOMO CERAGIOLO, o.f. m., cappellano militare decorato al v.m., prelevato il 19 maggio 1944 da partigiani comunisti nel Convento di Montefollonico e trovato cadavere in una buca con le mani legate dietro la schiena.
Don ALDEMIRO CORSI, parroco di Grassano (Reggio E.), ucciso da partigiani comunisti la notte del 22 ottobre 1944 nella sua canonica.
Don FERRUCCIO CRECCHI, parroco di Levigliani (Lucca), fucilato all’arrivo delle truppe di colore nella zona su false accuse dei comunisti del luogo.
Don ANTONIO CURCIO, cappellano dell’11” Btg. Bersaglieri, ucciso il 7 agosto 1941 a Dugaresa da comunisti croati.
Don SIGISMONDO DAMIANI, o.f.m., ex cappellano militare, ucciso da comunisti slavi a San Genesio di Macerata l’11 marzo 1944.
Don TEOBALDO DAPPORTO, arciprete di Castel Ferrarese (diocesi di Limola), ucciso da un comunista nel settembre 1945.
Don EDMONDO DE AMICIS, cappellano, pluridecorato della prima guerra mondiale, ucciso il 26 aprile 1945 da partigiani comunisti.
Don AURELIO DIAZ, cappellano della Sez. Sanità della Divisione “Ferrara”, fucilato nelle carceri di Belgrado nel gennaio del ’45 da partigiani “titini”.
Don ADOLFO DOLFI, canonico della Cattedrale di Volterra, sottoposto il 28 maggio 1945 a torture che lo portarono alla morte l’8 ottobre successivo.
Don ENRICO DONATI, arciprete di Lorenzatico (Bologna), massacrato il 23 maggio 1945 sulla strada di Zenerigolo.
Don GIUSEPPE DORFMANN, fucilato nel bosco di Posina (Vicenza) il 27 aprile 1945.
Don VINCENZO D’OVIDIO, parroco di Poggio Umbricchio (Teramo), ucciso nel maggio ’44 sotto accusa di filo-fascismo.
Don GIOVANNI ERRANI, cappellano militare della GNR, decorato al v.m., condannato a morte dal CLN di Forlì, salvato dagli americani e deceduto in seguito, a causa delle torture subite.
Don COLOMBO FASCE, parroco di Cesino (Genova), ucciso nel maggio del 1945 da partigiani comunisti.
Don GIOVANNI FAUSTI, Superiore generale dei Gesuiti in Albania, fucilato il 5 marzo 1946 perché italiano. Con lui furono trucidati ALTRI sacerdoti dei quali non si è mai potuto conoscere il nome.
Don FERNANDO FERRAROTTI, o.f.m., cappellano militare reduce dalla Russia, ucciso nel giugno 1944 a Champorcher (Aosta) da partigiani comunisti.
Don GREGORIO FERRETTI, parroco di Collevecchio (Teramo), ucciso da partigiani slavi ed italiani nel maggio 1944.
Don GIOVANNI FERRUZZI, arciprete di Campanile (Imola), ucciso da partigiani il 3 aprile 1945.
Don ACHILLE FILIPPI, parroco di Maiola (Bologna), ucciso la sera del 25 luglio 1945 perché accusato di simpatie fasciste.
Don GIUSEPPE GABANA, della diocesi di Brescia, cappellano della VI Legione della Guardia di Finanza, ucciso il 3 marzo 1944 da un partigiano comunista.
Don SANTE FONTANA, parroco di Cornano (Pontremoli), ucciso dai partigiani il 16 gennaio 1945.
Don GIUSEPPE GALASSI, arciprete di S. Lorenzo in Selva (Imola), ucciso il 1° maggio 1945 perché sospetto di filo-fascismo.
Don TISO GALLETTI, parroco di Spazzate Sassatelli (Imola), ucciso il 9 maggio 1945 perché aveva criticato il comunismo.
Don DOMENICO GIANNI, cappellano militare in Jugoslavia, prelevato la sera del 21 aprile 1945 e soppresso dopo tre giorni.
Don GIOVANNI GUICCIARDI, parroco di Mocogno (Modena), ucciso il 10 giugno 1945 dopo sevizie inflittegli nella sua canonica.
Don VIRGINIO ICARDI, parroco di Squaneto (Acqui), ucciso il 4 luglio 1944 a Preto da partigiani comunisti.
Don LUIGI ILARIUCCI, parroco di Garfagnolo (Reggio Emilia), ucciso il 19 agosto 1944 da partigiani comunisti.
Don GIUSEPPE JEMMI, cappellano di Felina (Reggio Emilia), ucciso il 19 aprile 1945 perché aveva deplorato gli “eccessi inumani di quanti disonoravano il movimento partigiano”.
Don SERAFINO LAVEZZARI, seminarista di Robbio (Piacenza), ucciso il 25 febbraio 1945 dai partigiani insieme alla mamma e a due fratelli.
Don LUIGI LENZINI, parroco di Crocette (Modena), ucciso da partigiani rossi la notte del 21 luglio 1945.
Don GIUSEPPE LORENZELLI, priore di Corvarola di Bagnone (Pontremoli), ucciso da partigiani il 27 febbraio 1945 dopo essere stato obbligato a scavarsi la fossa.
Don LUIGI MANFREDI, parroco di Budrio (Reggio Emilia), ucciso il 14 dicembre 1944 perché aveva deplorato gli “eccessi partigiani”.
Don DANTE MATTIOLI, parroco di Coruzzo (Reggio Emilia), prelevato la notte del 1° aprile 1945 e scomparso per sempre.
Don FERNANDO MERLI, mansionario della Cattedrale di Foligno, ucciso il 21 febbraio 1944 presso Assisi da jugoslavi istigati dai comunisti.
Don ANGELO MERLINI, parroco di Fiamenga (Foligno), ucciso il medesimo giorno dagli stessi, presso Foligno.
Don ARMANDO MESSURI, cappellano delle Suore della S. Famiglia in Marino, ferito a morte da partigiani comunisti e deceduto il 18 giugno 1944.
Don GIACOMO MORO, cappellano militare in Jugoslavia, fucilato dai comunisti “titini” a Micca di Montenegro.
Don ADOLFO NANNINI, parroco di Cercina (Firenze), ucciso il 30 maggio 1944 da partigiani comunisti.
Don SIMONE NARDIN, dei Benedettini Olivetani, tenente cappellano dell’Ospedale Militare “Belvedere” in Abbazia di Fiume prelevato da partigiani jugoslavi nell’aprile 1945 e fatto morire tra sevizie orrende.
Don LUIGI OBID, economo di Podsabotino e San Mauro (Gorizia), prelevato da partigiani e ucciso a San Mauro il 15 gennaio 1945.
Don ANTONIO PADOAN, parroco di Castel Vittorio (Imperia), ucciso da partigiani l’8 maggio 1944 con un colpo di pistola in bocca ed uno al cuore.
Don ATTILIO PAVESE, parroco di Alpe Gorreto (Tortona), ucciso il 6 dicembre 1944 da partigiani dei quali era cappellano, perché confortava alcuni prigionieri tedeschi condannati a morte.
Don FRANCESCO PELLIZZARI, parroco di Tagliolo (Acqui), chiamato nella notte del 10 maggio 1945 e fatto sparire per sempre.
Don POMPEO PERAI, parroco dei SS. Pietro e Paolo di Città della Pieve, ucciso per rappresaglia partigiana il 16 giugno 1944.
Don ENRICO PERCIVALLE, parroco di Varriana (Tortona), prelevato da partigiani e ucciso a colpi di pugnale il 14 febbraio 1944.
Don VITTORIO PERKAN, parroco di Elsane (Fiume), ucciso il 9 maggio 1945 da partigiani mentre celebrava un funerale.
Don ALADINO PETRI, pievano di Caprona (Pisa), ucciso il 27 giugno 1944 perché ritenuto filo-fascista.
Don NAZARENO PETTINELLI, parroco di Santa Lucia di Ostra di Senigallia, fucilato per rappresaglia partigiana l’il luglio 1944.
Don UMBERTO PESSINA, parroco di San Martino di Correggio, ucciso il 18 giugno 1946 da partigiani comunisti.
Seminarista GIUSEPPE PIERAMI, studente di teologia della diocesi di Apuania, ucciso il 2 novembre 1944 sulla Linea Gotica da partigiani comunisti.
Don LADISLAO PISACANE, vicario di Circhina (Gorizia), ucciso da partigiani slavi il 5 febbraio 1945 con altre dodici persone.
Don ANTONIO PISK, curato di Canale d’Isonzo (Gorizia), prelevato da partigiani slavi il 28 ottobre 1944 e fatto sparire per sempre.
Don NICOLA POLIDORI, della diocesi di Nocera e Gualdo, fucilato il 9 giugno 1944 a Sefro da partigiani comunisti.
Don GIUSEPPE PRECI, parroco di Montaldo (Modena), ucciso il 24 maggio 1945 dopo che era stato chiamato ad assistere un morente.
Don GIUSEPPE RASORI, parroco di San Martino in Casola (Bologna), ucciso la notte sul 2 luglio 1945 nella sua canonica sotto accusa di simpatie fasciste.
Don ALFONSO REGGIANI, parroco di Amola di Piano (Bologna), ucciso da marxisti la sera del 5 dicembre 1945.
Seminarista ROLANDO RIVI, di Reggio Emilia, di sedici anni, ucciso il 10 aprile 1945 da partigiani comunisti solo perchè indossava la tonaca.
Don GIUSEPPE ROCCO, parroco a Santa Maria, diocesi di S. Sepolcro, ucciso da slavi il 4 maggio 1945.
Don ANGELICO ROMITI, o.f.m., cappellano degli allievi ufficiali della Scuola di Fontanellato, decorato al v.m., ucciso la sera del 7 maggio 1945 da partigiani comunisti.
Don LEANDRO SANGIORGI, salesiano, cappellano militare decorato al v.m., fucilato a Sordevolo Biellese il 30 aprile 1945.
Don ALESSANDRO SANGUANINI, della Congregazione della Missione, fucilato a Ranziano (Gorizia) il 12 ottobre 1944 da partigiani slavi per i suoi sentimenti di italianità.
Don LODOVICO SLUGA, vicario di Circhina (Gorizia), ucciso insieme al confratello don Pisacane il 5 febbraio 1944.
Don LUIGI SOLARO, di Torino, ucciso il 4 aprile 1945 perché congiunto del Federale di Torino Giuseppe Solaro, anch’egli soppresso. Don EMILIO SPINELLI, parroco di Campogialli (Arezzo), fucilato il 6 maggio 1944 dai partigiani sotto accusa di filo-fascismo.
Don EUGENIO SQUIZZATO, o.f.m., cappellano partigiano, ucciso dai suoi il 16 aprile 1944 fra Corio e Lanzo Torinese perché, impressionato dalle crudeltà che essi commettevano, voleva abbandonare la formazione.
Don ERNESTO TALE’, parroco di Castelluccio Formiche (Modena), ucciso insieme alla sorella l’11 dicembre 1944 perché sospettato di filo-fascismo.
Don GIUSEPPE TAROZZI, parroco di Riolo (Bologna), prelevato la notte sul 26 maggio 1945 e fatto sparire.
Don ANGELO TATICCHIO, parroco di Villa di Rovigno (Pola), ucciso da partigiani iugoslavi nell’ottobre 1943 perché “aiutava troppo gli italiani”.
Don CARLO TERENZIANI, prevosto di Ventoso (Reggio Emilia), fucilato la sera del 29 aprile 1945 perché ex cappellano della Milizia.
Don ALBERTO TERILLI, arciprete di Esperia (Frosinone), morto in seguito a sevizie inflittegli dai marocchini eccitati da partigiani nel maggio 1944.
Don ANDREA TESTA, parroco di Diano Borrello (Savona), ucciso il 16 luglio 1944 da una banda partigiana perché osteggiava il comunismo.
Mons. EUGENIO CORRADINO TORRICELLA, della Diocesi di Bergamo, ucciso il 7 gennaio ’44 ad Agen (Francia) da partigiani comunisti per i suoi sentimenti d’italianità.
Don RODOLFO TRCEK, diacono della Diocesi di Gorizia, ucciso il 1° settembre 1944 a Montenero d’Idria da partigiani comunisti.
Don FRANCESCO VENTURELLI, parroco di Fossoli (Modena), ucciso il 15 gennaio 1946 perché inviso ai partigiani.
Don GILDO VIAN, parroco di Bastia (Perugia), ucciso da partigiani comunisti il 14 luglio 1944.
Don GIUSEPPE VIOLI, parroco di Santa Lucia di Madesano (Parma), ucciso il 31 novembre 1945 da partigiani comunisti.
Don ANTONIO ZOLI, parroco di Morra del Villar (Cuneo), ucciso da partigiani comunisti perché durante la predica del Corpus Domini del 1944 aveva deplorato l’odio tra fratelli.

Nicola Facciolini

 

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