La strada nella visione della citta’ policentrica

Lo spirito fondativo della città storica di L’Aquila risiede nella centralità dei luoghi della socialità, in cui gli spazi aperti pubblici traggono origine da un policentrismo di piazze, fra loro connesse da strade. Nelle città storiche italiane il legame tra vuoti e pieni e la discreta permeabilità tra spazi privati, collettivi e pubblici sono stati […]

Lo spirito fondativo della città storica di L’Aquila risiede nella centralità dei luoghi della socialità, in cui gli spazi aperti pubblici traggono origine da un policentrismo di piazze, fra loro connesse da strade. Nelle città storiche italiane il legame tra vuoti e pieni e la discreta permeabilità tra spazi privati, collettivi e pubblici sono stati forti fattori di coesione e di complessità spaziale che, in quanto conformati ad una precisa visione delle relazioni interpersonali e sociali, si sono configurate e si configurano come insostituibili rappresentazioni del convivere civile.

A costruire la spazialità delle strade urbane della tradizione concorrono i portici, gli androni, le logge, i cortili, le porte e le finestre degli edifici. Nella città storica aquilana, la strada, intesa come nastro per lo più racchiuso da due cortine di edifici permeabili, ha assolto ad una funzione fondamentale nella crescita della identità individuale e collettiva. E’ nel novecento, con l’avvento della mobilità automobilistica, che tale tipologia viene distrutta. Dalla rivoluzione trasportistica nascono i paesaggi di oggi, mondi inospitali e in frantumi  dove le strade, ridotte a puri supporti monofunzionali, assomigliano sempre più ad una successione di “non luoghi”, con edifici che si elevano isolati, incapaci di intessere con essa relazioni dialogiche.

A l’Aquila, l’ampliarsi delle distanze insediative, che dopo il terremoto hanno assunto aspetti inquietanti, ha contribuito ad accentuare il fenomeno latente di sgretolamento dell’ambiente urbano, portando la città nel pieno di una rottura antropologica. Si va affermando il cosiddetto modello del “periurbano emergente”, in cui non esiste più legame di sudditanza delle aree periferiche verso il polo centrale. Il rapporto individuale e sociale col contesto, con l’ambiente fisico e con la città storica cambia radicalmente. Nel territorio, entro il quale in passato, la vita individuale e collettiva aveva trovato e inventato le risorse per potersi manifestare, si è venuto ad istituire un rapporto di consumo, secondo una logica dell’usa e getta, divenuta parte integrante dell’azione trasformativa.

Nella periferia urbana, la strada, priva di narratività e di sintassi compositiva, si apre ad anonimi spazi, dominati unicamente da un ordine geometrico che favorisce la lottizzazione razionale. Nella città del post-terremoto poi, essa si configura come la narrazione dell’esilio, imposto come condizione esistenziale, ma anche come rappresentazione scenica. E’ un paesaggio che non si limita solo a consumare il territorio, ma che consuma lo stesso “immaginario” del cittadino, proponendogli aberranti scenari fatti di frastornanti viavai di veicoli a motore lungo strade e rotatorie, sullo sfondo di dilatati paesaggi naturalistici e di cantieri aperti, o di interminabili successioni di automezzi che gremiscono i piazzali degli affollati centri commerciali.

Le forme architettoniche dei quartieri C.AS.E., non meno di quelle della periferia del secolo scorso, si configurano come macigni edilizi freddi e ingessati, contrapposti ad insiemi disgregati di casette unifamiliari, dove si manifesta una costante rottura di coordinazione e composizione ambientale. Prima della rivoluzione industriale, la logica costruttiva che guidava l’opera di trasformazione dei paesaggi aveva implicita la cura, una cura che, andando oltre la strumentalità, infondeva appropriatezza e bellezza alle cose. “[…] Le cose non cooperano più a costituire dei mondi. – confida un viandante al suo amico scienziato – Gli edifici, ad esempio, non sono più disponibili all’incontro con l’intorno, non sanno più dar vita a dei luoghi. Non sanno più tenersi per mano, abbracciarsi e insieme stare a giusta distanza per custodire l’internità […]”. E neanche le strade. Nonostante la smisurata dilatazione dello spazio della città-territorio, gli scambi e le relazioni interpersonali si rendono ancora possibili grazie alla rete virtuale, ai circoli di relazione territorialmente dislocati in più punti della “città diffusa”, ai centri commerciali. Che sia giunto il tempo di relegare in una musealizzazione  i teatri della socialità aquilana – la strada e la piazza – sostituendo la loro funzione storica con altri luoghi di incontro che avanzano, quali ad esempio i centri commerciali, nuove cattedrali delle merci? L’abitare in una città non è solo un risiedere e un fruire di servizi, ma anche un orientarsi nel suo paesaggio, per conoscerlo e modificarlo, per mettere in atto processi di attribuzione di senso agli eventi e ai luoghi.

Va sempre più facendosi largo la figura di un nuovo personaggio, il flaneur, turista nella propria città che, vivendo in una dimensione territoriale più allargata e complessa di quella che fino a ieri lo aveva visto respirare entro i confini delle mura urbane, oggi cerca di coglierne i principi e gli aspetti reconditi, per adattarvisi, portarli alla luce ed arricchirsi interiormente. Per gli aquilani si tratta di una vera e propria mutazione antropologica, al centro della quale sta la strada, ieri definita dai contorni dei portici, degli androni e dei cortili, oggi dominata dall’ingombrante presenza dei veicoli a motore: un non luogo da riconvertire, alla luce di una visione policentrica di città. Conscia della grave responsabilità di porre al centro della sua pratica la qualificazione “in senso urbano” dell’estesa compagine territoriale, l’urbanistica aquilana, in sintonia con le nuove tematiche ambientali impostate sulle reti ecologiche, deve riconvertire l’asettico sistema delle strade veicolari del suo habitat, dotandole di parchi lineari, di percorsi ciclabili e pedonali, ma anche di bellezza, espressioni queste di una dimensione di città rivolta alla cura delle persone, al vivente, alle cose, insomma alla costruzione di un “mondo interno”, capace di andare oltre la pura strumentalità. Ma tutto ciò può scaturire solo da una conoscenza empatica del territorio e dei suoi abitanti, conoscenza che ancor oggi è considerata come poco scientifica se non addirittura ascientifica.

Giancarlo De Amicis, di Policentrica

 

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