Scorie nucleari, un rebus ad alto rischio

Se una centrale ad energia atomica suscita paura le scorie da essa prodotte non sono da meno, stante l’elevato livello di pericolosità ed il perdurare nel tempo delle stesse; il termine tecnico “scorie ad alta radioattività e a vita lunga” è fin troppo esplicito nel delineare i rischi che permeano questo argomento, indubbiamente uno dei […]

Se una centrale ad energia atomica suscita paura le scorie da essa prodotte non sono da meno, stante l’elevato livello di pericolosità ed il perdurare nel tempo delle stesse; il termine tecnico “scorie ad alta radioattività e a vita lunga” è fin troppo esplicito nel delineare i rischi che permeano questo argomento, indubbiamente uno dei più delicati in materia di nucleare e dalla soluzione tutt’altro che scontata. Basti pensare infatti che l’arco di vita dei residui radioattivi può estendersi fino ai 300.000 anni, un lasso di tempo considerevole e tale da porre una pesante ipoteca sui futuri scenari esistenziali del pianeta. Quel che è peggio, ed a dispetto di alcune dichiarazioni rassicuranti fatte da più di un politico sull’argomento, delle scorie nucleari allo stato attuale si conosce ben poco, sia per quel che concerne la loro effettiva pericolosità che in tema di depositi destinati ad accoglierle, enormi sarcofagi situati a centinaia di metri di profondità della cui sicurezza e tenuta nel tempo sono in moltissimi a dubitare. Certamente, i siti deputati a contenere un materiale di questo genere sono indispensabili e per il momento non si conoscono alternative ad essi, ma è parimenti vero che anche questo settore del nucleare è privo di certezze scientifiche, ed anzi i meccanismi che ne regolano il funzionamento risultano talmente complessi ed opinabili da suscitare le peggiori aspettative; gli esperti di sicurezza nucleare elencano al riguardo una serie di problematiche dalla spinosa soluzione, quali le reazioni chimiche determinate dalle radiazioni all’interno dei fusti di contenimento, la fisica dei flussi nelle materie radioattive immagazzinate, il “comportamento” dei metalli e del cemento utilizzati in occasione dello stoccaggio, la scelta delle rocce in cui imprigionare il carico di rifiuti. Il quadro è reso  ancora più complesso dalla diversificazione delle scorie secondo il loro grado di radioattività (che indica di fatto il differente livello di pericolosità), ed ecco allora che le scorie di 3° grado o di alta attività, in particolare le ceneri prodotte dall’uranio, possono richiedere anche 100.000 anni per cessare di essere pericolose; attualmente è stato identificato un solo sito in grado di offrire sufficienti margini di sicurezza per il deposito delle scorie di terzo grado, esso si trova nel Nuovo Messico in una zona desertica e la sua realizzazione ha richiesto ben 25 anni di studio. I depositi sono suddivisi in quattro categorie, i depositi di superficie, i depositi di superficie con opera ingegneristica, i depositi in cavità o miniera e quelli geologici; a quest’ultima categoria, tuttora in fase di sperimentazione, appartiene il sito del Nuovo Messico, mentre la maggioranza degli impianti, circa 80, rientra nelle prime tre tipologie. Prescindendo in ogni caso dalle differenti caratteristiche delle scorie, i depositi destinati ad accogliere i residui nucleari non possono ovviamente essere realizzati in zone a rischio sismico e a comprovato dissesto idro-geologico, mentre per quel che concerne la tipologia delle rocce queste ultime debbono fornire assolute garanzie dall’eventualità di infiltrazioni di acqua, ragion per cui le migliori potrebbero essere l’argilla, il granito ed il sale. Le difficoltà nel reperire il sale hanno indotto alcuni paesi (ad es. dell’area scandinava) ad optare per il granito, particolarmente solido e compatto, mentre altri preferiscono ricorrere all’argilla, attraverso la quale la radioattività si muoverebbe più lentamente, ma è facile comprendere che ci si aggira ancora nel campo delle sperimentazione e di ipotesi che i fatti potrebbero smentire bruscamente. Per contro, i rischi legati alla salute ed all’ambiente sono di un’evidenza preoccupante; in Germania, in particolare, una recente indagine ha fatto emergere una allarmante correlazione tra l’aumento esponenziale della leucemia infantile e la presenza nelle vicinanze di un impianto nucleare. I bambini che vivono in un raggio di 5 chilometri da un reattore o da un deposito contenente scorie radioattive hanno infatti, secondo questi studi, un aumento del 76% del rischio di contrarre tale tipo di tumore rispetto ai coetanei che vivono in un raggio distante oltre i 50 chilometri. Posto dunque che quella legata all’atomo è una forma di energia tutt’altro che sicura ed affidabile, prova ne sia la recente tragedia di Fukushima, su di un punto è indispensabile che non sussistano incertezze; che siano i cittadini ad avere l’ultima parola sull’argomento nucleare e sulla possibilità di esprimere il proprio rifiuto per una fonte energetica forse utile ma in larga parte ancora sconosciuta e, come hanno dimostrato alcune dolorose esperienze, terribilmente pericolosa.

Giuseppe Di Braccio

 

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