Finanziaria, Legge “pro carbone”: le associazioni ambientaliste insorgono

“E’ un perfetto esempio di legge ‘ad aziendam’ con la quale non solo si vanifica la sentenza del Consiglio di Stato sulla valutazione di impatto ambientale, ma si decide deliberatamente di ignorare – per fare l’interesse dell’Enel – l’impatto ambientale e sanitario di una centrale a carbone nel cuore di una delle aree, il Delta del […]

“E’ un perfetto esempio di legge ‘ad aziendam’ con la quale non solo si vanifica la sentenza del Consiglio di Stato sulla valutazione di impatto ambientale, ma si decide deliberatamente di ignorare – per fare l’interesse dell’Enel – l’impatto ambientale e sanitario di una centrale a carbone nel cuore di una delle aree, il Delta del Po, più fragili e a rischio del Paese”. Così le associazioni ambientaliste GreenpeaceLegambienteWWF eItalia Nostra definiscono la norma nella nuova manovra finanziaria del Governo che favorisce lo smantellamento di centrali alimentate ad olio per trasformarle in centrali a carbone

Le associazioni ambientaliste che hanno portato avanti la battaglia contro la conversione a carbone della centrale di Porto Tolle hanno inviato una lettera (in .pdf) al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, affinché prenda urgenti provvedimenti per impedire che il Governo aggiri una sentenza “scomoda” sostituendosi ai giudici che hanno già sentenziato sulla incompatibilità ambientale del carbone. “La norma cerca di cancellare la sentenza del Consiglio di Stato e la disposizione di confrontare il progetto a carbone con scenari alternativi, quale l’utilizzo del gas naturale o l’alternativa “zero”, non costruire nulla. Si tratta di un vero e proprio “obbrobrio giuridico” in quanto tale confronto costituisce uno dei contenuti necessari e obbligatori della procedura di Valutazione d’Impatto Ambientale prevista dalle norme europee e confermata dalla Corte di Giustizia europea” – sostengono le associazioni.

La conversione a carbone della centrale di Porto Tolle comporterebbe l’emissione di oltre 10 milioni di tonnellate annue di anidride carbonica (CO2),il principale responsabile del riscaldamento globale – sostengono le associazioni ambientaliste; nonché la movimentazione, in un parco naturale già fragilissimo, di 5 milioni di tonnellate di carbone all’anno e di un altro milione di tonnellate tra calcare, gessi e ceneri. “Tutto questo per salvare meno di 200 posti di lavoro che potrebbero essere assorbiti da un equivalente impianto a gas naturale, ipotesi più razionale visto che accanto al sito della centrale è stato costruito il più importante terminale gasifero off-shore”. I rischi posti dalla conversione a carbone sono quindi evidenti, senza contare che il carbone è tra i fattori che ritardano il lancio, in Italia, di una seria politica di investimenti sulle rinnovabili e l’efficienza che secondo numerose stime (nazionali, internazionali e sindacali) porterebbe nel nostro Paese migliaia di posti di lavoro in più di quelli che si guadagnerebbero con questi pericolosi progetti di riconversione.

Per quanto riguarda l’attività estrattiva nel nostro paese, ieri Legambiente ha presentato il “Rapporto cave” (in .pdf) nel quale evidenzia che malgrado la crisi,sono quasi 6mila le cave attive e ben 15mila quelle abbandonate. Ben nove Regioni sono senza “piani cava” e in Sicilia, Sardegna, Calabria, Basilicata si estrae gratis – denuncia Legambiente che chiede “subito regole per fermare la svendita del territorio e canoni adeguati. Come in Europa, si può ridurre le cave puntando sul riciclo degli inerti”

“Mentre si discute di una durissima manovra economica è incredibile che nessuno s’interessi dell’attività estrattiva, un settore dove i guadagni sono miliardari a fronte di pochi euro lasciati al territorio ” – riporta la nota di Legambiente. L’associazione ambientalista ricorda che in Italia a dettare le regole per l’attività estrattiva è ancora un Regio Decreto del 1927, mentre le Regioni, alle quali sono stati trasferiti i poteri in materia nel 1977, non prestano la dovuta attenzione alla materia, mentre le entrate degli enti pubblici dovute all’applicazione dei canoni sono ridicole in confronto al volume d’affari del settore.

Solo dalla vendita di sabbia e ghiaia (i materiali di minor pregio) i cavatori ricavano circa 1 miliardo e 115 milioni di euro l’anno che però fruttano alle Regioni neanche 36 milioni di euro di canoni di concessione. In media, infatti, nelle Regioni italiane si paga il 4% del prezzo di vendita degli inerti, e in alcune come Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna si cava addirittura gratis. “Dopo 85 anni serve finalmente una riforma del settore che ripristini regole, controlli e sanzioni – ha dichiarato Edoardo Zanchini, responsabile Urbanistica di Legambiente – e che adegui i vergognosi canoni, visto l’impatto che le cave hanno sui territori. Un ritorno alla legalità che vale in particolare nelle Regioni del Mezzogiorno dove l’attività di cava è assurdamente gratuita e dove il peso delle Ecomafie nell’intero ciclo del cemento è decisamente inquietante”.

L’enorme numero di cave in Italia dipende dal fatto che si paga poco o niente per cavare” – ha concluso Zanchini. “Perché Tremonti e le Regioni non guardano a questo settore per recuperare risorse invece di toglierle alle fonti rinnovabili o agli Enti Locali? Copiando semplicemente dall’Inghilterra si potrebbero recuperare, ogni anno, quasi 300 milioni di euro da un’attività che ha un impatto enorme sul paesaggio italiano”. Legambiente chiede quindi di adeguare, in tutte le Regioni, il canone al prezzo medio che si paga oggi nel Regno Unito per l’attività di cava, ossia il 20%. In questo modo, solo considerando sabbia e ghiaia, secondo un semplice calcolo si potrebbero ottenere risorse pari a quasi 268 milioni di euro, rispetto agli attuali 36 milioni. [GB-Unimondo]

 

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