Al via il Roseto opera prima (con un po’ d’aiuto aquilano)

Gli eventi dell’estate rosetana si apriranno  il 21 luglio con la serata inaugurale di Roseto Opera Prima, durante la quale sarà proiettata una copia originale dello storico film di Dino Risi “Il Sorpasso”, a cura dell’Istituto Cinematografico de L’Aquila La Lanterna Magica, con  una introduzione critica del direttore artistico dello stesso, Pier Cesare Stagni. Le […]

Gli eventi dell’estate rosetana si apriranno  il 21 luglio con la serata inaugurale di Roseto Opera Prima, durante la quale sarà proiettata una copia originale dello storico film di Dino Risi “Il Sorpasso”, a cura dell’Istituto Cinematografico de L’Aquila La Lanterna Magica, con  una introduzione critica del direttore artistico dello stesso, Pier Cesare Stagni. Le serate proseguiranno sino al 30 luglio con gli otto film in concorso, che saranno “Into Paradiso” di Paola Randi, “Tutti al mare” di Matteo Cerami, “Corpo celeste” di Alice Rohrwacher, “Et in terra pax” di Daniele Coluccini e Matteo Botrugno, “Il primo incarico” di Giorgia Cecere, “Venti sigarette” di Aureliano Amadei, “Nessuno mi può giudicare” di Massimiliano Bruno e “Un giorno della vita” di Giuseppe Papasso”. Per tutta la durata dell’evento, diretto da Tonino Valeri e che è giunto alla XIII edizione, potrà essere visitata, nei locali della Villa Comunale, una mostra con scene originali e bozzetti relativi a film italiani degli anni ’60 e ’70, sempre curata dalla Lanterna Magica. La rassegna rosetana, promossa dall’Amministrazione comunale, ha avuto, nelle passate edizioni, numerosi ospiti d’onore, che hanno ricevuto la “Rosa d’Oro”, massimo riconoscimento culturale della cittadina rivierasca. Fra gli altri premiati: Alberto Sordi, Stefania Sandrelli, Dario Argento, Tinto Brass, Bud Spencer, Terence Hill, Giuliano Gemma, Florinda Bolkan, Carlo ed Enrico Vanzina, Marco Bellocchio, Gianni Minà, Michele Placido e Gabriele Lucci. Circa la mostra tematica curata, quest’anno, come ricordavamo, dall’Istituto  aquilano, va ricordato che i venti anni che seguirono il 1958,  videro in tutto il mondo straordinari fermenti nel cinema inteso come arte: alle innovazioni degli autori già affermati si aggiunse una quantità di nuove tendenze e di nouvelles vagues impegnate ad affrontare la tradizione modernista con spirito critico e rinnovatore.  Fra i registi più giovani molti sarebbero divenuti le figure centrali dei decenni successivi. Le case di produzione aprirono la strada a registi esordienti, mentre proliferavano le scuole professionali di cinema: il periodo 1958-1967 segnò in tutta Europa l’esordio di molti registi trentenni. La nuova generazione accelerò il processo di internazionalizzazione della cultura cinematografica: i cinema d’essai e i cineclub si moltiplicavano, mentre la lista delle città che ospitavano festival internazionali si estendeva a macchia d’olio. In Italia e in Francia nacquero nel 1965 il Festival di Pesaro e quello di Hyères, entrambi pensati come occasioni di incontro per giovani autori. La nuova generazione intensificò il ricorso alla sequenza lunga, uno dei principali tratti stilistici del dopoguerra. Una scena poteva essere risolta tutta in una sola inquadratura – una soluzione ben presto classificata con la sua definizione francese di “piano sequenza” – per la quale le macchine da presa leggere si rivelarono ideali. Per tutti gli anni ‘60 le riprese col teleobiettivo, il montaggio discontinuo e i movimenti di macchina elaborati soppiantarono le dense composizioni in profondità che avevano costituito la norma dopo la seconda guerra mondiale. Realismo oggettivo e soggettivo e commenti d’autore si mescolano in una generale ambiguità narrativa che non sempre mette lo spettatore in grado di capire quale di questi tre fattori sia la base del racconto: alcune scene di “8 1/2” (1963) mescolano in modo inestricabile ricordi e immagini di fantasia. Gli autori più giovani sperimentavano anche un uso ambiguo della forma narrativa, dagli eventi che cambiano a seconda del punto di vista ai finali “aperti” come in Fino all’ultimo respiro. Nei primi anni Settanta si registrò, accanto al dilatarsi, talvolta non senza compromessi e ambiguità, dell’impegno civile (nei film di Petri, Rosi, Damiano Damiani, Mauro Bolognini, Lina Wertmüller, F. Vancini, G. Montaldo, N. Loy e altri), anche il fenomeno della liberalizzazione in campo sessuale, per cui Pasolini fu il primo a battersi nella sua cosiddetta “trilogia della vita” (“Decameron”, 1971; “I racconti di Canterbury”, 1972; “Il fiore delle Mille e una notte”, 1974). Nel frattempo altri proseguirono isolatamente il loro discorso: Fellini dal “Satyricon” (1969) ad “Amarcord” (1973) e al “Casanova” (1976), Antonioni da “Zabriskie Point” (1970) a “Professione: reporter” (1975), Visconti dalla “trilogia tedesca” (“La caduta degli dei”, 1969; “Morte a Venezia”, 1971; “Ludwig”, 1973) all’autobiografico “Gruppo di famiglia in un interno” (1974) e al postumo “L’innocente” (1976). Pure “Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pasolini uscì postumo (1976) incorrendo subito nel sequestro come accadde anche a “Ultimo tango a Parigi” (1972) di Bertolucci, il quale da “Strategia del ragno” (1970) e “Il conformista” (1971) approdò poi all’affresco colossale di “Novecento” (1976). Quanto a Ferreri, ostacolato in patria (“L’udienza”, 1971), trasferì in Francia la propria vena apocalittica, da “La grande abbuffata” (1973) a “L’ultima donna” (1976). Bellocchio passò dall’autobiografico “Nel nome del padre” (1972) allo straordinario “Matti da slegare” (1975), film-documento sulla malattia mentale e le nuove terapie “aperte”. La Cavani raggiunse il successo internazionale con “Il portiere di notte” (1974); e così, nel campo della commedia di costume, D. Risi con “Profumo di donna” (1974) ed E. Scola con “C’eravamo tanto amati” (1975).  Nel genere politico figurano “Il sospetto” di Maselli nel 1975, “Cadaveri eccellenti” di Rosi e “Todo modo” di Petri, entrambi da L. Sciascia, nel 1976. Alla corrente politico-metaforica appartiene “San Michele aveva un gallo” (1972), frutto di una collaborazione con la televisione; gli autori, i fratelli Taviani, gli fecero seguire “Allonsanfàn” (1974). E proprio la Palma d’oro vinta a Cannes nel 1977 dal loro “Padre padrone” significò la rivincita sul cinema commerciale di un rigoroso prodotto d’autore e di un film realizzato per la televisione, in un concorso in cui essa era guardata come nemica. In effetti la sua concorrenza si è rivelata decisiva nel ridimensionare lo spettacolo cinematografico. Ma la televisione ha avuto senza dubbio anche un ruolo positivo, non soltanto nei casi clamorosi dei Taviani e di Olmi, che nel 1978 con “L’albero degli zoccoli” ripeté a Cannes il trionfo italiano, ma per aver finanziato, già a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, molti altri registi, da Fellini (“Prova d’orchestra”, 1978) ad Antonioni (“Il mistero di Oberwald”, 1980), da Comencini (“Pinocchio”, 1972) a Rosi (“Cristo si è fermato a Eboli”, 1979), a F. Giraldi (“La rosa rossa”, 1973; “La giacca verde”, 1980). Quando a Tonino Valeri, ideatore e curatore del festival rosetano, proprio negli anni ’60, dopo una prima esperienza come sceneggiatore, divenne assistente alla regia di Sergio Leone e lavorò con il grande maestro in Per un pugno di dollari e in Per qualche dollaro in più. Due anni dopo debuttò alla regia con Per il gusto di uccidere e infine nel 1968 firmò il suo lavoro più importante I giorni dell’ira,  con la celebre colonna sonora di Riz Ortolani. Per la sua vena violenta e truce il film è stato molto apprezzato da Quentin Tarantino, grande appassionato del genere. Con Il mio nome è Nessuno (1973) ha compiuto una non banale riflessione sulla scomparsa del mito del western e realizzato l’opera in un certo senso conclusiva della stagione del western all’italiana. L’unico suo film non western è “Una ragazza di nome Giulio”, tratto dal romanzo omonimo di Milena Milani, pubblicato da Longanesi nel 1964 ed uscito nelle sale nel 1970. Nel film si racconta di Giulio (Silvia Dionisio, bellissima e gelida come il marmo), una ragazza il cui nome maschile è già presago di una sensualità ambigua e repressa, che cerca di sfogare in ogni occasione, sempre frustrante. Un film molto elegante, non compreso dalla critica di allora che lo scambiò per una  versione seriosissima di Candy. Nel cast anche Anna Moffo, soprano e attrice statunitense di origine italiana, famosa anche per la sua avvenenza, che lo stesso anno del film di Valeri, offrì un mezzo nudo nel giallo italiano Concerto per pistola solista, di Michele Lupo.

 

Carlo Di Stanislao

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