Sotto la minaccia del nucleare

Se l’opinione pubblica italiana pensa di essersi lasciata alle spalle le incognite legate all’energia atomica incorre in un gravissimo errore, ed in effetti l’esito positivo del recente referendum di giugno, da non sottovalutare quanto a mobilitazione delle coscienze ed impegno profuso, rappresenta di fatto una semplice tappa in un’operazione, quella di porre un limite al […]

Se l’opinione pubblica italiana pensa di essersi lasciata alle spalle le incognite legate all’energia atomica incorre in un gravissimo errore, ed in effetti l’esito positivo del recente referendum di giugno, da non sottovalutare quanto a mobilitazione delle coscienze ed impegno profuso, rappresenta di fatto una semplice tappa in un’operazione, quella di porre un limite al proliferare degli impianti nucleari, terribilmente complicata , e allo stato attuale con un saldo decisamente negativo. La Germania, facendo tesoro della tragica esperienza di Fukushima e raccogliendo le istanze di una cittadinanza che ha imparato ad apprezzare le energie rinnovabili e tutto ciò che possa garantire al contempo benessere e sicurezza, ha stabilito di dare un taglio ad una politica onerosa sia in termini economici che di rischi legati alla incolumità dei cittadini disponendo così la dismissione dei reattori attualmente operanti nel paese, atto di civiltà e di coraggio, indubbiamente, che però il resto del mondo, superpotenze in testa, non sembra avere recepito; al contrario, quella che si potrebbe definire la “globalizzazione dell’atomo” continua a riscuotere un’elevata percentuale di consensi tant’è che all’indomani della tragedia di Fukushima ben pochi politici e governi hanno compiuto al riguardo una convinta autocritica, la maggioranza di essi mostrandosi indifferente o accampando delle ridicole scusanti legate alla efficienza degli impianti, là dove il disastro giapponese ha dimostrato palesemente l’assenza da parte di questi ultimi proprio dei più elementari requisiti di sicurezza. In Italia alcuni rappresentanti di area governativa, evidentemente a secco di argomentazioni, sono giunti a negare l’evidenza della realtà e, pur di sminuire la portata dell’evento ( e di impantanare il referendum abrogativo), hanno a più riprese posto l’accento sulla componente psicologica, dimenticando che l’opinione pubblica è rimasta sì scossa, ma da un avvenimento realmente accaduto e da un disastro i cui effetti distruttivi sono ancora tutti da valutare. E’ doveroso sottolineare che, quando si fa accenno alla pericolosità di un impianto ad energia atomica, le argomentazioni toccano in termini pressoché identici sia il reattore nucleare propriamente detto che il sito destinato ad accogliere i residui radioattivi, tecnicamente parlando le “scorie”, identiche essendo le obiezioni sia in termini di sicurezza che di rischi legati ad un incidente; le scorie radioattive, ad esempio, hanno un arco di vita lunghissimo (tanto da essere definite “scorie ad alta radioattività e a vita lunga”) che può estendersi fino a 300.000 anni, mentre pesanti  incertezze gravano sui depositi deputati ad accoglierle, sia per quel che concerne la loro ubicazione che per il tipo di roccia con cui andrebbero realizzati. In termini estremamente sintetici, si può constatare come di entrambe le strutture la scienza attuale abbia una conoscenza ancora limitata, il che costringe i diretti interessati a procedere per tentativi e sulla base di previsioni ipotetiche che mal si conciliano con l’esigenza irrinunciabile di salvaguardare persone ed ambiente di riferimento. Impossibile non essere d’accordo allora con Daniel Cohn Bendit, eurodeputato e leader carismatico dei Verdi europei, il quale con la consueta franchezza che lo ha reso famoso ha affermato che in materia di nucleare la sicurezza non esiste, dunque “l’addio all’atomo è un dovere dell’umanità verso le generazioni future. Dobbiamo uscire dal nucleare. E’ difficile, è un processo lungo, ma non possiamo permetterci di lasciare alle future generazioni un mondo col nucleare civile” e, mi permetto di aggiungere, con un nucleare oggetto di applicazioni militari, invitante pretesto per un conflitto su scala planetaria. I paesi che vanno per la maggiore, purtroppo, sono di ben altro avviso, ed in effetti le cifre a nostra disposizione, e sulle quali invito il lettore a riflettere attentamente, ci descrivono una “corsa al nucleare” che, tranne alcune eccezioni, sembra non conoscere ostacoli o remore di sorta; al mese di marzo 2011 i reattori in funzione nel mondo sono ben 455 e 38 i paesi che li posseggono; il record di centrali atomiche spetta agli Stati Uniti con 104 impianti, seguiti dalla Francia con 59, il Giappone ne ha 55, la Russia 32, la Corea del Sud 21, l’India 20, Regno Unito e Cina 19* ma, avendo una trentina di impianti in costruzione, quest’ultima è destinata la scalare la poco edificante classifica. Se poi si analizza l’aspetto in questione, è quanto meno allarmante notare come si stiano costruendo in questo momento più di 70 reattori e che di altri 230 sia stata proposta la realizzazione, a dimostrazione che le tragedie di Chernobyl e di Fukushima non abbiano insegnato nulla e che in fin dei conti gli interessi economici, indubbiamente colossali, che la macchina del nucleare è in grado di attrarre, sono più forti di qualunque presa di posizione, anche di quelle suffragate (e in troppe occasioni) dall’evidenza dei fatti.

*Dati disponibili sul numero di “Repubblica” del 14marzo 2011, p.9.

Giuseppe Di Braccio

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