Tutti innocenti per mancanza di prove

L’aereo della British Airways con a bordo Amanda Knox e i suoi familiari e’ decollato dall’aeroporto Leonardo Da Vinci per Londra alle ore 12.05, mentre è già a casa Raffaele Sollecito, uscito nella notte dal carcere di Terni. Dunque la Corte d’Appello di Perugia ha ieri sentenziato, in diretta mondiale, che a uccidere è stato solo […]

L’aereo della British Airways con a bordo Amanda Knox e i suoi familiari e’ decollato dall’aeroporto Leonardo Da Vinci per Londra alle ore 12.05, mentre è già a casa Raffaele Sollecito, uscito nella notte dal carcere di Terni. Dunque la Corte d’Appello di Perugia ha ieri sentenziato, in diretta mondiale, che a uccidere è stato solo Rudy Guede, il livoriano già condannato a 16 anni di carcere. E anche se restano molti dubbi (sui cellulari spenti, sul numero ed il tipo di ferite sul corpo di Meredith, sulle molte tracce biologiche e sui vari frammenti di Dna), per ora la giustizia dice che è solo lui , il ragazzo sbandato e di colore che scelse il rito abbreviato, il colpevole. “Alle favole non ci crediamo e non ci dovete credere nemmeno voi”:  ha detto, rivolgendosi alla Corte di Perugia, il pg Giuliano Mignini nella sua replica nel processo d’appello, ma la giuria, formata da sei cittadini e due “togati”, l’ha pensata diversamente. Scrive Carlo Federico Grosso su La Stampa che anche se spiace che l’assassinio di una giovane donna rimanga in larga misura insoluto (non si può sicuramente dire che la condanna definitiva di Rudy Guede possa tranquillizzare le coscienze; anzi, la nuova sentenza aggiunge perplessità a perplessità); le regole e le garanzie del processo penale devono essere sempre rispettate e nel caso di specie garanzia voleva che, di fronte alla contraddittorietà degli elementi emersi nel corso dell’istruttoria dibattimentale, giudici e giurati non potessero fare altro che assolvere. Non c’erano indizi sufficienti, non c’erano, soprattutto, stante le contraddizioni emerse nel dibattimento, indizi univoci e concordanti. Ciò che è evidente sono i molti errori procedurali, fin dalle fasi del delitto e poi, con la raccolta delle prove e l’analisi del Dna. E’ mancato il riscontro probatorio delle accuse e di fronte al dubbio i giudici hanno tratto, inesorabilmente, ma anche giustamente, le loro conclusioni. E oggi, sui vari quotidiani, di destra e di sinistra, il dibattito è tutto attorno alla efficienza della nostra giustizia e sulle capacità dei nostri inquirenti e magistrati, poiché troppi sono, ormai, i casi d’omicidio ai quali la giustizia non è riuscita a dare risposte in grado di convincere del tutto o, addirittura, di convincere e basta. Su questo terreno è, sicuramente, necessaria una riflessione. Il processo di Perugia, in questa prospettiva, fornisce più di uno spunto. Ma in realtà altri spunti, e di non poco conto, erano già stati forniti da altri, altrettanto clamorosi, casi giudiziari. Secondo molti l’investigazione pubblica naviga in acque livide e  tempestose, a causa del fatto che si sta sviluppando in questi ultimi anni, una vera e propria “guerra contro la magistratura”, condotta dalla principale forza politica italiana. Mentre secondo gli esponenti più qualificati della forza di governo ci sarebbe “un piano antidemocratico” capitanato da eminenti magistrati, rivolto a contrastare o a deviare le libere consultazioni elettorali. Queste inquietanti prospettive non sono di poco conto, visto il ruolo della magistratura nel sistema investigativo italiano e visto inoltre che questo ruolo è assai contestato: la riforma dell’ordinamento giudiziario mette in questione l’organizzazione e il compito finora svolti dalla magistratura e i rapporti tra magistratura e forze di polizia nello svolgimento delle indagini. Mentre si confrontano opzioni contrapposte, il comune cittadino percepisce il problema della sicurezza come sempre più grave e si chiede quale sia la giusta natura di una delle più interessanti idee apparse in questi anni, relativa all’esistenza di uno Stato criminogeno.  Di fatto, rimangono enigmatici non soltanto gli eventi investigativi apparentemente più semplici (e da questo punto di vista il caso Cogne è veramente paradigmatico), ma anche i casi più noti della nostra storia giudiziaria, dai compromessi eccellenti nella questione mafiosa all’attentato al Papa Giovanni Paolo II, fino all’uccisone di Aldo Moro, di Pasolini, di Mattei, e così via. Da Ustica all’Italicus, esiste una serie molto ampia di casi giudiziari irrisolti; da questo fatto elementare discendono conseguenze di carattere generale. Le vicende giudiziarie sulla strage di Piazza Fontana sono il simbolo della storia dell’investigazione pubblica nell’Italia repubblicana: dopo più di trenta anni e di undici processi, il mistero d’Italia per eccellenza rimane senza mandanti ed esecutori. Esistono  molte altre vicende simili, come la strage di Piazza della Loggia, ma questo è il maggiore degli insuccessi investigativi in merito ad una stagione che, dal 1969 al 1980, costò 12.690 attentati, 362 morti, 4490 feriti. Come ha notato il senatore Guido Calvi non si può dire che non sappiamo completamente nulla in merito a quella stagione; anzi, molti segmenti di verità sono stati acquisiti per via giudiziaria. Ma, nel complesso, le aspettative di verità sono rimaste largamente insoddisfatte, sia in riferimento ai grandi casi politici, sia in riferimento ad una miriade di casi criminali “normali”, dal caso Adriano Sofri al caso Simonetta Cesaroni.  Insieme agli insuccessi dell’investigazione, nel corso degli anni è diventato rilevante il problema della crescita della illegalità, come è dimostrato sia da quelle carceri europee che tutte scoppiano di detenuti, sia da quella sorta di guerra civile silenziosa che è descritta da alcuni autori e che sembra minare dall’interno le nostre società (e che secondo molti sarà ulteriormente aggravata dall’avvento di una collettività pienamente multietnica). Nel sistema giuridico italiano sono preminenti gli aspetti non soltanto enigmatici, ma soprattutto inefficienti o contraddittori; in questo senso, per avere una misura del ritardo istituzionale ed intellettuale  basta rileggere le pagine luminose di Cesare Beccaria, con il richiamo alla necessità di una pena non già severa, ma pronta e certa: sono righe scritte nel Settecento, ma ancora di bruciante attualità, soprattutto per quanti si occupano di investigazione. Inoltre,  i recenti casi  di grande impatto mediatico, come quello di Sarah Scazzi, Yara Gambirasio e Melania Rea, suscitano sempre più domande da parte  dell’opinione pubblica sulla personalità degli assassini e sulle motivazioni che inducono loro a commettere reati efferati come questi. Molto spesso si mobilitano specialisti del settore, come criminologi e psichiatri forensi (ospiti da Vespa o su Matrix o su Rete 4), senza però giungere a conclusioni concrete che possano orientare gli investigatori sulla strada giusta, o dare risposte ai tanti dubbi della gente comune. Sembra quasi che questi siano delitti perfetti, dove tutto è stato organizzato e programmato nei minimi dettagli, senza lasciare nulla al caso e con la piena consapevolezza per l’assassino che il crimine commesso rimarrà impunito e senza un colpevole. Purtroppo questa fosca e triste descrizione del modo di procedere del killer, dell’intero schema del crimine e della conseguente impunità che può da esso derivare, è confermata a pieno titolo dagli ultimi casi giudiziari, fra cui quelli summenzionati, che a distanza di mesi e qualche volta di anni, non riescono a trovare la soluzione e a dare un volto e un nome al killer di queste povere giovani. In questi casi molto importante è stilare e costruire un profilo psichiatrico e generale del probabile assassino, studiando le caratteristiche e entrando nella sua psiche, scavando nei più remoti angoli del suo pensiero e del suo essere. Questo è il compito di esperti di criminologia e di psichiatria forense, tanto per intenderci quelli che vediamo nelle  ben note serie americane come CSI Miami o Law & Order. Ma fra finzione e realtà ci sono delle belle differenze  e in ogni caso noi non siamo gli americani, che i quanto a tecniche investigative e percentuale di successi nella risoluzione dei casi giudiziari anche più difficili e controversi, hanno un primato ben difficile da eguagliare e raggiungere. La scuola classica di psichiatria forense, già a partire dagli inizi e dalle prime teorie criminali, ha sempre posto l’accento sulla personalità del reo, operando una opportuna e completa descrizione e classificazione dei vari tipi di criminale. Si va dal criminale sadico a quello schizoide, dal soggetto che uccide per motivazioni ideologiche a quello che è spinto da forti e incontrollabili impulsi sessuali che non riesce a soddisfare in altro modo. In passato era stata elaborata anche una teoria che si basava sulla fisionomia e sui caratteri fisici del criminale, teoria oggi non più attuale e abbandonata anche dai sostenitori più incalliti, anche se a nostro avviso ci possono essere delle correlazioni fra alcuni caratteri somatici e un certo tipo di reati. Ma l’elemento più preponderante da analizzare è quello psichico, al cui interno si sviluppano certi impulsi e devianze che possono poi sfociare in atti criminali come gli omicidi. Senz’altro rispetto a trenta anni fa, i mezzi a disposizione della polizia e degli investigatori tutti, sono molto cambiati e più evoluti rispetto al passato e dovrebbero consentire una migliore indagine e una soluzione dei casi più rapida e incisiva. Ma come dimostrano i fatti, purtroppo a volte questo non accade, o per imperizia degli inquirenti, o per una serie di circostanze fortuite e favorevoli al killer di turno. Ora il pubblico ministero del processo di Perugia ricorrerà in Cassazione, ma intanto ci si chiede come assicurare la certezza nel trovare gli assassini di una ragazza poco più che ventenne e, ritenendo Amanda e Raffaele innocenti, chi restituirà loro i quattro anni di segregazione, con tutte le naturali conseguenze. In “Presunto Innocente”, thriller giudiziario di Alan J. Pakula, la lotta per dimostrare la propria innocenza si trasforma in un vortice di bugie e passioni nascoste, una lotta dove attrazione, desiderio, inganno, rendono tutti colpevoli. Ma quello è un film, mentre nella vita reale i colpevoli vanno individuati ed assicurati alla giustizia, con indagini corrette e rigorosi dibattimenti procedurali. Ne “L’innocente” di D’Annunzio, Tullio, un anno dopo il suo delitto, lo confesserò non ad un giudice, ma alla pagine bianca di un memoriale-romanzo. E non possiamo, in una stato che si dice avanzato e civile, augurarci questo per i delitti che accadono accanto a noi, sotto il nostro  cielo e che non possono restare oscuri o impuniti.

Carlo Di Stanislao

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