Ribollenti ribellioni per la democrazia

Ieri, in Russia ed in Siria , la tensione ha toccato punte parossistiche, anche se non esiti diversi. A Damasco, un duplice attentato ha causato 44 morti e 150 feriti, con due autobombe scagliate contro le sedi dei servizi segreti siriani, con e uno dei kamikaze che ha colpito l’ingresso esterno della sede della Sicurezza […]

Ieri, in Russia ed in Siria , la tensione ha toccato punte parossistiche, anche se non esiti diversi. A Damasco, un duplice attentato ha causato 44 morti e 150 feriti, con due autobombe scagliate contro le sedi dei servizi segreti siriani, con e uno dei kamikaze che ha colpito l’ingresso esterno della sede della Sicurezza dello Stato, uccidendo e ferendo un grande numero o di guardie e passanti e danneggiando gli edifici circostanti. Questo duplice attentato, in un Paese che,a differenza dei vicini Iraq e Libano, non è solito ricorrere a tali forme di terrorismo, è avvenuto a poche ore dall’arrivo a Damasco della prima squadra di osservatori della Lega Araba, incaricati di preparare il terreno alla missione che dovrebbe operare a partire dalla fine di dicembre. Dietro agli attentati, secondo alcuni, vi sarebbe Al-Qaeda, ma altri, fra cui Hezbollah, ipotizzano un ruolo degli USA e dei servizi segreti d’Israele. In Siria, dallo scorso mese di marzo, vi è una forte opposizione al regime, con una repressione feroce operata dal governo. Governo che, dopo la dura reprimenda della Lega Araba e dopo questo duplice attentato sembra cominciare a scricchiolare. Secondo le Nazioni Unite, finora sono morte almeno 5.000 persone. Sana, l’agenzia di stampa di Stato, ha riportato giovedì che sarebbero 2.000 i membri delle forze dell’ordine siriane uccisi in questi mesi. A pochi minuti dalle due esplosioni di ieri, la tv di Stato ha mandato in onda immagini strazianti di cadaveri mutilati e di edifici distrutti. La velocità con cui le telecamere sono arrivate sul luogo ha destato i dubbi dell’opposizione, dubbi rinfocolati dalle dichiarazioni di Abdelrakim Al Rihawi, responsabile della Lega per i diritti umani in Siria, che alla Cnn ha dichiarato che i civili uccisi nelle esplosioni stesse, sarebbero manifestanti arrestati nelle scorse settimane. Un non meglio precisato “gruppo per la difesa dei diritti umani”, citato da alcune agenzie di stampa italiane, sostiene intanto che le autorità siriane starebbero trasferendo dagli ospedali alle basi militari centinaia di oppositori per evitare che possano testimoniare davanti agli osservatori della Lega Araba. dall’opposizione ogni giorno giungono resoconti non verificabili di ciò che accade sul terreno. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani (con sede a Londra), sarebbe di almeno 111 civili il bilancio degli scontri negli ultimi due giorni tra le forze di sicurezza e manifestanti nella regione di Idlib, nel nord-ovest della Siria. La stessa organizzazione martedì aveva riferito di 37 vittime civili a Kafrueid e di un possibile «massacro» in questo villaggio della Siria. Secondo altre fonti il bilancio sarebbe più alto, con decine se non centinaia di militari disertori massacrati dalle truppe regolari ad Idlib., bombardata tre giorni fa. L’instabilità, comunque, in quella regione è davvero grande, poiché, mentre Damasco è costretta ad affrontare una situazione di aperta guerra civile con un medio rischio di internazionalizzazione (o per lo meno regionalizzazione) del conflitto, Teheran deve subire le conseguenze delle durissime sanzioni che gli sono state imposte dall’Occidente. Di fatto, non potendo più ricevere i 200 miliardi di dollari all’anno dagli amici iraniani e siriani, Hezbollah sta anche rivolgendo lo sguardo altrove, rafforzando il proprio potere relativo all’interno dell’alleanza con Siria e Iran. Riprova di ciò è stata la recente decisione di Hezbollah di riapprovare i finanziamenti (ben 35 milioni di dollari) a favore del Tribunale Speciale per il Libano (TSL), incaricato di individuare e processare i responsabili dell’omicidio di Rafiq Hariri, che sarebbe stato ucciso mentre si profilava una sua alleanza con i gruppi maroniti legati al generale Michel Aoun ed al patriarca Nasrallah Sfeir, oltre al Progressive Socialist Party (PSP) del druso Walid Jumblatt. Ancora prima che il parlamento libanese si esprimesse sulla questione, era evidente che il TSL avrebbe sottoposto a giudizio dei membri della stesso Hezbollah. Di fatto il movimento di Nasrallah avrebbe dovuto pagare milioni di dollari per farsi dichiarare colpevole dell’omicidio Hariri. Hezbollah si trovava di fronte ad un dilemma non indifferente: sacrificare la sua coerenza (fino al giorno prima definiva il TSL un’invenzione di Israele) approvando il finanziamento della quota libanese, o rischiare di far cadere il governo rifiutandosi di votare a favore, creando potenzialmente un vuoto di potere a Beirut, che sarebbe stato terreno fertile per nuove divisioni settarie e proteste di piazza. E, ancora, vanno tenute presenti le proteste egiziane contro un dilagante estremismo islamico e la situazione in Libia, che vive quella che è stata definita la “seconda generazione” delle rivoluzioni arabe, con numerose incertezza e grandissimi rischi di infiltrante islamizzazione di marca integralista. Tale preoccupazione non è affatto infondata, data lo composizione della’attuale governo, con l’ala islamista molto ampiamente rappresentata poiché è stata una componente importante delle forze che hanno combattuto il regime di Gheddafi e soprattutto ha saputo dare ai ribelli il maggior numero di combattenti. Né si può ignorare come il fattore religioso sia una componente fondamentale non solo della rivoluzione libica, ma anche delle rivoluzioni che hanno avuto luogo in Egitto e Tunisia. Il forzato estremo laicismo dello stato, ostentato dai dittatori appena deposti per molti anni (soprattutto da Ben Ali, ma anche da Mubarak e Gheddafi che con l’islam e i leader religiosi hanno avuto sempre un rapporto altalenante e tendenzialmente conflittuale), ha reso l’Islam una delle bandiere simboliche delle rivoluzioni. Come, ad esempio, in Irlanda il Cattolicesimo diventò parte integrante dell’identità nazionale in funzione anti-inglese e quindi anti-protestante, la stessa dinamica si è potuta osservare nelle rivoluzioni Nordafricane di quest’anno, dove l’Islam è stato contrapposto al laicismo ostentato delle dittature repressive. E qualcosa di simile sta avvenendo anche nei paesi democratici del Nord Africa. Quanto alla Russia, sempre ieri, 10.000 persone, fra cui l’ex-presidente Korbaciov, sono scese in strada a Mosca, per protestare contro i risultati delle ultime elezioni, in una nuova sfida all’ultradecennale potere di Vladimir Putin. Simbolicamente, la via dove si è svolta la protesta, porta il nome del dissidente sovietico ed ex premio Nobel per la pace, Andrei Sakharov e gli altoparlanti hanno diffuso una leggendaria canzone del piu’ famoso rocker dei tempi dell’Unione sovietica, Viktor Coj, leader della band Kino, che parla di libertà e condanno ogni regime. La manifestazione è avvenuta all’indomani dell’annuncio da parte del presidente Dmitri Medvedev di una riforma complessiva del sistema politico ed elettorale., anche se finora sono rimaste inevase tutte le principali richieste del movimento, tra cui l’annullamento delle elezioni e la loro riconvocazione per brogli, nonchè le dimissioni del presidente della commissione elettorale. La polizia ha fermato e poi rilasciato una decina di giovani per un flash mob nella metro, durante il quale, con la bocca sigillata da un nastro bianco (recante la scritta “restituiteci la nostra voce”), distribuivano volantini a favore di “elezioni oneste”. Per quanto il Cremlino continui a negare le accuse di brogli riguardo le ultime elezioni della Duma, gli osservatori internazionali indipendenti sono stati praticamente unanimi a riguardo e varie testimonianze hanno messo in mostra dubbi e irregolarità. Si pensi per esempio a quanto accaduto in Cecenia, dove secondo i dati ufficiali il partito di Putin avrebbe ottenuto il 99,48 per cento dei voti a fronte di un’affluenza del 99,51 per cento degli elettori. E nonostante questo, nelle ultime elezioni del 5 dicembre Putin ha vinto e pure è stato sonoramente sconfitto, con un consenso sceso dal 64 per cento del 2007 al 50, la maggioranza qualificata dei deputati che serviva a poter modificare la Costituzione, spazzata via, quella assoluta difesa a fatica e , mentre il partito del potere arretrava, le altre tre formazioni rappresentate alla Camera bassa, sono progredite o permettendo ai comunisti, considerati l’ unica vera opposizione e dunque beneficiati dal voto di protesta, di arrivare vicini al raddoppio dei suffragi. Questi risultati e la protesta di ieri, dicono a Putin che se non vuole che la sua quota di consenso cali ulteriormente, deve, come annunciato da lui stesso dopo il voto, “modernizzare” il Paese. E non gli basteranno l’ imminente ingresso nell’ Organizzazione mondiale del commercio, l’ eventuale aumento degli investimenti o la tanto invocata diversificazione di una economia energia-dipendente. Perché in un modo o nell’ altro dovrà essere affrontata la questione della democrazia. Ieri contro Putin, l’ultimo zar di una Russia senza pace, non c’ero solo Paris Hilton, che è russa di nascita ma poco ha preso dell’intelletto della grande nazione dei Puškin, Gogol’, Dostoevskij, Lermontov, Turgenev, Tolstoj, Gorkij, Cvetaeva, Cechov ed altri, ma anche una larga rappresentanza della intellighenzia interna e di tutto il mondo. Con questi segnali Putin farà bene a capire che “nulla è più come prima” e che lo scorso secolo, anche se breve e la crisi planetaria attuale, hanno avviato quella politica della masse che digerisce in fretta e male ogni tipo di dittatore, dopo un trionfo più o meno effimero. Il sistema politico potrebbe svilupparsi più velocemente e in maniera più inaspettata di quanto non pensiamo, ha detto l’ex leader dell’Unione delle Forze di Destra, il governatore della regione di Kirov, Nikita Belykh, in riferimento alle proteste di piazza di ieri. Secondo Belykh, Kudrin si trova su una lista molto ristretta di politici che sono capaci di unire gli ambienti liberali e di appassionare le classi sociali; ha senso usarlo per creare un programma costruttivo che dovrebbe basarsi sull’energia della folla.Il politologo Mikhail Vinogradov ritiene che le proteste attuali abbiano uno scopo molto più vasto che non semplicemente chiedere che i risultati delle elezioni della Duma siano annullati; anzi, afferma, “si tratta di uno schieramento anti-Putin che guida le sommosse”. “Ma è improbabile che i manifestanti accetteranno Kudrin al posto del ritorno di Putin”, aggiunge; nonostante la sua reputazione, Kudrin non ha l’opportunità al momento di attuare una manovra politica indipendente, visto che le prossime elezioni si svolgeranno fra cinque anni.

Carlo Di Stanislao

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