I problemi in corsa di Obama

Con la sua vittoria in Florida , pare ormai certa la candidatura repubblicana di Mitt Romney contro Obama, nella corsa alla Casa Bianca. E, scrivono alcuni giornali, fra cui Il Fatto Quotidiano da noi, con un deciso sostegno da parte del primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu che, secondo lo scrittore e giornalista progressista Max Blumenthal, […]

Con la sua vittoria in Florida , pare ormai certa la candidatura repubblicana di Mitt Romney contro Obama, nella corsa alla Casa Bianca.

E, scrivono alcuni giornali, fra cui Il Fatto Quotidiano da noi, con un deciso sostegno da parte del primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu che, secondo lo scrittore e giornalista progressista Max Blumenthal, figlio di un consulente di Bill Clinton, si servirà della crisi iraniana per scendere in guerra e favori un clima tale da portare un conservatore come Romney alla presidenza, i problemi per Obama diventano spinosi.

Blumenthal sostiene, come integralmente visibile su blog www.potus2012.it, che e’ evidente che un paventato attacco israeliano al’Iran, che secondo alcuni dovrebbe avvenire in primavera, avrebbe conseguenze immediate sulla campagna elettorale.

Ci sarebbero manifestazioni e forti pressioni su Obama, poiché, come ha detto di recente l’economista Nouriel Roubini, una guerra in Iran avrebbe infatti conseguenze drammatiche sull’economia mondiale, e in particolare su quella americana.

L’Altro grosso problema per il presidente uscente è di non essere riuscito imprimere un cambiamento nel punto più nevralgico e delicato, il sistema finanziario.

E’ chiaro che chiunque avrebbe avuto i sudori freddi a cambiare qualcosa di fronte al baratro apertosi con la più grande crisi finanziaria dal ’28.

Ma vedere incaricati in posti chiave le stesse persone, se non responsabili, ma sicuramente colluse col sistema che ha provocato la crisi, lascia basiti e tristi, statunitensi e stranieri.

Ma, in attesa del Super-Martedì (il 6 marzo prossimo), in cui le primarie in 10 Stati potrebbero mettere un punto fermo nella corsa alla nomination, dando la spinta decisiva alla candidatura di Romney che oggi dovrebbe vincere con facilità in Nevada, Obama rifiata grazie al fatto, diramato ieri, che a gennaio l’occupazione è cresciuta a un ritmo addirittura superiore a quello di un dicembre già molto positivo, sconfiggendo le previsioni pessimistiche degli economisti e della stessa Federal Reserve.

Tuttavia, la situazione economica degli Usa resta molto difficile: il bilancio positivo degli ultimi mesi ha consentito di recuperare solo una frazione dei 9 milioni di posti persi con la grande recessione del 2007-2009.

Rimane, poi, il sospetto che questa apparente svolta sia influenzata da fattori momentanei: nel caso di gennaio un clima eccezionalmente mite che non ha bloccato, come negli anni scorsi, le lavorazioni che si svolgono all’aperto.

Un altro dato positivo, oltre alla salita di Wall Street e al’apprezamento del dollaro, è il fatto che la disoccupazione è all’8,3%: il livello più basso dal febbraio 2009, i giorni del suo insediamento alla Casa Bianca.

Ma si tratta sempre di una disoccupazione preoccupante, pari a quella italiana che è monitorata da tutti gli osservatori con forte apprensione.

Anche se dovesse avere ancora vari mesi positivi, resta per Obama il fatto denunciato ieri dal New York Times che, dati alla mano, dimostra che è sempre più evidente come la SEC (Security and Exchange Commission), nonostante abbia sguinzagliato decine di ispettori per prevenire le frodi di Wall Street, in realtà si sta rivelando timida nelle ‘punizioni’ e molto magnanima nei perdoni, soprattutto delle grandi banche salvate dal governo che hanno continuato a imbrogliare con informazioni sbagliate i propri investitori.

Colossi come JP Morgan Chase, Merryl Linch, Morgan Stanley, Wachovia/Wells Fargo e molti altri, non solo sono stati beneficiati con vigorose iniezioni di denaro pubblico, ma ora stanno rifacendo miliardi di dollari di profitto e anche se condannate a pagare centinaia di milioni di dollari per il risarcimento delle loro frodi, non sborsano che qualche spiccio.

Infine c’è il problema di una Nazione dove i politici fanno a gara per dichiararsi cristiani e pro-life, una Nazione in cui il 92% è credente e il 47% è ormai diventato pro-life (i pro-choice calati al 45%), in particolare giovani, con i repubblicani sulle barricate ed i democratici rimasti a guardare.

E anche se, dal finire del mese scorso, Obama ha cercato di riconquistare qualche consenso dopo aver obbligato, a partire dall’agosto 2013, le chiese e le associazioni religiose a offrire ai propri dipendenti un’assicurazione sanitaria che contempli i rimborsi per la contraccezione e l’aborto, i cristiani più intransigenti non si dicono convinti.

Anche se i democratici non si fanno capaci che Barack Obama, dopo la vittoria a valanga del 2008, possa vincere il secondo mandato di misura, come sembra oggi molto possibile, le cose stanno proprio così.

E anche se questa (presunta vittoria) di pochi voti sarebbe un’eccezione in una lunga serie di precedenti che vede i presidenti americani vincere la rielezione con risultati molto migliori della prima sfida; i problemi sul campo la rendono inevitabile.

Così, in questi giorni, si fa sempre più insistente la voce secondo cui, nello stretto entourage di Obama sarebbero in molti a consigliare al presidente una mossa che potrebbe mettere la rielezione al sicuro: cambiare ticket, mandare Biden a riposo e portare alla Casa Bianca come vice-presidente, l’esponente democratico che è oggi al top di tutti i sondaggi di gradimento, persino in quelli repubblicani: Hillary Clinton.

Ed oltre ai sondaggi, che vedono nella coppia Obama-Hillary il “dream-team”, c’è anche la politica a rendere credibile una simile ipotesi.

Hillary Clinton, infatti, viene vista come un candidato indenne dal disastro della politica economica obamiana e in grado di vantare invece risultati apprezzati e credibili sul fronte della politica estera.

Non basta; al sostegno di cui la Clinton gode tra l’elettorato bianco più anziano,  si aggiunge quello mai tramontato, tra le donne, i latinoamericani  e gli ebrei, che potrebbe rivelarsi decisivo per la rielezione in stati cruciali come la Florida.

Siamo quindi molto felici che, come primo contatto con l’amministrazione americana, Mario Monti incontrerà Hillary Clinton, garanzia di ponti futuri fra nostro Paese ed USA, necessari ed anzi indispensabili per la crisi di ciascuno.

Il 9 febbraio Monti sarà in visita ufficiale negli USA, ma è l’incontro di oggi con la Clinton che sarà cruciale.

Certo un breve incontro e non un vero e proprio bilaterale, ma che segnerà, oltre alla prima stretta di mano del Professore con il segretario di Stato americano, la preparazione di una agenda fitta di temi da affrontare sulle relazioni bilaterali, rilanciando una nuova stagione di rapporti dopo l’era Berlusconi ed in un periodo di reciproca, globalizzante crisi.

Carlo Di Stanislao

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